VI

La nascita di Eracle

A Zeus piaceva da impazzire Alcmena, ma lei non ci stava. Alcmena era infatti, come si dice, una donna di specchiate virtù e mai e poi mai avrebbe tradito il marito, neppure con un Dio. Quando Ermes le precisò che non si trattava di un Dio qualsiasi, ma del capintesta in persona, lei, seppure lusingata, rifiutò abbassando gli occhi. «Grazie dell’onore,» rispose con un filo di voce «ma preferisco Anfitrione a tutti gli Dei dell’Olimpo.»

A volerla dire tutta, Alcmena l’amore non lo faceva nemmeno con il marito, e questo perché era troppo occupata a odiare Pterelao, l’uomo che le aveva assassinato la bellezza di sette fratelli, quando lei era ancora una fanciulla.

Le cose erano andate così: in una delle tante risse scoppiate a causa di un furto di bestiame, un gruppo di Teleboi,1 comandati da Pterelao, aveva ucciso tutti i fratelli di Alcmena. Ma chi era questo Pterelao? Era il re di Tafo, un’isoletta della Grecia occidentale, situata grosso modo all’altezza dell’Acarnania. In seguito al massacro, la vergine Alcmena accettò di sposare Anfitrione, re di Tebe, a patto, però, che lui uccidesse subito dopo Pterelao. E per maggiore garanzia, fece inserire nel contratto matrimoniale una clausola dove si chiariva che lei non avrebbe fatto l’amore finché il marito non l’avesse vendicata. Ora, però, sconfiggere Pterelao non era affatto semplice, dal momento che questo re, o per meglio dire questo capobanda, aveva ottenuto da Poseidone il dono dell’invincibilità a patto di conservare in testa un capello d’oro.

Cosa fosse, poi, questo capello d’oro non si è mai capito, ma la mitologia greca è bella anche per queste sue bizzarrie. A ogni modo, vera o inventata che fosse la storia del capello, Anfitrione provvide a farglielo tagliare mentre era immerso nel sonno, dopodiché lo affrontò sul campo e lo uccise. A questo punto non gli restava che tornare a casa per riscuotere il premio promesso. Come prova della vittoria, portava con sé una coppa d’oro confiscata al defunto.

Della situazione pensò bene di approfittare Zeus che, mentre il povero Anfitrione era ancora impegnato a sterminare gli ultimi Teleboi, come seppe della vittoria di Anfitrione, prese le sue sembianze e si presentò, tomo tomo, nella stanza da letto di Alcmena. «Eccomi qua, amore mio» le disse. «Ho appena finito di scannare il tuo nemico.»

Infine, per evitare di essere sorpreso sul più bello dal marito legittimo, fermò in mezzo al cielo la Luna, fece staccare i cavalli del Tempo dal Carro delle Ore, e ordinò a Morfeo d’intorpidire la mente degli uomini in modo che dormissero per tre notti di seguito. Il giorno dopo, quando il vero Anfitrione fece ritorno a casa, ecco, più o meno, il dialogo che ebbe luogo tra i due coniugi:

«O mia dolcissima consorte, vieni qui tra le mie braccia ansiose!» le disse lui, cercando di trascinarla sul letto ancora disfatto. «È tanto il desiderio che ho di te che più non ragiono.»

«Ma di quale desiderio stai parlando?» gli chiese stupita Alcmena. «Non vorrai mica fare di nuovo l’amore?»

«Come sarebbe a dire, “di nuovo”?!» esclamò, ancora più stupito, Anfitrione.

«Voglio dire che ormai non ce la faccio più: sono stanca.»

«Tu stanca? Sapessi io!» sbottò il marito. «Pensa che a un certo punto sono stato circondato da sei Teleboi armati di lance, e allora...»

«Che fai: mi racconti tutto da capo?»

A questo punto Anfitrione si rese conto di essere stato preceduto da qualcuno, e anche grazie a un fulmine caduto, guarda caso, proprio mentre stava parlando con Alcmena, intuì chi poteva essere quel qualcuno.

Lo scambio di persona nel letto di Alcmena ha suggerito a vari autori lo spunto per alcuni dei migliori testi che il teatro ricordi. Alludiamo alla commedia Anfitrione, scritta sia da Plauto che da Molière e von Kleist. In quella di Plauto si vedono recitare due coppie di sosia, e precisamente: da una parte Anfitrione e Giove, dall’altra i loro fidi scudieri, ovvero lo schiavo Sosia e il dio Mercurio,2 che per l’occasione ha assunto le sembianze dello schiavo.

Mercurio è stato messo da Giove a guardia del portone d’ingresso al fine di evitare di essere disturbato. In fondo alla scena, invece, con una lanterna in mano, ecco avanzare Sosia, lo schiavo di Anfitrione, incaricato di annunziare ad Alcmena la vittoria su Pterelao.

«Ma come è lunga questa notte! Il Sole tarda ad alzarsi: ieri sera deve essersi addormentato sbronzo! Certo è che le sette stelle dell’Orsa sono immobili nel cielo, e che la limpida Luna non si sposta da quando è sorta, e né Orione né le Pleiadi tramontano. E poi non c’è nessuno per strada! Ma dove sono i puttanieri, quelli che non vogliono mai dormire da soli? Ecco, questa sarebbe stata la notte giusta per loro: avrebbero potuto mettersi sotto una puttana, magari pagata a caro prezzo, e tenersela per una tripla notte.»

(Plauto, Anfitrione I, 1 sgg.)

