Capitolo XV

«Frau» e «Fraülein» Fischer

Quanto aveva dormito De Vincenzi? Non lo sapeva.

Fu risvegliato da picchi ripetuti e sempre più forti alla sua porta. Doveva esser notte alta. A ogni modo, dalla finestra, che lui aveva lasciata aperta, veniva il chiarore delle lampade ad arco della piazza e anche la frescura notturna di quel giugno alsaziano non completamente mite.

Si fregò gli occhi, ebbe un istante di meraviglia nel trovarsi tutto vestito sopra un letto che non conosceva, in una camera d’albergo, che all’improvviso, destato di colpo, non ricordava d’aver conosciuta mai.

Fu la sua valigia aperta sul pavimento, ch’egli non s’era preso neppur la cura di richiudere, quando l’aveva tolta dal letto sul quale l’aveva messa per vuotarla, oppure la grossa voce del commissario Ernwein, che gli fece tornare la memoria?

Saltò dal letto, girò il commutatore, allontanò col piede la valigia, avvicinandola alla parete, e disse:

– Entrate!

La porta si aprì e nel riquadro di essa si profilò una figura enorme, massiccia; un volto grasso e flaccido d’un pallore viscido, acquoso; due occhi chiari, buoni; e quel volto era come tagliato buffonescamente da due baffoni neri, grossi, gonfi, due baffi da tambur maggiore, e sormontato da un cappello duro, a meloncino, incredibilmente piccolo eppure perfettamente adatto alla sommità di quel cranio a pan di zucchero.

– Commissario De Vincenzi?... Commissario Ernwein della Brigata Mobile di Strasburgo... Ja... Sì, caro collega! Dolente di disturbarvi alle due di notte; ma ho pensato di far bene a venire...

Tutto d’un fiato e poi un largo sorriso delle labbra carnose, rosse corallo, sul pallore del volto e sotto il nero dei baffi.

Avanzava con la mano tesa, e dietro di lui, quasi per un fenomeno di sovrapposizione d’immagini, nel riquadro della porta apparve un’altra figura tarchiata, tozza, un altro volto rotondo, ma rubizzo questo e lustro, con due occhietti sfavillanti da furetto.

Ernwein si guardava attorno. Si tolse il cappello. De Vincenzi avanzò una seggiola, fece cenno all’altro uomo di entrare. Ma il commissario s’ostinava a fissar la parete di destra. Finì coll’andare a toccarla, quasi volesse rendersi conto a quel modo del suo spessore. Ma vide su quella parete la porta di comunicazione con la camera di Kiergine e non dovette aver più dubbi, perché ritornò in mezzo alla stanza e abbassò la voce per dire:

– Impossibile parlar qui dentro – e indicava la parete. – L’uomo è entrato nella stanza accanto e può sentire il nostro discorso.

Kiergine era tornato! De Vincenzi ebbe un moto di stupore.

– Ma che ora è?

Il commissario di Strasburgo trasse dal taschino un orologio di metallo in proporzione con la sua persona, che doveva misurare un metro e ottanta per lo meno, con un diametro adeguato:

– Ve l’ho detto! Le due e dieci minuti, esattamente.

E Kiergine era andato via dall’albergo che non erano le sette!

– È tornato?

– Sì. Naturalmente! Non saremmo qui, se non fosse tornato. Loewerlein – e indicò dietro di sé il compagno, che sorrise con un movimento del capo di saluto – il maresciallo Loewerlein lo ha seguito e lo ha riaccompagnato fin qui.

– È tornato solo?

– Con Loewerlein alle calcagna!

– Ma solo?

– Sicuramente!

Che cosa poteva sapere il povero Ernwein, con la sua testa a pan di zucchero, che il russo sarebbe dovuto tornare accompagnato da una donna, la quale aveva abbandonato in un canotto un impermeabile rosso e una borsetta gemmata?

Involontariamente, De Vincenzi sorrise. Ma il suo cervello lavorava con febbre. Kiergine non era stato assente che sei o sette ore ed era tornato senza Paulette Garat!

– Che cosa ha fatto?

– Non è bene parlare, qui. Scendiamo in una sala terrena.

– È venuto in albergo ed è salito nella sua stanza?

– Sì. Ma venite. Scendiamo.

