Capitolo XIX

La serie...

De Vincenzi disse: – Avanti – col volto ancora per metà insaponato.

Erano le sette del mattino. Aveva dormito più di otto ore. La prima notte di riposo completo, da quando gli avevano portato Kiergine nel suo ufficio di San Fedele. Lasciat0 Racheli, era andato a letto. Una parentesi di dolce incoscienza, chiusa ormai. Diceva a se stesso che, se la sua ipotesi – non confessata ad alcun altro che al Questore di San Remo e anche a questi soltanto in parte – si fosse avverata inconsistente, non sarebbe più venuto a capo di nulla.

Cominciò a farsi passare la lama sulla guancia insaponata e attese. La porta si era aperta e poi richiusa. Cruni stava in mezzo alla camera. Lui lo vedeva dentro lo specchio e il volto del brigadiere più ancora che perplesso gli apparve desolato. I suoi occhi rotondi, invece di quel sorriso malizioso che sempre li illuminava quando veniva a riferire al suo Capo l’esito di qualche missione riuscita, eran pesti e lo guardavano stranamente pietosi.

– Ebbene?

– Nulla! Non s’è mossa dalla sua camera. In quanto a quello lassù deve aver dormito, perché davanti a me aveva preso due compresse di sonnifero...

– E la donna?

– Si è agitata tutta la notte. Andava e veniva per la camera. Muoveva le valigie. A ogni momento credevo che uscisse. Invece, nulla!

– Il russo?

– Anche lui invisibile. La porta chiusa e un silenzio di tomba.

De Vincenzi lo vedeva seduto davanti alla finestra a guardare il cielo. Non doveva aver neppure scritto il memoriale.

Aveva capito che la storia dell’assassinio commesso da lui non attaccava.

– Bene – fece De Vincenzi, che svitava il rasoio di sicurezza e si metteva a pulirlo con cura. – Nient’altro?

– Il commissario Racheli l’attende a basso.

Ancora la vedova e le sue ottocentomila lire! Dove aveva cacciato l’altro milione?

– Hai telefonato alla Capitaneria del Porto?

Sì, aveva telefonato. Inutilmente, perché non gli aveva risposto nessuno.

– Che crede, dottore? Tutta la Capitaneria di San Remo si compone di poche persone, che alla sera se ne vanno a letto tranquillamente e fino alle nove della mattina dopo la porta rimane chiusa!...

De Vincenzi non lo udiva più. Aveva messo la testa sotto il rubinetto e l’acqua spruzzava tutt’attorno.

Kiergine scelse proprio quel momento per bussare alla porta. Cruni, vedendo De Vincenzi sotto l’acqua, andò a socchiudere l’uscio e fece un atto di meraviglia, quando si vide il russo davanti, così pallido da dar l’impressione che non avesse più una sola goccia di sangue nelle vene.

– Aspettate! Il commissario sarà pronto fra dieci minuti.

Richiuse la porta. Il russo restò nel corridoio.

De Vincenzi si asciugava, terminava di vestirsi.

– Dammi quella cravatta, per favore.

Cruni la prese nell’armadio. Fuori risuonò dalle scale un colpo secco di rivoltella.

– Imbecille! – imprecò De Vincenzi.

Cruni s’era lanciato e lui dietro.

Kiergine si trovava in mezzo al corridoio. Immobile, con gli occhi sbarrati.

De Vincenzi lo scrollò, afferrandolo per le spalle e gridandogli sul volto:

– Che avete fatto?

Ma lo lasciò subito, per correre verso le scale.

A metà gradini della prima rampa che saliva al secondo piano, il corpo di Kristopoulos giaceva schiantato, così floscio e rappreso in se stess0 da sembrare un fagotto rotolato dall’alto, e non si capiva per quale miracolo di equilibrio non fosse andato a cadere sino in fondo.

Un fagotto di colori. I capelli neri e lucidi, un po’ del bianco cinereo del volto, il pigiama a larghe strisce verdi e gialle, i piedi nudi.

Cruni corse verso di lui e inciampò in una ciabatta, ch’era finita sul pianerottolo.

De Vincenzi, appena veduto il corpo, si volse e si gettò letteralmente addosso alla porta di Agnes Staub spalancandola.

