I

L’Arte amatoria

I Greci lo chiamavano Eros e i Romani Cupido, ma sia i primi che i secondi lo raffiguravano come un ragazzino nudo e riccioluto dell’apparente età di cinque anni.

Dispettoso fino alla perfidia, Eros era spietato con le sue vittime. Quando un poveraccio veniva ferito da una delle sue frecce, Dio o mortale che fosse, non aveva scampo: s’innamorava della prima persona che gli capitava a tiro! In realtà, il birbante disponeva di due tipi di frecce, quelle d’oro e quelle di piombo (duo tela pharetra diversorum operum...): con le prime inoculava l’amore e con le seconde la repulsione. Un giorno Apollo, solo per avergli fatto una ramanzina, come la si può fare a un bambino capriccioso, si beccò una freccia d’oro in pieno petto che, oltre a farlo soffrire come una bestia, lo obbligò a invaghirsi di una ninfa, Dafne, che a sua volta era stata colpita da una freccia di piombo.

Di chi sia figlio Eros, e in quale circostanza sia nato, è ancora oggetto di discussione: per alcuni sarebbe figlio di Afrodite e Ares, per altri di Afrodite ed Ermes, per altri ancora del Caos, oppure del Vento e della Notte. C’è infine chi sostiene che sia sbucato da un Uovo d’Argento emerso dal Nulla e che, subito dopo, abbia creato il Cielo, la Terra, il Sole e la Luna. Per altri invece è un ermafrodito dalle ali d’oro con ben quattro teste, una di leone, una di vacca, una di serpente e una di ariete, ciascuna delle quali, rispettivamente, ruggiva, muggiva, sibilava e belava. Mo’, va’ a capire il significato allegorico di tutte quelle teste! Misteri della mitologia.

I sostenitori della tesi «Eros progenitore emerso dal Caos» affermano che senza amore non nasce un bel nulla, e che quindi deve essere stato per forza lui il primo a entrare in scena. La tesi opposta, invece, obietta che il sesso, da solo, basta e avanza per far nascere chicchessia: ne fa testo Zeus che disseminò di figli tutto l’Olimpo limitandosi a praticare lo stupro all’ingrosso ai danni di Dee, ninfe e signore di buona famiglia. Alla fine tutti d’accordo nel dire che all’inizio ci fu unicamente il sesso, e che solo in un secondo momento si entrò nell’età dell’amore con Eros e le sue temibili frecce.

Ora, però, lasciamo queste dispute al giorno in cui affronteremo la cosmogonia ed esaminiamo più da vicino il problema che ci interessa: amare è un’arte oppure un qualcosa di naturale, d’istintivo, che si può praticare così, alla buona, senza alcuna preparazione specifica?

Su questo argomento Ovidio ci ha lasciato addirittura un poema: l’Arte amatoria, ovvero il «manuale del perfetto latin lover». Per il nostro poeta, infatti, far bene l’amore presenta più o meno le stesse difficoltà del guidar bene un carro nelle gare del Circo, o del perfetto approdo di una nave in porto durante una notte di burrasca. Detto con altre parole, secondo Ovidio, come è necessario frequentare una scuola per prendere la patente, così è indispensabile leggersi tutta la sua Arte amatoria per imparare a far bene l’amore. Se non mi credete, eccovi l’inizio del poema:

Se è vero che per condurre una nave a vela o un carro leggero ci vuole un’arte, perché non dovrebbe esserci un’arte anche per condurre l’Amore? Come Tifi era il più bravo fra i timonieri, e Automedonte il più bravo fra gli aurighi, così anch’io cercherò di essere per voi il Tifi e l’Automedonte dell’Amore.

(I, 5-8)

Dopodiché, passa ai consigli pratici:

In primo luogo, cercati una persona da amare, poi, una volta che l’hai individuata, cerca di conquistarla. Il terzo impegno sarà quello di far durare questo amore il più a lungo possibile.

(I, 35-38)

E aggiunge:

Il cacciatore di cervi sa dove sistemare le reti, o in quale valle recarsi per catturare un cinghiale. Chi invece va a caccia di uccelli conosce benissimo i boschi, così come chi è appassionato di pesca conosce a menadito i fondali più pescosi. Allo stesso modo chi cerca l’amore, se vuole avere un po’ di fortuna, dovrà recarsi nei luoghi più affollati di belle donne.

(I, 47-50)

Ma dove sono questi luoghi? Ovidio non ha dubbi: a Roma.