De Vincenzi era preoccupato. Andò a porre l’orecchio contro la porta di comunicazione. Per qualche istante non sentì nulla, poi percepì il respiro interrotto, affrettato del russo. Doveva essere sveglio. Forse s’era seduto sul letto e fissava davanti a sé il vuoto, come nella camera dell’Europa. O forse s’era gettato a ginocchi contro il letto e piangeva, stringendo fra le mani la cornice vuota, che aveva contenuto il ritratto della donna che amava e che non era mai stata sua!

Il commissario alsaziano e il maresciallo avevano seguito i movimenti di De Vincenzi con curiosità e adesso si guardavano tra loro, interrogandosi.

Ernwein fece un passo verso di lui.

– Temete qualcosa?

– Era perfettamente calmo – interloquì Loewerlein.

De Vincenzi si rizzò.

– Andiamo abbasso.

Scesero. Nel vestibolo ardeva soltanto la lampada verde sul banco del portiere, che spandeva attorno un chiarore offuscato e un cerchio di luce cruda sul piano del banco e su mezzo corpo del portiere di notte, che si alzò quando sentì i passi dei tre.

– Nic, aprici la saletta di lettura.

L’uomo discese, passò attorno al suo pulpito illuminato, andò nel fondo ad aprire una porta a vetri colorati. Girò il commutatore e la stanzetta s’illuminò, mostrando quattro piccole scrivanie di legno, i sottomani con la carta asciugante verde, l’ottone dei calamai e qualche poltrona di vimini attorno a un tavolo pieno di riviste e di giornali.

Ernwein entrò pel primo, per fare gli onori di casa, mentre il maresciallo si fermava di fianco alla porta, lasciando il passo a De Vincenzi.

– Nic, puoi servirci qualcosa, a quest’ora?

Il portiere si frugò nella tasca del grembiule di panno verde e fece suonare le chiavi.

– Debbo andare in cantina. Che cosa servirò a lor signori?

– Una bottiglia di scura...

Nic si avviò.

– Un momento! La tenete in ghiaccio, la birra? Perché altrimenti...

– C’è la ghiacciaia elettrica, commissario – rispose l’uomo, senza fermarsi.

– Uhm! – bofonchiò Ernwein. – Sediamoci, caro collega!

E quando furono tutti e tre attorno alla tavola, il commissario alsaziano diede un colpo con la mano aperta sulla spalla del suo sottoposto, che gli si era seduto al fianco.

– Coraggio, Loewerlein! Racconta!

– Poco da raccontare, capo! Un pedinamento sans histoire!...

De Vincenzi ascoltava e non faceva che pensare col cervello in tumulto; non ha trovato Paulette Garat!... Quali saranno adesso le reazioni di Kiergine? Quale nuova deviazione imprevedibile avranno gli avvenimenti? San Remo! Occorreva tornare a San Remo. E lui che da quattro giorni non sapeva neppure che cosa fosse accaduto laggiù!

– E facile, per giunta! – continuava il maresciallo. – L’uomo non ha dubitato neppure un momento di esser filato. Tranquillo e sereno, lui! Dall’albergo andò alla stazione. Chiese un’informazione allo sportello dei biglietti, si fece dare un biglietto per Kehl, entrò nella sala d’aspetto di prima classe. C’era da attendere oltre mezz’ora. Attese seduto sul divano, immobile, senza leggere un giornale, senza dar segno d’impazienza, neppure quando la mezz’ora fu trascorsa e il treno non arrivò.

Aveva venti minuti di ritardo. Arrivammo a Kehl quasi alle nove.

– Dov’è Kehl? – chiese De Vincenzi, ed Ernwein lo guardò con meraviglia.

– È la prima stazione tedesca, dopo il Reno... la prima dopo la frontiera... La testa di ponte di Kehl, voyons!, a dodici chilometri da Strasburgo per ferrovia, a meno di cinque chilometri col tranvai...

– E poi? – interruppe De Vincenzi, rivolto a Loewerlein, ringraziando con un cenno del capo il commissario, per le sue informazioni geografiche.

– E poi... Nulla o quasi!...

Tornava Nic con la birra. Dovettero aspettare che sturasse la bottiglia, che mescesse.

– Vede, se è fresca?

– Bisogna sentire, non vedere! – ed Ernwein mise le labbra e i baffi nel bicchiere colmo, bevve golosamente, fece schioccare la lingua, tirando un sospiro soddisfatto. – Fresca, Nic! Sei un galantuomo!