– Datemi quella rivoltella!

E fece a tempo a strappargliela dalle mani, ché la donna l’aveva già contro il petto e soltanto perché sorpresa dalla brusca irruzione non aveva sparato.

La tedesca si ritrasse e andò ad appoggiarsi all’armadio. Lo fissava e una smorfia ironica le contraeva la bocca.

De Vincenzi guardò l’arma ancora calda. Se la mise in tasca.

– Bene – disse. – Adesso parleremo.

E andò sulla soglia della porta.

– Cruni! – chiamò.

Il brigadiere comparve assieme a Racheli, ch’era salito di corsa col portiere.

– Già! Ci sei tu. Fa’ tutto quello che occorre, Racheli... Disponi di Cruni. Appena arrivato il dottore, manda via il corpo... Immagino che sia morto.

– Freddato! – disse Cruni. – L’ha preso al cuore.

– Questa qui non sbaglia!... Non c’è altro... – Guardò Kiergine, che non si muoveva. – Fallo rientrare nella sua camera e sorveglialo... Fra poco avrò finito... Voglio interrogarla subito...

Chiuse la porta e tornò verso Agnes Staub.

Notò, allora, che la donna indossava un abito da viaggio e che le valigie erano chiuse. Anche il servizio da toletta era scomparso. Doveva essersi coricata gettandosi appena sul letto, perché la coperta era tirata e portava la impronta del corpo. Sul tavolo si vedevano il cappellino, la borsetta, i guanti.

– Dove avete messo i vostri brillanti, signorina Staub?

Lei batté le palpebre, sorpresa dalla domanda impreveduta. Non rispose, ma aveva dato un’occhiata alla borsetta.

– Sono falsi?

Sorrise con disprezzo.

– Come vorreste che non lo fossero?

– Credo, invece, che siano autentici. Fischer vi pagava bene, se avete ucciso Kristopoulos per impedirgli di parlare.

La smorfia ironica si accentuò sul volto di lei.

– Non lo servivo per denaro!

– Ma lo servivate! E il Consigliere Fischer era un agente dello spionaggio tedesco.

– Anch’io sono tedesca!

– Appunto!

– Non c’è altro da dire. Ho ucciso il greco, perché non parlasse, e non sarò io a farlo al suo posto! Arrestatemi e non sprecate il vostro tempo con le chiacchiere. Se Kristopoulos me ne avesse lasciato il tempo, non gli avrei fatto la festa in modo tanto idiota. E se voi...

– Naturalmente! E se io non fossi intervenuto, vi sareste uccisa.

Alzò le spalle.

– Se credete che ci tenga a vivere!

Lo disse con un tale accento, che De Vincenzi fremette. Incosapevolmente esclamò:

– Eppure siete giovane!

Una risata stridente.

– Perché non dite che sono bella?

Fece un passo verso di lui. De Vincenzi si aspettava ben altro e fu proprio un balzo d’orrore quello che fece, quando lei portò rapidamente una mano alla guancia e rialzò di colpo l’ala d’oro dei capelli, scoprendo interamente il lato destro della testa! Mostruoso! Dalla tempia all’attaccatura del collo, dietro l’orecchio, era tutta una cicatrice. Al posto dell’orecchio un piccolo foro. Si vedeva la carne rossa, infiammata, corsa da infinite sottili venature bianche.

Rise ancora. Poi lasciò ricadere la mano e la visione atroce scomparve. Il volto tornò a inquadrarsi nel casco d’oro. La donna riprese il suo aspetto teatrale.

Soltanto gli occhi le brillavano foschi, accesi da un fuoco d’odio.

Fu il silenzio.

De Vincenzi si accorse di ansare e sentì che il cuore gli batteva a piccoli colpi precipitati, come quando si trattiene il respiro.

A poco a poco la fiamma si spense nelle pupille di lei e lo sguardo le si fece smarrito.

– Non credete, adesso, d’aver fatto male a togliermi la rivoltella?

Ma la voce era ferma e c’era soltanto sfida nell’accento.