Roma ti offrirà quante donne vuoi, e tutte così belle che a un certo punto sarai costretto a dire: «Ma questa città possiede davvero tutto quello che c’è di più desiderabile al mondo!». Le belle ragazze che vi prosperano, infatti, sono più numerose delle spighe di Gargara, dei grappoli d’uva di Metimna, dei pesci del mare, degli uccelli dei boschi e delle stelle del cielo. Venere, non a caso, ha fissato qui la sua dimora. Se ti attirano gli anni acerbi, lei ti procurerà una ragazzina adatta ai tuoi desideri, se invece la preferisci nel fiore degli anni, te ne potrà procurare addirittura mille, se infine è l’età matura quella che più ti soddisfa, allora, credimi, non ci sono limiti: ne potrai avere così tante che nemmeno proverò a contarle.

(I, 55-66)

Una volta individuata la città, Ovidio passa a elencare i luoghi pubblici a suo avviso più pescosi:

Come le formiche vanno avanti e indietro in lunga fila, portando il grano con la bocca, o come le api, sparse sui campi profumati, volano di fiore in fiore, così le donne, tutte eleganti, corrono in massa agli spettacoli più affollati. Di sicuro vanno a teatro per guardare, ma anche per essere guardate. Il teatro, infatti, è un luogo pieno di rischi per la castità e il pudore.

(I, 93-100)

Segue l’elenco di tutti i luoghi idonei all’abbordaggio.

Anche i Fori, chi lo avrebbe mai detto, sono adatti all’amore. Colà, spesso, al facondo oratore viene a mancare la parola: quando meno se lo aspetta, infatti, il poverino viene irretito da Amore. E di lui ride la bella Venere, che proprio lì accanto ha il suo tempio: poco prima quell’oratore era solo un avvocato, ora, di punto in bianco, è diventato un suo cliente.

(I, 79-88)

E come dimenticare le corse dei cavalli di razza: il Circo, con tutta la folla che si ritrova, offre molti vantaggi. Non è necessario far segni con le dita per inviare messaggi, né attendere cenni d’intesa: volendo, ci si può sedere accanto alla donna prescelta, e nessuno ci potrà dir nulla. E già, perché le linee divisorie costringono tutti a stare gli uni addosso agli altri, che lo si voglia o no, e saranno proprio le regole del luogo a favorire un contatto più ravvicinato con le ragazze. A questo punto, dovrai attaccare discorso: una qualsiasi frase basterà ad avviare la conversazione. Potrai chiedere, ad esempio, da buon tifoso: «Di chi sono quei cavalli laggiù?». E se ti accorgi che lei fa il tifo per qualcuno, fallo anche tu per lui. Quando poi sfilerà la processione degli Dei in avorio, mi raccomando: applaudi più di tutti Venere. Se poi, come spesso succede, un po’ di polvere le cadrà sul vestito, pensa tu a mandargliela via con le dita; e se la polvere non c’è, mandagliela via lo stesso.

(I, 135-151)

Anche i banchetti, con la tavola imbandita, offrono a volte buoni approcci. Il vino predispone l’animo all’amore e lo rende più vulnerabile alla passione: l’inquietudine si dissolve man mano che viene versato il vino. Allora nasce spontaneo il riso e perfino un poveruomo comincia a farsi audace. A quel punto, spariscono i dolori, gli affanni e le rughe della fronte. Per contro, spunta la sincerità, così preziosa ai nostri giorni. Ai banchetti, spesso, le ragazze sono solite rubare il cuore ai giovani, e questo mettere insieme Venere e vino è come aggiungere fuoco al fuoco.

(I, 237-244)

Detto in latino suona meglio: Et Venus in vinis, ignis in igne futi, ma il latino, si sa, è sempre più suggestivo dell’italiano; in questo caso, poi, c’è anche l’assonanza tra Venus e vinis ad abbellire l’espressione.

Una volta individuati i luoghi adatti, Ovidio passa in rassegna le strategie di attacco. Non sempre, dice, è conveniente mostrarsi vogliosi; anzi, in alcuni casi, potrebbe addirittura essere più vantaggiosa l’indifferenza.

Sono sicuro che se ci mettessimo d’accordo tra di noi maschi, di non far il primo passo con alcuna, le donne di certo prenderebbero l’iniziativa. Sui molli prati, infatti, è sempre la vacca a muggire al toro, ed è sempre la cavalla a nitrire al maschio, ogniqualvolta viene la stagione degli amori.