Da quel momento gli sguardi di De Vincenzi tornarono ogni tanto sui baffi del commissario alsaziano, che erano bianchi di schiuma e che lui non si asciugava.

– Dunque?

– In treno io passeggiavo pel corridoio. L’uomo si era seduto in uno scompartimento di prima classe. Era solo, naturalmente. Chi volete che viaggi in prima classe sulla linea Strasburgo-Baden, che è una linea assolutamente locale? A Kehl discese. Deve essere pratico dei luoghi, lui. Uscì dalla stazione, fece il giro del paese e prese subito la strada del Reno. Superò il porto senza fermarsi; continuò al nord. Voi non conoscete quei posti, credo. Ebbene, è una pianura fertile e, lungo il fiume, dopo il porto, son tutte ville e chalets. Era notte e camminavamo al buio. Io pensavo: chi sa dove mi porta! Ma fu breve. Si fermò a una villa, piccola, che dà sul fiume, con un orto verso terra e alcune piante d’alto fusto... abeti, credo, che la nascondono quasi... Si avvicinò al cancello, guardò nell’interno dell’orto verso la villa... Poi spinse il cancello, che doveva essere aperto, ed entrò. Poco dopo, vidi che la villa s’illuminava. L’avevano fatto entrare. Mi misi a sedere su un paracarro e dissi a me stesso «Loewerlein, povero giovane, tu passerai la notte all’aperto, sotto le stelle, davanti al Reno silenzioso e pieno di luci...». Non è stato così, perché Iddio non lo ha permesso!... Dopo circa mezz’ora, sentii passi sulla ghiaia di quella specie di giardino e vidi riapparire il mio uomo. Si fermò di nuovo davanti al cancello. Sostò lungamente. Sembrava che non sapesse decidersi ad allontanarsi... Finalmente, lo vidi agitare le braccia, come se parlasse da solo... e riprese la strada per la quale era venuto, in fretta, quasi correndo... Tornò alla stazione, attese il treno di mezzanotte e... eccoci qui. Lui è venuto in albergo, è passato davanti al portiere, senza dire una parola ed è salito... Io ho telefonato al Capo e, quando lui è arrivato siamo venuti a svegliarvi... Ecco!

Vuotò d’un colpo il bicchiere colmo, che Ernwein gli aveva messo davanti e che lui non aveva voluto toccare, prima di aver finito il racconto della sua spedizione.

– Ma chi è quest’uomo? Loret mi ha accennato alla scomparsa di una donna... a due assassinii... al furto di due milioni...

– Una storia lunga!... – mormorò De Vincenzi.

Kiergine da chi era andato in quella villa?... Come poteva credere che vi si trovasse Paulette Garat? E adesso?

– Un paio d’ore per andare a Kehl?

– All’incirca. Ma vi consiglio di andarvi col tranvai e non col treno. Il ponte di ferro è magnifico, una delle bellezze di Strasburgo... come la Cattedrale e l’orologio... Avete visto l’orologio?...

– Domani mattina...

– A mezzogiorno manda fuori dodici figure animate... Una meraviglia!...

– Domani mattina andrò a Kehl... Volete accompagnarmi? – s’era rivolto al maresciallo, che guardò il suo Capo.

– Naturalmente! Loewerlein è a vostra intera disposizione...

– Grazie. Saprete condurmi a quella villa?

– Ma certo! Ho studiato ogni particolare del cancello... la forma degli alberi... in quella mezz’ora di attesa...

– Bisognerà che il russo sia sorvegliato durante la mia assenza, commissario Ernwein... Potrete mettere un uomo nella mia camera...

– Come volete...

– Andremo laggiù alle sette... anche prima...

– Alle sette è un’ora giusta! – si affrettò a dire il maresciallo.

E guardò l’orologio:

– Sono le tre, oramai... Non andrò neppure a coricarmi...

De Vincenzi si alzò.

– Ancora un bicchiere?... – ed Ernwein tese la bottiglia verso il collega.

– Grazie!... Basta...

– Berrò io.

Altra schiuma gli si addensò sui baffi.

Uscirono, stringendo la mano a quel commissario italiano che era venuto fino a Strasburgo per non farli dormire.