De Vincenzi sentì il bisogno di muoversi, di agitarsi, di parlare. Non poteva guardarla. Gli era impossibile fuggire da quella camera e pure era l’unica cosa che avrebbe fatta! Si chiedeva con angoscia la ragione dell’atto di lei. Sapeva d’essere irreparabilmente perduta? Giocava tutto per tutto e aveva sperato d’impietosirlo? Di sconvolgerlo, piuttosto, di turbarlo. Aveva capito che lui sarebbe riuscito a farla parlare e s’era afferrata a quel mezzo estremo, per creare una diversione.

– Ebbene?

Occorreva vincersi! La situazione diventava insostenibile. Quell’ebbene aveva fischiato come una frustata.

– Sedetevi! – ordinò.

Prese una seggiola, la mise in mezzo alla camera, afferrò la donna per le spalle, l’obbligò a sedere.

Aveva ritrovato la sua energia. Era pronto a tutto.

– Ascoltatemi!

Le si piantò davanti, trovò la forza di fissarla negli occhi. Era bellissima, del resto; ma lui vedeva ancora sotto i capelli la cicatrice, quella mutilazione sconcia dell’orecchio.

– Ascoltatemi! – ripeté. – Non c’è bisogno che mi diciate se risponde alla realtà quel che io dirò adesso. So perfettamente che è così. Fischer ha condotto tutta la sua guerra contro una sola persona: Paulette Garat. Aveva bisogno di distruggerla. Per questo soltanto si è attaccato a Kiergine, sul quale aveva un potere materiale, ipnotico, oltre quello costituito da qualche interesse che mi sfugge, ma che mi sarà facile scoprire. Ed è stato per questo che ha fatto venire a San Remo voi e Kristopoulos. Quel che meditava di fare contro quella donna, che era una spia francese, una sua nemica dichiarata, e che forse gli aveva anche causato qualche danno grave, io lo ignoro. Il fatto è che lei è stata più pronta. Non soltanto gli è sfuggita, ma ha voluto, sfuggendogli, perderlo. È scomparsa, abbandonando un canotto insanguinato e quel che occorreva per far credere che l’avessero assassinata. Nello stesso tempo, induceva Kiergine a partire da San Remo o con qualche missione realmente utile per lei o con una facile mistificazione, perché lo sospettassero e l’arrestassero. Qui aveva fatto rimanere Eduard Letang, che era come lei una spia. Quando Fischer comprese il piano, volle reagire e per prima cosa tolse di mezzo Letang...

De Vincenzi parlava lentamente, scandendo le parole, fissando sempre la donna negli occhi. Oramai, aveva superato l’orrore. Per ricostruire quei fatti, ch’egli ignorava, aveva ritrovato tutta la lucidezza del suo cervello. Quella ch’egli riteneva la verità gli si era presentata netta e lineare senza ombre, con una rigidezza di contorni allucinante. Si era prodotto nel suo spirito un fenomeno meccanico simile a quello delle immagini proiettate sullo schermo. Ogni immagine, presa a sé, è immobile. Il movimento si produce soltanto dalla sovrapposizione rapida di esse. Era come se nel suo cervello si proiettassero tutte le immagini da lui raccolte in quegli otto giorni di avvenimenti e che separate non avevano avuto per lui alcun senso. Ora si sovrapponevano e per questo fatto soltanto vivevano.

La donna aveva compreso che sarebbe stato inutile negare, interromperlo, fare un tentativo qualsiasi per impedirgli di continuare.

Lo fissava e ascoltava.

Ma quella ricostruzione allucinante aveva avuto il dono di ridarle il senso della vita e con esso quello del pericolo. Lo spirito di conservazione si era ridestato nel suo corpo. Adesso ella non voleva più morire, anche se aveva ucciso.

Di grave, d’irreparabile, non c’era che quel suo gesto veemente con cui si era rialzati i capelli...

A uccidere Eduard Letang siete stata voi, Agnes Staub... – scandì De Vincenzi, dopo una pausa. – Sono così certo di questo, come son certo che avete ucciso Epaminonda Kristopoulos, perché non parlasse. Come son certo che il greco aveva rubato i brillanti di van Lie, senza che voi lo sapeste, per procurarsi i mezzi di fuggire con voi, ch’eravate minacciata dal pericolo di venir scoperta... Fu un errore il suo, e voi lo comprendeste immediatamente. Servì a destare i miei sospetti e a farli convergere sopra voi due. Prima potevo dubitare che Agnes Staub entrasse nel giuoco. Da quel momento fui sicuro che c’entravate, appunto perché capii che avreste voluto che quel furto non fosse stato commesso.