(I, 277-280)

A volte però le cose non sono così semplici, ammette Ovidio, tuttavia bisogna tentare lo stesso.

Coraggio, e provaci con tutte! Ce ne sarà, dico io, almeno una, fra le tante, che si lasci conquistare! E che si concedano o meno, non dimenticare che le donne sono sempre ben liete di essere corteggiate.

(I, 343-345)

Piuttosto, suggerisce Ovidio, cercati degli alleati: ad esempio, fatti amica una delle sue ancelle.

Sarà lei infatti a renderti più facili gli approcci; bada bene, però, che sia al corrente dei più reconditi pensieri della sua padrona, e che sia complice muta dei suoi svaghi segreti. Sceglierà lei il momento più propizio per comunicarle i tuoi messaggi (anche i medici badano al momento adatto) e le parlerà quando vedrà in lei l’animo ben disposto a lasciarsi conquistare. L’ancella, pettinandole i capelli al mattino, le parlerà di te, e dopo aver giurato che stai lì lì per morire d’amore, aggiungerà di suo parole persuasive. Mi chiedi se sia indispensabile sedurre anche l’ancella? Non sempre: se è bella fallo pure, cerca però di farti prima la padrona e poi la serva.

(I, 353-385)

Ma non basta:

Devi fare sempre l’innamorato, simulare a parole le ferite d’amore. Cerca con ogni mezzo di convincerla che è stata lei a trafiggerti. Bada che non dovrai faticare molto a farglielo credere, dal momento che non c’è donna al mondo che non si ritenga degna di essere amata. Gli elogi alla bellezza, poi, fanno sempre piacere, anche alle donne oneste, e perfino alle vergini. Se ciò non fosse vero, non si capirebbe perché Giunone e Minerva si siano tanto arrabbiate quel giorno in cui vennero considerate da Paride meno belle di Venere.

(I, 611-626)

Prometti senza paura (le promesse attirano sempre le donne) e chiama pure a testimoni gli Dei. Giove, dall’alto, se la ride delle bugie degli amanti: non appena le ascolta, infatti, dà subito ordine a Eolo affinché le disperda nel vento.

(I, 631-634)

Dopo averlo istigato a mentire, Ovidio si attende dall’allievo una reazione indignata, o quanto meno esitante. Ma a questo punto è già pronta la sua replica: anche le donne mentono, anzi in genere mentono di più!

Ingannare chi inganna, questa è la regola! Le donne poi, nella maggior parte dei casi, sono una razza sacrilega. E allora, coraggio: perfino le lacrime ti potranno essere d’aiuto, e fa’ che lei veda bene le tue guance inumidite. E se le lacrime tardano a venire (giacché a volte non vengono a tempo debito), bagnati pure gli occhi con la saliva.

(I, 645-662)

Questo è, in sintesi, quanto consiglia Ovidio (a noi uomini, ovviamente) nel primo libro dell’Arte amatoria. Nel secondo invece elenca, a una a una, tutte le strategie per far durare l’amore quanto più a lungo possibile, e ci dice: «Se, grazie a me, avete appreso l’arte della cattura, sarà ancora grazie a me che apprenderete l’arte del mantenimento». (Arte mea capta est, arte mea tenenda est.)

Cominciamo con l’esaminare il caso in cui un’amante avida ci chiede un regalino particolarmente costoso. Andateci piano, suggerisce Ovidio, e ricordatevi che ci sono donne capaci di ridurvi sul lastrico a forza di regalini.

Se un venditore, un vero bellimbusto, poco poco si accorge che la tua donna è una spendacciona, subito ne approfitterà per sciorinare in tua presenza la propria mercanzia. Lei allora ti chiederà di darci solo un’occhiatina, tanto per dimostrare il tuo buongusto, quindi comincerà a baciarti sulla guancia affinché tu le regali qualcosa. Giurerà che per anni e anni non ti chiederà più nulla... e che quell’acquisto è per te un vero affare. A quel punto non avrai più scampo: anche se trovassi la scusa di non avere con te il denaro, il venditore ti chiederebbe un impegno scritto, roba da pentirsi di aver imparato a scrivere.

(I, 421-428)

Certo Ovidio non doveva avere una grande opinione delle sue concittadine: con ogni probabilità, però, lui, nell’Arte amatoria, parla solo delle cortigiane e non già delle matrone romane che, viceversa, pare fossero molto virtuose.