– Alle sette sarò qui... nell’atrio... ad attendervi... – disse Loewerlein. – Condurrò con me l’agente da lasciare di guardia. Gli darete le istruzioni.

– Grazie.

Nic apriva la porta ai due, tornava verso di lui in fretta:

– L’ascensore, signore...

De Vincenzi era già per le scale.

– Non importa! Il caffè alle sei e mezza, in camera...

– Impossibile, signore! Fino alle sette, le cucine sono chiuse.

– Bene... La sveglia, allora...

Quando fu in camera, corse a mettersi in ascolto alla porta di comunicazione.

Sempre lo stesso respiro interrotto, ansioso, che aveva pause lunghe.

Purché non si alzi e venga qui! Pensò. Lui non voleva vedere il russo, prima di essere stato a Kehl. Che cosa avrebbe trovato nella villa sul Reno?

***

Fu la più triste mattina che De Vincenzi avesse mai conosciuta.

Presero il tranvai alla porta meridionale di Strasburgo.

Loewerlein aveva gli occhi gonfi di sonno, il volto di solito paonazzo gli si era fatto violaceo, guardava il compagno con umile rimprovero. Ma perché era venuto proprio a Strasburgo a gettare il turbamento nella loro quieta esistenza? Non accadeva mai nulla a Strasburgo! Soprattutto di notte e alla mattina alle sette...

Il tranvai si mosse coi suoi scarsi viaggiatori, ché l’ora degli operai era passata. Infilò il viale. Tre chilometri tra fabbriche e officine.

Una nebbia filacciosa sembrava levarsi dalla terra come fumo e si fermava sui rami degli abeti e delle querce che fiancheggiavano la strada.

E pioveva.

Il giorno avanti c’era stato il sole, come gli altri giorni precedenti, come tutto il mese di maggio e quei primi di giugno, che preludevano ai salutari calori dell’estate. E quella mattina pioveva!

Una pioggerella sottile, continua, penetrante. Il maresciallo teneva lontano dalle gambe l’ombrello, che aveva formato una larga pozza d’acqua sul pavimento del tranvai. De Vincenzi era senza impermeabile, col cappello che gocciolava.

Il paesaggio tutto attorno contribuiva ad aumentare quella tristezza, che l’opprimeva, fino a dargli un senso d’angoscia.

Le poche ore che aveva passate in letto, erano state spasimose.

Il corpo stanco era caduto in una sonnolenza torbida, durante la quale il cervello aveva continuato a pensare. Egli aveva l’impressione di essersi sdoppiato e vedeva i suoi pensieri, distaccati da sé, continuare la loro ridda, mentre lui era impotente a dominarli.

Le più grottesche visioni si erano accavallate così, senza dargli pace. Che senso di liberazione, quando eran venuti a bussare all’uscio, per destarlo!

Di Kiergine non sapeva nulla. Che si trovasse ancora nella sua camera e che vivesse, lo diceva quel suo respiro irregolare, rotto a pause impressionantemente lunghe.

S’immerse nel bagno e si vestì, cercando di fare il minor rumore possibile. Non voleva vederlo. Pensava con accoramento a quella sua immobilità dolorosa e al momento in cui avrebbe dovuto parlargli, dopo aver conosciuto la realtà di Kehl.

Guardava, adesso, ai lati del viale, le piccole birrerie di legno, coi tetti triangolari, i balconi sporgenti a rettangolo, le finestre fiorite e ornate di tende bianche. Ma tutto annegava nella pioggia e nella nebbia.

– Peccato che piova! – mormorò Loewerlein, per dimostrare che s’interessava a lui, dicendogli a quel modo che altrimenti il paesaggio lo avrebbe ricambiato della levataccia.

Da qualche casa uscivano persone curve sotto la pioggia. Anche donne con le cuffie alsaziane ad ali spiegate, che raccoglievano l’acqua come grondaie.

Tutto era nero, lucido d’acqua scorrente. La strada piegava e il vento batté di fianco il tranvai: contro i vetri del finestrino cominciò una doccia a ventaglio. La pioggia, adesso, cadeva fitta, dura come grandine.

– E dobbiamo fare il ponte a piedi!

Loewerlein si tolse il cappello e si asciugò la fronte madida, perché l’afa in quel tranvai tutto chiuso opprimeva. Salì un gruppo di scolari col berretto a visiera. Parlavano tedesco. Di tanto in tanto, picchiavano coi righelli sulle tavolette dei libri, per fare il tamburo.