Aveva parlato col volto contro il volto. Si ritrasse. Cacciò le mani in tasca. Attendeva.

– E poi?

La donna si sforzava di apparire tranquilla. Ma la voce le si era fatta concitata.

– E poi? Se anche questa fosse la verità, come fareste a provarla? Qui dentro siamo noi due soli! La vostra testimonianza non ha valore, se io la smentisco. E io nego che il vostro castello di fantasie abbia una base di verità! Tutto falso, a cominciare dalla vostra affermazione che io conoscessi Kauffmann.

– Fischer!

– Meno che meno! Fantasie! Di reale, di provato, non c’è che questo fatto: io ho ucciso Kristopoulos, che era il mio amante, perché mi tradiva. Tutto il resto è vostra invenzione!... Affermate che Paulette Garat è scomparsa, ma intanto siete nell’impossibilità di ritrovarla. E se ne scopriste il cadavere? Tutta la vostra brillante invenzione cadrebbe...

Rise. Era bella. Adesso, che aveva perduto quella sua aria fatale, lo era ancora di più. Sembrava raccogliersi su quella seggiola dove De Vincenzi l’aveva costretta, quasi per tenersi pronta allo slancio. La camicetta di seta bianca dava risalto al seno duro, eretto. La gola le ansava leggermente. C’era in lei una tale vitalità animalesca, una tale vibrazione della carne, che l’uomo ne fu turbato.

– E poi?! Che cosa volete che m’importi?... Fino a che non avrete ritrovato quella francese, non avrete ottenuto niente!... Niente, capite?... Io ho ucciso Kristopoulos! Che significa questo? Che dimostra?... Che ne avevo abbastanza di lui e di tutto il suo etere, che la sua persona mi faceva schifo... schifo fino alla nausea!... Nient’altro!... E l’ho ucciso! Ebbene?...

S’era alzata. La gola e il petto le palpitavano. Gli occhi mandavano bagliori verdi. Fu un accenno quasi evanescente, ma De Vincenzi vide che la bocca di lei si contorceva in un principio di rictus isterico.

– Nient’altro!... Nient’altro!... Nient’altro!...

Martellava le parole tedesche con rabbia crescente. De Vincenzi, per quanto abituato alle crisi epilettiche di tutti gli avanzi di galera che gli erano capitati nel suo mestiere, non poté prevedere quello che accadde.

La donna si gettò a terra di colpo. Il volto le si fece orribile. Digrignava i denti e un filo di saliva le colava da un angolo della bocca. Il corpo, puntato sul pavimento con la testa e i talloni, faceva ponte. Le mani contratte annaspavano, graffiavano il legno con le unghie rosse.

La crisi isterica tipica. Esplodeva dopo una notte di agitazione compressa, che l’aveva indotta a salire nella camera del greco, a sparargli contro appena se lo era veduto davanti per le scale.

De Vincenzi non si mosse. Ogni suo turbamento era scomparso. Adesso, anche quella donna rientrava nella normalità, per lui.

Andò alla porta e la spalancò.

– Cruni... – gridò. E aveva dovuto controllarsi per non pronunciare il nome di Sani, come avrebbe fatto nel suo ufficio di San Fedele, tanto quella scena gli era familiare.

Cruni accorse dalla scala, dove un gruppo di persone si agitava.

– Vieni qui!...

Il brigadiere entrò nella stanza, guardò la donna in terra, fece un gesto.

– Non è finita, ancora!...

De Vincenzi aprì il rubinetto del lavabo. Cercò attorno a sé.

– Dammi quel bicchiere.

Cruni glielo porse. Allora, De Vincenzi vide che il brigadiere teneva ancora in mano la sua cravatta, che gli stava porgendo quando il colpo di rivoltella aveva risuonato.