Avessi dieci bocche e altrettante lingue non riuscirei mai a elencare tutte le arti scellerate delle donne!

(I, 435-436)

Ma senza un regalino o un’attenzione di tanto in tanto, come faremo a mantenerle al nostro fianco? Con la parola, sostiene Ovidio, solo con la parola.

Dei poveri io sono il poeta, giacché molto ho amato in povertà; e se non potevo permettermi regali, in compenso regalavo belle parole.

(II, 165-166)

La guerra la si faccia con i Parti, con l’amica elegante invece ci sia sempre la pace, lo scherzo e tutto ciò che genera amore. Se di fronte a questo atteggiamento lei non sarà dolce e cortese, allora sopportala e tieni duro: in poco tempo si ammorbidirà. Un ramo d’albero si piega se lo curvi con grazia, se ci metti invece tutta la tua forza si spezza. Perfino le tigri e i leoni della Numidia si piegano con le buone maniere, così come nei campi il toro, un po’ alla volta, finisce per accettare l’aratro.

(II, 175-184)

Se lei fa resistenza, cedi: solo cedendo risulterai vincitore. Cerca di recitare la parte che lei crederà opportuno assegnarti. Se ti accorgi che critica, critica anche tu. Quando approva, invece, approva anche tu. Se ride, ridi, se piange, piangi.

(II, 197-201)

E non considerare una vergogna (è una vergogna che le risulterà gradita) che la tua mano virile possa reggerle lo specchio.

(II, 215-216)

Se ti dirà: «Troviamoci al tal posto», rinvia ogni cosa e corri. La folla non rallenti il tuo cammino. E se non hai un mezzo di trasporto con cui andare, fatti la strada a piedi. L’amore è una forma di milizia!

(II, 225-230)

Tanta flessibilità sorprende in un uomo come Ovidio. Seppure, a ben guardare, non di flessibilità si tratta, ma di cinica disistima nei confronti della persona amata. Mi spiace per Ovidio, ma un amante come quello da lui descritto nell’Arte amatoria non verrebbe accettato da nessuna delle donne che noi oggi frequentiamo.

La sincerità, ad esempio, è una dote assolutamente sconosciuta al poeta. Sentite cosa consiglia al suo allievo:

Se hai a cuore di tenerla legata, fa’ in modo di apparire incantato dalla sua bellezza: se indosserà una porpora di Tiro, fa’ l’elogio delle porpore di Tiro, se sarà in tessuto di Coo, dille che il tessuto di Coo le dona. Se la vedi adorna di gioielli d’oro, falle capire che per te lei è più preziosa dell’oro, se invece indossa solo una tunica, allora dille con entusiasmo: «Mi metti il fuoco addosso!».

(II, 295-301)

«Moves incendia», e questa sarebbe la frase che, secondo Ovidio, dovremo urlare, estasiati, ogniqualvolta vediamo la nostra donna vestita in modo casuale.

È inutile, adesso, stare a elencare tutte le tattiche che Ovidio suggerisce nel manuale, e andiamo direttamente al capitolo delle infedeltà: quelle dell’uomo e quelle della donna. Per l’uomo il poeta non ha dubbi: tradire è un’arte.

Tu nega, nega sempre, anche se le cose che hai nascosto con cura venissero alla luce, anche se fossero lampanti. E comunque non mostrarti mai remissivo o più dolce del solito, che questi sì che sarebbero indizi chiarissimi di colpevolezza. Non risparmiarti invece con le reni e ricordati che la recente avventura va smentita in un solo modo: andando a letto insieme.

(II, 409-414)

Devi metterle le braccia intorno al collo e accoglierla piangente sul tuo petto. Dalle continuamente baci mentre piange e soprattutto falle provare i piaceri di Venere. Solo così si potrà dissolvere la sua collera: col trattato di pace dell’amplesso.

(II, 457-462)

Dopo tale premessa, Ovidio fa un raffronto tra il mondo della preistoria, dominato dalla forza bruta, e il mondo suo, regolato dall’amore.