Fu l’ultima curva. Le querce e gli abeti s’infittivano. Il tranvai si fermò davanti al ponte in ferro, il cui ingresso sembra la facciata di una cattredale, coi suoi due archi maestosi, le torrette gotiche smerlettate e traforate, le guglie sottili con la croce, e il gallo in mezzo agli archi, ritto sulle zampe nervose.

Diviso in due parti, una per la ferrovia e l’altra pei pedoni e i carri, si stendeva a perdita d’occhio, fino all’altra riva. Sembrava interminabile.

– Là in fondo è Kehl.

Il maresciallo si fece dare il passaporto da De Vincenzi ed entrò a farlo timbrare nella casetta dei doganieri.

De Vincenzi attese, sotto la pioggia.

E poi si avviarono sul ponte, coprendosi alla meglio con l’ombrello di Loewerlein, che da ogni stecca faceva scorrere tutt’attorno fili d’acqua compatta.

Arrivarono finalmente davanti ai doganieri e alle guardie tedesche, che li guardarono passare, ridendo.

Si rifugiarono in una birreria della piazza.

Appena nella stanzuccia, mandarono un sospiro. Erano fradici. E rimanevano ritti in mezzo alla stanza, ché tutti i mobili là dentro erano laccati di bianco e di rosso e le pareti erano azzurre e le stoviglie sui tavoli d’ogni colore ed essi si guardavano attorno, non sapendo dove posarsi, ché nello stato in cui si trovavano avevano ritegno di rovinar quei mobili da bambola.

Accorse una chellerina, azzurra e bianca anch’essa, che rideva, tenendo due grandi canovacci bianchi nelle mani.

Bitte!... Bitte!...

E si mise ad asciugarli con piccoli movimenti rapidi e goffi, come se li tamponasse.

Sedettero a un tavolo e si fecero portare quel ch’ella volle, latte, crema, marmellata. Loewerlein mangiava golosamente. A poco a poco il volto gli riprendeva il suo colore, gli occhi ritornavano ridenti, pieni d’innocua malizia.

– Abbiamo scelto una bella giornata, per venire a Kehl! E chi troveremo poi, in quella villa?

Trasse dalla tasca posteriore dei pantaloni la rivoltella.

– Asciutta! – e l’accarezzò con la compiacenza del bambino a cui hanno dato un bel giocattolo.

La chellerina lo guardava, sorpresa. Anche con un piccolo senso di spavento negli occhi chiari. Lui alzò lo sguardo verso di lei e le sorrise.

– Non serve a far male a nessuno, gretchen!

La fanciulla mandò un breve riso gorgogliante.

– Venite da Strasburgo?

– Da Strasburgo, sì... A proposito, sapete chi abita nella quinta villa sulla strada del Reno?

La chellerina si avvicinò.

– Villa Monike?

Non so se si chiami Villa Monica, mia bella figliola! Ha il cancello alto, con due statuette sopra i pilastri laterali...

– Appunto! Appunto! Villa Monike. È l’unica che abbia le statuette come voi dite. Non avete veduto che sono due gobbetti di coccio?

Lui, nel buio, come poteva aver visto che erano gobbi e che erano di coccio?

– Ce li hanno messi per chiamar la fortuna!

– Oh! È gente ricca! La fortuna li assiste...

– Ma chi sono?

De Vincenzi ascoltava. Contro i vetri della porta l’acqua non batteva più. La luce cominciava ad aumentare dentro la stanza. Le nubi dovevano diradarsi, dopo essersi vuotate con l’ultimo acquazzone.

La ragazza, invece di rispondere, corse alla vetrata e guardò fuori. Tornò.

– Avremo una bella giornata. Se vi trattenete ancora un poco, uscirete col sole...

– Chi abita a Villa Monica? – chiese De Vincenzi, in tedesco anche lui.

La ragazza lo guardò e rise.

Franzose! – esclamò.

Il tedesco di De Vincenzi non era certo quello di Loewerlein.

– I signori Fischer... – disse, smettendo di ridere, e pronunziando il nome con rispetto.

– E chi sono i signori Fischer?

– Herr Fischer viaggia... È sempre lontano... Nella villa si trovano Frau Fischer e la figlia...

Herr Fischer che cosa fa?

La ragazza sembrò imbarazzata.