Empì il bicchiere e spruzzò d’acqua il volto dell’ossessa, che si contorse più violentemente, ansimò, alzò le palpebre, gli fissò in volto i suoi grandi occhi che non lo vedevano e ricadde pesantemente, stremata. Si assopiva.

– Aiutami!...

La presero in due e la misero sul letto.

– Accosta le persiane...

La camera era invasa da una luce diffusa, che dava fastidio. Il sole entrava a mezzo pavimento.

– Rimani qui. Quando avrà finito con quell’altro, ti manderò il dottore.

– Avrà poco da fare col greco. Quello è crepato!...

– Dopo, Racheli provvederà a farla trasportare alle carceri.

Uscì e richiuse la porta.

Dalle scale veniva sempre il brusio di coloro che stavano attorno al cadavere.

Kiergine era scomparso.

De Vincenzi entrò nella propria camera e finì di vestirsi. Dovette prendere un’altra cravatta dalla valigia, perché Cruni s’era tenuta la sua.

Dopo poco, usciva in fretta dall’albergo.

Aveva stretto la mano a Racheli.

– Occupati tu di tutto. È meglio che il cadavere sia portato via immediatamente...

– Aspetto il giudice.

– Sì. Sollecitalo. Spiegagli che non si può lasciare un morto a mezza scala di un albergo. Non far mettere i sigilli alla camera del greco, perché bisognerà cercare i brillanti. In qualche posto li avrà pur cacciati!...

Parlavano nel vestibolo. L’albergatore li guardava da lontano. Aveva un aspetto pietoso. Non protestava neppure. La serie nel suo albergo non finiva più!... E quei due parlavano, andavano, tornavano, senza concluder nulla... Lui si toccava i ciondoli d’oro sul ventre.

Racheli, con la pipa in bocca, le mani in tasca, il testone cacciato fra le spalle enormi, il cappello duro sugli occhi, gli chiese, con un lampo di malizia:

– E tu?

– Vado a passeggiare!... – e si allontanò a passi rapidi, come incalzato dall’urgenza.

L’urgenza c’era, infatti, dentro di lui.

Una mattina unica! Tutto rideva radiosamente nel sole. Il Casino con le due torrette quadrangolari aguzze, quella sua architettura da spiaggia e da minareto. I fabbricati barocchi degli alberghi. Le ville bianche. Tutte quelle palme, quei pini mediterranei a ombrello, quella vegetazione di un’Africa tosata e ravviata col pettine.

E il mare luminoso, con le onde, che facevano la gibigianna ai raggi del sole.

De Vincenzi camminava in fretta e guardava il mare. Raggiunse le scalette che conducono alla spiaggia. Scese sugli scogli. A qualche passo da lui un pescatore teneva la canna col braccio disteso per allungarla nell’acqua.

Sull’orizzonte, a un tratto, De Vincenzi vide una sagoma bianca che avanzava. Il giuoco delle vele quadre, bracciate a croce, gli indicò subito che il vento era buono e lo yacht andava in poppa. Dopo poco si sarebbe trovato all’altezza dei giardini. Proveniva da ponente.

De Vincenzi lo fissava e non dubitò neppure per un istante che fosse lo yacht di Kamir Pascià. I suoi calcoli erano giusti. Il turco tornava. E con lui... Certo, erano state le informazioni dategli da Victor che lo avevano spinto al rischio di un ritorno a San Remo. Lui lo aveva preveduto.

Più lo yacht avanzava, più De Vincenzi si convinceva di non essersi ingannato. Era un grande veliero, con uno scafo solido, affusolato, perfetto. Imbarcazione da tenere ogni mare e da traversate lunghe.

Si avvicinava. Adesso prendeva vento, poggiando verso la costa. Vide che rientravano le vele minori e ingombranti, per la manovra d’accostamento e d’ancoraggio. Ingrandiva. De Vincenzi scorgeva perfettamente gli uomini muoversi.

Ammainata la randa, proseguiva col fiocco e la mezzana. Ma aveva una velatura enorme, un intrico di scotte e di terzanelle. Orzarono tutto, facendo un giro ampio perché andavano di bolina, entrarono la mezzana e, messa la prora nel letto del vento, calarono le ancore. A De Vincenzi sembrò persino di udir lo stridere delle catene, tanto vedeva tutto nettamente e tanto quella manovra gli era familiare.