All’inizio c’era solo una massa confusa, all’interno della quale non era possibile distinguere gli astri, la terra e il mare, finché un giorno la terra fu posta sotto il cielo e il mare intorno a essa. Allora le selve accolsero le fiere, l’aria accolse gli uccelli e i pesci trovarono rifugio nelle limpide acque. L’uomo invece vagava nei campi deserti e ubbidiva solo alla forza bruta. La sua casa era il bosco, l’erba il suo cibo e le foglie il suo giaciglio. Fu il piacere dell’amore ad addolcire gli animi selvaggi. S’erano fermati per caso l’uomo e la donna nello stesso luogo: ciò che fecero quel giorno lo appresero da soli, senza alcun maestro. A quei tempi non si conosceva ancora l’arte di amare, ma Venere compì lo stesso il suo dovere.

(II, 467-480)

Coraggio, ordunque, che questa è la medicina giusta per calmare l’amante adirata: non esistono al mondo altre vie per riappacificarsi. Fare all’amore è una medicina più efficace di qualsiasi filtro di Macaone.

(II, 489-490)

L’amore però, ammette Ovidio, non è sempre un tenero idillio, anzi, il più delle volte è pena e sofferenza.

Si prepari l’amante a superare molte prove, e si ricordi che i piaceri sono scarsi e le pene di gran lunga più abbondanti. Quante sono le lepri sul monte Athos, le api sull’Ibla, le bacche sul ceruleo albero di Pallade, le conchiglie sui lidi, tante sono le pene nell’amore.

(II, 515-519)

Ed ecco cosa deve essere pronto a sopportare un uomo se vuole diventare un perfetto amante:

Ti diranno che è uscita, e proprio mentre te lo stanno dicendo tu la scorgerai girare per casa attraverso un’apertura. Ebbene, in quel caso dovrai convincerti che è uscita davvero e che se l’hai vista è perché sei un visionario. Se dopo aver ottenuto un appuntamento per trascorrere con lei una notte d’amore troverai la sua porta sbarrata, stendi il tuo corpo sulla nuda terra e aspetta. E se, dopo aver supplicato a lungo la donna crudele, i battenti resteranno chiusi, lascia sull’uscio le rose che ti ornavano il capo. Non è vergogna, in nome dell’amore, sopportare gl’insulti e le percosse di una donna, né baciare i suoi piedi delicati.

(II, 521-534)

Queste cose Ovidio le scrive, ma non le pensa. Infatti, dopo una decina di versi, si lascia andare e sbotta:

In quest’arte, lo confesso, non ho ancora raggiunto la perfezione: sono io stesso inferiore ai miei precetti. Se davanti a me un estraneo facesse segnali alla mia donna, non riuscirei mai a sopportarlo! Di sicuro mi farei prendere dall’ira. A volte, infatti, è meglio non sapere. Ciò detto, ragazzi, eccovi un consiglio prezioso: evitate di cogliere in flagrante le vostre donne!

(II, 547-557)

E qui, per avvalorare la tesi, Ovidio racconta il celebre episodio di Efesto che scopre Ares e Afrodite, nudi, a letto insieme. In due parole, il mito racconta come Efesto, il Dio zoppo, sospettando di essere tradito da sua moglie, avesse messo nel proprio letto una rete d’oro, robusta quanto invisibile. In tal modo l’industrioso Dio riuscì a imprigionare i due amanti, dopodiché chiamò intorno al letto tutti gli Dei dell’Olimpo perché si rendessero conto di persona fino a che punto la moglie era una svergognata. Risultato finale: Efesto venne schernito da tutti e la vista di Afrodite nuda eccitò anche Ermes e Poseidone!

Il poeta conclude il secondo libro impartendo agli uomini una lezione d’ipocrisia:

Non criticare mai i difetti delle donne! Ignorarli è una regola utile a molti. Se, ad esempio, c’è qualcosa che non tolleri, cerca di rassegnarti: ricordati che più il tempo passa e più ti abituerai. Scegliendo i termini giusti, poi, si possono addolcire le peggiori magagne: se lei è strabica le potrai sempre dire che è simile a Venere, se invece ha gli occhi slavati dille che somiglia a Minerva; e poi ancora: se è magra le dirai che è snella, se è grassa che è fiorente, se è bassa che è minuta, e così di seguito: invece di sottolineare un difetto, evidenzia il pregio che le è più vicino.