– Oh! – fece. – Un pezzo grosso! Dicono che appartenga a un Ministero di Berlino... Qualcosa come Kommissär o Ratgeber... Ma nessuno lo ha mai saputo con precisione... Herr Fischer non viene che assai di rado... Sta anche mesi interi senza vedere la moglie e la figlia... E quando arriva, non si trattiene mai più di un giorno o due...

Il maresciallo fissava De Vincenzi. Se le cose stavano così, che diavolo d’imprudenza gli faceva commettere quell’italiano? Un Consigliere o un Commissario di Berlino! Hai detto poco! C’era abbastanza per sollevare un incidente diplomatico, con tutto l’accompagnamento dei trasferimenti e delle sospensioni... Gli occhietti di Loewerlein correvano smarriti dalla chellerina a De Vincenzi, da De Vincenzi alla chellerina.

Il commissario non sorrise a quello spavento che, sul volto rubicondo dell’alsaziano, appariva comico. Anche lui era turbato. Possibile che questo Herr Fischer e Kauffmann fossero la stessa persona?

Aveva in tasca le fotografie prese al cadavere nell’ospedale di Barcellonette e quasi stava per mostrarle alla chellerina; ma si trattenne.

Era la fotografia di un morto e, l’avesse o non l’avesse riconosciuta per quella di Fischer, la ragazza poteva ciarlare nel paese.

– Non piove più? – chiese per troncare, e si alzò. Non pioveva più e il sole batteva sulla piazza allagata.

– Andiamo!

Pagò e spalancò la porta.

Appena fuori, il maresciallo lo afferrò per un braccio.

Herr Kommissar... –. Era tanto turbato che continuava a parlare tedesco. – Signor commissario, siamo sicuri di non prendere una cantonata? Che cosa intendete fare nella villa dei Fischer?

De Vincenzi non rispose. Camminava. Trovò da solo la strada del fiume, che si apriva a sinistra della piazza.

E da solo si fermò davanti a Villa Monica, ché i due gobbi di coccio erano più che evidenti, alti e grotteschi sopra i pilastri squadrati, di fianco al cancello dorato e lanceolato in argento.

Loewerlein gli stava dietro. Di fronte al suo silenzio non aveva osato insistere, ma gli si leggevano sul volto il disappunto e la preoccupazione.

– È questa?

– Senza errore! Ieri sera io mi sono seduto là, guardate... – e indicava la pietra miliare, che recava una freccia verso il nord e il numero dei chilometri.

De Vincenzi guardò oltre il cancello. Due querce e qualche abete fiancheggiavano il primo tratto del viale, che andava diritto alla villa.

Più chalet che villa, essa aveva il tetto aguzzo e spiovente di tegole rosse e una grande veranda terrena, alla quale si accedeva nel mezzo con pochi gradini.

A destra e a sinistra del viale diritto, un’ortaglia ravviata e composta sembrava giardino.

Loewerlein fece un ultimo tentativo, per guadagnar tempo.

– Non vi pare che sia troppo presto per suonare? Dobbiamo disturbare una signora!

– Sono le nove passate da parecchio – rispose De Vincenzi e tirò la maniglia del campanello, che squillò in lontananza, di fianco alla villa.

Nessuno comparve.

La villa sembrava disabitata.

Attese qualche minuto, poi tirò di nuovo.

Nulla.

Toccò il cancello e constatò che era chiuso a chiave.

– Ieri sera era aperto! – mormorò Loewerlein. In cuor suo, lui pregava che nella villa non ci fosse nessuno.

De Vincenzi si guardò attorno.

Per la strada passavano operai in giacca di fustagno e contadini e contadine coi loro costumi caratteristicamente romantici. Guardavano con curiosità i due uomini fermi davanti al cancello e proseguivano.

A un tratto, una donna con due grandi sporte piene di vettovaglie si fermò davanti a De Vincenzi e al maresciallo e li fissò, con meraviglia.

Bitte?

– Frau Fischer, bitte? – chiese De Vincenzi con cortesia.

La donna lo squadrava. Esitò. Poi si diresse al cancello, trasse la chiave, lo aprì e passò avanti, facendo segno ai due di seguirla.

Quando ebbe raggiunta la veranda, si fermò.

– Aspettate qui! Frau Fischer a quest’ora è con Fraülein sul fiume, in barca...