Mandò un sospiro.

Si volse a guardare il pescatore.

– Morde?

– Ogni mezz’ora! Ci vorrebbe un delfino al largo, in questa stagione! Allora sì!...

De Vincenzi gli fece un cenno di allegro incoraggiamento:

– Arriverà anche il delfino!

Per lui era arrivato. La pesca stava per esser buona.

Risalì la scaletta di ferro e cominciò a scendere verso il Casino. Non s’affrettava, adesso. Tutta la sua impazienza febbrile era caduta.

Si fermò qualche istante a guardare un marmocchietto biondo, roseo, tutto nudo e grassoccio, con le gambine che sembravano di burro, a cui la balia seduta su di una panchina verde faceva i vezzi, perché non piangesse mentre l’infasciava.

– Tesoro!... Stella!... Oh!... Il porcellino adorato!... De Vincenzi sorrideva con tenerezza.

Più giù si fermò ancora a fissare il mare. Lo yacht stava rientrando la velatura e gli uomini dovevano aver cominciato la pulizia del ponte. I due canotti che la goletta recava a bordo erano stati calati a mare e le galleggiavano ai fianchi, trattenuti dai cavi. De Vincenzi li osservò attentamente, ma non riuscì a vedere se uno d’essi fosse munito di motore, come gli pareva dalla forma. In albergo si sarebbe fatto dare un cannocchiale.

Tra poco, pensò, Kamir Pascià sarebbe sceso a terra. Lui non sapeva né che cosa il turco fosse tornato a fare a San Remo, né perché si fosse ancorato più vicino alla spiaggia dell’altra volta. Soltanto un presentimento lo aveva guidato nel fargli credere che da Mentone lo yacht avrebbe fatto vela per San Remo.

Riprese a camminare. Come avrebbe agito? Ormai non poteva più affidarsi al caso, ma doveva dirigere lui gli avvenimenti.

Sulla porta dell’albergo dovette farsi da parte per lasciar passare la barella col corpo di Kristopoulos.

Era appena entrato che van Lie gli correva incontro.

– Ik dank U, mijnheer!... Molte grazie... Ho saputo che sono stati ritrovati i miei brillanti...

– Meglio così!...

Era vero. Li avevano ritrovati nella camera del greco, naturalmente. Non era stato facile e Racheli s’era intestardito a cercarli, sicuro anche lui che a fare il colpo fosse stato Kristopoulos.

Quella sicurezza gliela aveva data la sera prima De Vincenzi, quando, bevendo la birra a un caffè di via Vittorio Emanuele, un po’ per farne una specie di controllo e un po’ perché aveva bisogno dell’aiuto del commissario di San Remo, gli aveva esposto la propria teoria, prospettandogli le ipotesi che riteneva probabili.

Dopo aver visitato i bagagli del greco e ogni possibile nascondiglio della camera, Racheli s’era attaccato al pavimento di legno e, disseminate sotto cinque piastrelle, che Kristopoulos aveva staccate, cercando di non lasciar tracce alle connessure, gli erano apparse le bustine dei brillanti.

– La donna? – chiese De Vincenzi.

Racheli accese la pipa.

– A Santa Tecla...

Tirò una boccata di fumo.

– E due! Per ora tutto quello che abbiamo sono due donne chiuse in carcere!

Si mise una mano in tasca e ne trasse due dispacci, che porse al collega.

– Li ha mandati il Questore per te.

Venivano tutti e due da Berlino. Erano in cifra, ma sotto ogni gruppo di numeri c’era la traduzione messa a matita del Questore.

Il Segretariato degli Esteri rispondeva laconicamente:

«Ratgeber Ruprecht Wenzel Fischer da dieci anni ha abbandonato carriera».

L’Ambasciata italiana era prudente, ma sufficientemente esplicita:

«Consigliere R. W. Fischer addetto Nachrichten-Bureau stop Segretariato Esteri ne sconfessa naturalmente appartenenza ufficiale proprio personale stop. Individuo pericolosissimo e abilissimo».

– A ogni modo – mormorò De Vincenzi, mettendosi i dispacci in tasca – pericoloso oramai non lo è più!...