(II, 641-662)

Il terzo libro dell’Arte amatoria Ovidio lo dedica invece alle donne, e dal primo all’ultimo verso è prodigo di consigli per il gentil sesso. Sotto sotto, il poeta è preso dagli scrupoli: dopo aver speso due interi libri a dirne peste e corna, ora fa marcia indietro ed è pronto ad ammettere che le donne non sono tutte uguali:

Non bisogna rovesciare su tutte la colpa di alcune: che ogni ragazza invece sia giudicata per le azioni che ha commesso! Se è vero che è esistita un’Elena sulla quale furono lanciate accuse infamanti, è altrettanto vero che è esistita anche una Penelope che, al contrario, ha atteso fedele per due lustri, e poi per due lustri ancora, che il marito terminasse il suo errare dopo aver a lungo combattuto.

(III, 9-16)

A questo punto, perché non insegnare anche alle donne le strategie dell’amore?

Ho dato le armi ai Danai contro le Amazzoni, non mi resta ora che dare le armi anche a te, Pentesilea, e alle tue schiere. Scendete or dunque in guerra gli uni contro gli altri, ad armi pari, e che vinca colui a cui andrà maggiormente il favore del fanciullo che vola.

(III, 1-4)

Ovidio passa poi ai consigli pratici.

Innanzitutto lavatevi! Che il viso, in particolare, venga lavato ogni mattina con acqua appena attinta, che l’incuria non annerisca i denti, che l’aspro odore di capro non alligni mai nelle vostre ascelle, e che le gambe non siano irte di duri peli.

(III, 193-198)

Dono divino è la bellezza, ma quante di voi, in tutta onestà, possono dire di essere belle? Gran parte delle donne infatti non possiede quel dono. Se le femmine di una volta non curavano molto il proprio corpo, era perché a quel tempo anche gli uomini non erano curati. Andromaca indossava una ruvida tunica, ma era anche la moglie di un duro soldataccio, e quale veste avrebbe potuto mai indossare una donna come la moglie di Aiace sapendo che il marito viveva giorno e notte coperto da sette pelli di bue? Forse c’è ancora qualcuno a cui piacciono questi personaggi del passato, io, per quanto mi riguarda, ringrazio gli Dei di essere nato oggi.

(III, 103-122)

Ed ecco una vera e propria lezione di trucco:

Con un velo d’argilla aumentate il candore della pelle, e se qualcuna di voi ha il viso esangue che usi pure il rosso artificiale. Con un segno ben fatto riempite il vuoto sotto le sopracciglia e con un sottile cerone coprite le guance che la natura vi ha dato. Non abbiate vergogna di segnare gli occhi con la cenere, oppure con il croco. Ma che il vostro innamorato non veda mai i vasetti delle creme messi in bella mostra sulla toilette: l’arte dell’amore giova all’aspetto solo se è ben nascosta. I cosmetici aumentano la bellezza ma sono brutti a vedersi. In pubblico non vi consiglierei mai di usare il midollo di cerva o di spazzolarvi i denti. Chiudete allora la porta della vostra camera e non mostrate mai agli altri un’opera imperfetta.

(III, 199-228)

Non siano mai in disordine i capelli. La mano che li cura, a seconda dei casi, può donare o annullare la bellezza. L’acconciatura giusta non è di un solo tipo: ogni donna può scegliere quella che più le dona, e prima che agli altri chieda consiglio al suo specchio. Un ovale allungato vuole una scriminatura senza orpelli (così, infatti, era solita pettinarsi Laodamia). Un viso rotondo invece preferisce che tutti i capelli siano raggruppati sul capo in modo da mostrare le orecchie. Una lascerà che i capelli le ricadano dolcemente sulle spalle, un’altra se li legherà tutti all’indietro come la Dea Diana, allorquando, sollevata la tunica, andava a caccia di atterrite fiere.

(III, 133-144)

Con voi donne la natura è stata benigna: mentre a noi uomini la testa, con gli anni, diventa a volte nuda, voi avete modo di tingervi i capelli che si sono imbiancati con le erbe di Germania e l’artificio spesso vi procura un colore ancora più bello di un tempo.

(III, 159-164)

Quanto all’abbigliamento, Ovidio lo consiglia non troppo vistoso, ma nemmeno troppo dimesso.

Una sobria eleganza è quella che attrae: non venite avanti con vesti appesantite e trapunte d’oro. Con tanti colori che ci sono in giro, a prezzi modesti, che follia è mai questa di portare addosso un intero patrimonio? Ecco il celeste, il colore del cielo quando è sgombro di nuvole, ed ecco l’azzurro intenso, il colore che imita le onde del mare e che penso sia quello preferito dalle ninfe, e il croco, il colore del mantello che copre la dea della Rugiada allorquando aggioga i cavalli del mattino. Poi abbiamo l’ametista, il viola cupo, il rosa pallido, il marrone delle castagne, quello più chiaro delle mandorle e via dicendo. Quanti sono i fiori che la primavera produce, tanti sono i colori che la lana è in grado di assorbire. Ma bisogna anche essere bravi a saperli scegliere: un tono scuro si adatta di più alle carnagioni candide (stava bene infatti a Briseide allorquando fu rapita), mentre il bianco si addice maggiormente alle brune (e la figlia di Cefeo ben lo sapeva quando calpestò la terra di Serifo).

(III, 169-191)

E passiamo ai comportamenti. Qui Ovidio diventa un vero e proprio maestro di bon ton: sa tutto su come si deve mangiare, bere, camminare, ridere, sedersi, sdraiarsi sul triclinio e via dicendo. Consiglia il giusto tono di voce da mantenere durante le conversazioni, e le principali arti che bisogna conoscere per brillare in società.

Se sei piccola è meglio che tu stia seduta, se non altro per non sembrare seduta quando stai in piedi, e nel triclinio fa’ in modo di stare ben distesa, per minuta che sia la tua statura, e anche qui, affinché nessuno misuri la tua taglia mentre sei sdraiata, cerca di non mostrare i piedi drappeggiandovi sopra la coperta.

(III, 163-166)

Chi ha l’alito pesante non parli mai a digiuno, e si tenga a distanza dal viso dell’uomo con cui parla. Quando si hanno i denti grandi o irregolari è preferibile non ridere: si corrono meno rischi. E se proprio scappa una risata, fate in modo di aprire la bocca moderatamente e di coprire le radici dei denti con le labbra. A volte è meglio piangere. In verità, anche per piangere è necessario uno stile: le donne di classe, infatti, piangono, ma lo fanno scegliendo il momento giusto e i modi più appropriati.

(III, 177-192)

Imparate a camminare con passo femminile giacché anche l’andatura fa parte della vostra eleganza: attira o mette in fuga lo sconosciuto che vi guarda. Alcune donne muovono i fianchi con arte e fanno gonfiare la tunica ondeggiante, altre invece, al pari della sposa rubiconda del burino umbro, camminano a gambe larghe facendo grandi passi. E anche qui, come in tante altre cose, ci vuole misura: se è rozzo un certo tipo di andatura, anche l’altro non è consigliabile, essendo manierato più del lecito.

(III, 298-306)

La voce è quanto mai importante: spesso, infatti, quando è armoniosa, fa da mezzana nelle vicende d’amore. Le Sirene erano strani esseri marini che con voce melodiosa attiravano a sé tutte le navi, anche le più veloci. Quando Ulisse le udì, per poco non si liberò dai lacci, e se non ci riuscì fu solo grazie ai suoi compagni che per non udire le voci delle Sirene si erano turate le orecchie con la cera.

(III, 311-316)

Una ragazza dovrebbe sempre saper cantare, suonare l’arpa e danzare. I ballerini, infatti, il pubblico li ama, tanto eleganti sono le loro movenze.

(III, 349-352)

E qui Ovidio si lascia prendere dal suo stesso gioco e passa, armi e bagagli, dalla parte delle donne. Indica loro i luoghi più giusti per mettersi in mostra, ed elargisce a piene mani decine di piccoli suggerimenti.

A voi ragazze belle è utile la folla: andate e venite, fuori di casa a passeggio. Chi mai conoscerebbe Danae se fosse rimasta sempre rinchiusa nella torre fino alla vecchiaia? Una bella donna, invece, ha il dovere di offrirsi allo sguardo della gente: tra i tanti che la guardano, ce ne sarà pure uno che resterà abbagliato! Che la ragazza si soffermi in ogni luogo, desiderosa di piacere: se l’amo è pronto, prima o poi un pesce abboccherà.

(III, 415-426)

In amore non esistono remore, incalza Ovidio, perfino i funerali, a volte, possono tornare utili! Funere saepe viri vir quaeritur, spesso è al funerale di un marito che si rimedia un altro marito (III, 431). Ed ecco, invece, come comportarsi alle feste.

Arrivate sempre in ritardo, e con eleganza fate il vostro ingresso a luci già accese. Più lunga sarà stata l’attesa, più gradita diventerà la vostra presenza. L’attesa è una grande ruffiana. Anche se siete brutte, sembrerete più belle a quelli che hanno già bevuto. Prendete pure i cibi con le dita, ma, mi raccomando, fermatevi prima di essere sazie, mangiate sempre un po’ di meno di quello che vorreste mangiare, e lo stesso valga per il vino. Insomma fate in modo che la mente e le gambe restino ben salde a terra. In altre parole, se una cosa è una, evitate di vederla doppia!

(III, 751-764)

Fin qui, Ovidio si è perso nei dettagli. L’argomento, però, che più interessa il sesso femminile è un altro: lei, la donna, vuol sapere come deve comportarsi quando è corteggiata da un uomo che le piace. Deve cedere o resistere? E se decide di concedersi, è meglio che lo faccia subito, alle prime avances, o che attenda un pochino al fine di accrescere nello spasimante il desiderio? Il poeta in proposito non sembra avere idee molto chiare: all’inizio è favorevole al lasciarsi andare, poi, all’improvviso, cambia parere e opta per la difesa a oltranza.

Finché ti è consentito dichiarare l’età, goditi la vita: gli anni se ne vanno come acqua che scorre, e l’ora che hai appena trascorso non può più tornare indietro. L’età scivola via con passo lieve, e tu, che ora respingi gli innamorati, sappi che un giorno, da vecchia, giacerai sola nel letto e sentirai tanto freddo a causa della solitudine. Oh te infelice, con quanta rapidità le rughe ti trasformeranno la fisionomia! E allora, dammi retta: segui l’esempio delle Dee e non rifiutarti alle voglie degli uomini. Anche ammesso che loro t’ingannino, a te cosa costa? In fondo resta tutto come è: fossero anche in mille a prendersi il piacere, tu non ci perderesti nulla. Il ferro si consuma, la pietra con l’uso si assottiglia, mentre quella parte che avete voi donne si mantiene integra e non teme alcun logorio. Alla fin fine, cosa ci perdi se poi con l’acqua ti lavi?

(III, 61-96)

Che il piacere di Venere tu possa sentirlo in completo abbandono, sin nelle fibre più profonde, e che il godimento sia uguale per entrambi. I giochi di Venere sono mille, dal più semplice (di quando i due corpi giacciono l’uno accanto all’altro) al più complicato. Non cessino mai per te i giochi d’amore e i dolci mormorii, e che in questi giochi si odano pure parole lascive. Ma se per colmo di sfortuna la Natura ti avesse negato di provare i piaceri di Venere, allora simula le gioie più dolci con ingannevoli suoni. Bada soltanto che non se ne accorgano: crea con i movimenti e gli sguardi le espressioni estasiate di chi sta godendo, e che le parole e l’ansimare possano abilmente fingere il tuo godimento.

(III, 787-803)

Verso la fine del libro, però, il poeta ci ripensa e consiglia un atteggiamento più riservato:

L’attesa per gli innamorati è sempre stimolante, purché non sia troppo lunga. Non mostrarti facile alle pretese dello spasimante, ma non respingerlo neppure con durezza: fa’ che egli senta, nel medesimo tempo, timore e speranza.

(III, 473-477)

Per poi diventare addirittura crudele nei confronti del maschio.

Ciò che viene dato con facilità alimenta a fatica un amore: ai piacevoli giochi si mescoli talvolta un rifiuto. Lascia che il tuo amante resti in attesa, fuori della porta, e che supplichi, minacci e urli nel buio della notte: «O porta crudele perché non ti apri!». Il dolce viene presto a noia, una bevanda amara invece spesso è stimolante. Ciò che impedisce alle mogli di essere amate è il fatto che i mariti godano dei loro favori ogniqualvolta ne hanno voglia. Tu metti invece fuori della porta un servo che gli dica a muso duro: «Qui non si passa!», e per giunta fagli credere che ha un rivale e che non è il solo ad avere accesso al tuo letto.

(III, 579-593)

Poi si rende conto di ciò che sta scrivendo e geme:

Ma dove mi sono lasciato trasportare?! È folle affrontare in tal modo il nemico, consegnandosi prigioniero spontaneamente e facendogli anche da informatore. L’uccello non mostra al cacciatore il modo migliore per farsi catturare, la cerva non insegna a correre ai cani inseguitori. Ma ormai è fatta: ho già consegnato alle donne di Lemno le spade con le quali verrò trafitto. L’importante, però, è che si dica: «Ovidio fu il mio maestro!».

(III, 667-672)