Lo schiavo parla ad alta voce per farsi coraggio: la notte è buia e lui teme che qualcuno lo possa aggredire. Evidentemente anche a quei tempi la criminalità non scherzava. A un certo punto scorge Mercurio, fermo sotto il portone, e si blocca: già da lontano quell’individuo gli incute un certo timore. Non placet, dice tra sé e sé, e con le dovute cautele si avvicina allo sconosciuto, ma, come aveva temuto, costui, non appena lo vede, lo picchia. La cosa, però, che più spaventa Sosia è il fatto che il mascalzone abbia le sue stesse sembianze!

SOSIA Cosa ci fai davanti alla mia porta?

MERCURIO Cosa ci fai tu piuttosto?

SOSIA Io abito qui e sono schiavo dei padroni di questa casa.

MERCURIO Anch’io abito qui e sono schiavo dei padroni di questa casa.

SOSIA Come ti chiami?

MERCURIO Io mi chiamo Sosia.

SOSIA Non è vero: sono io che mi chiamo Sosia!

MERCURIO Come osi dire di chiamarti Sosia, se Sosia sono io? E dimmi: di chi sei schiavo?

SOSIA Di Anfitrione.

MERCURIO Anch’io sono schiavo di Anfitrione.

SOSIA Ma allora, se tu sei Sosia, io chi sono?

MERCURIO Questo non lo so, ma quando io mi sarò stancato di essere Sosia ti darò il permesso di esserlo di nuovo.

(Op. cit.)

Quell’imbroglione di un Mercurio, insomma, si diverte alle spalle di Sosia, che da quel giorno darà il suo nome a tutti i sosia della terra, ed è quasi commovente che a poco a poco il poverino finisca col convincersi sul serio di non essere Sosia. Tanto che quando Alcmena, proprio per essere creduta, mostra al marito la coppa d’oro avuta dal finto Anfitrione, lui, rassegnato, commenta:

«Evidentemente, padrone mio, questa notte ci siamo sdoppiati tutti: tu hai partorito un altro Anfitrione, io un altro Sosia e la coppa un’altra coppa!»

(Op. cit.)

Nove mesi più tardi nascono due gemelli: Eracle e Ificle, il primo è figlio di Zeus e il secondo di Anfitrione. Eracle, per la cronaca, era anche chiamato Triselenos, ovvero figlio della triplice luna.

A sentire Diodoro, Zeus in questa bricconata non fu spinto dalla solita libidine, ma dal desiderio di avere un figlio straordinariamente forte. Ecco quanto ci racconta in proposito lo storico siciliano:

Zeus, quando si unì carnalmente con Alcmena, triplicò la notte, e così facendo, preannunziò la forza eccezionale del figlio che avrebbe avuto.

In sostanza, egli non cercò questo rapporto per un impulso erotico, ma per generare un figlio che fosse degno di lui.

(Diodoro Siculo, Biblioteca storica IV, 9)

Si spiegherebbero così anche le tre notti necessarie a concepirlo. Zeus, tra l’altro, ne era fiero già prima che nascesse, tanto da preannunciarne la nascita con un giorno di anticipo. Comunicò agli Dei, seduti in consesso: «Colui che nascerà domani, per primo, fra tutti i discendenti di Perseo, sarà il nuovo capo degli Argivi!».

Al che la moglie Era, gelosa come al solito, prese subito dei provvedimenti:

D’un balzo lasciò la vetta dell’Olimpo e rapida

giunse ad Argo, dove sapeva che abitava la nobile

sposa di Stenelo, figlio di Perseo, gravida al

settimo mese. Essa la spinse al parto prematuro,

e fermò quello di Alcmena, trattenendo l’Ilizia.

(Omero, Iliade XIX, 114)

L’Ilizia, per chi non lo sapesse, era la Dea del parto. Era la intrattenne proprio sulla soglia della casa di Alcmena in modo che, nel frattempo, potesse nascere il figlio settimino di Nicippe, un’altra discendente di Perseo. Venne così alla luce Euristeo, un personaggio insignificante, a volte anche un po’ vigliacco, destinato però, per l’incauta predizione di Zeus, a comandare su tutti gli Argivi, Eracle compreso.

Quando Zeus si accorse di essere stato raggirato, ovviamente divenne una bestia. Minacciò addirittura di ripudiare Era e di lasciare l’Olimpo una volta per tutte. Alla fine, però, anche grazie alla diplomazia di Ermes, giunse a un compromesso: lui non avrebbe più abbandonato Era, ed Eracle sarebbe diventato un Dio come tutti gli altri, subito dopo aver compiuto dodici fatiche agli ordini di Euristeo.

Sul perché delle dodici fatiche, però, c’è anche un’altra versione: quella della pazzia di Eracle. Le cose sarebbero andate così: sempre per colpa di Era, l’eroe un brutto giorno avrebbe smarrito la ragione fino a uccidere sei dei propri figli e due nipotini che si trovavano nei paraggi. Una volta rinsavito, per potersi rimettere in pace con la coscienza, si recò all’oracolo di Delfi, e qui la Pizia gli ordinò di trasferirsi a Tirinto e di mettersi agli ordini di Euristeo per dodici anni. Un’ultima ipotesi, infine, vedrebbe Eracle, fidanzato di Euristeo, che accetta le dodici fatiche solo per amore. Quest’ultima versione, in verità, ci sembra degna di un settimanale scandalistico, e come tale la sconsigliamo.

Qualunque sia stata la motivazione delle fatiche, però, resta il fatto che Era odiava a morte Eracle: per lei quel superman dell’antichità era il simbolo vivente dei tradimenti di Zeus; eppure, strano a dirsi, quando lui era ancora un poppante, lei lo aveva perfino allattato.

Ecco come andarono i fatti: Anfitrione e Alcmena, una volta capito in quali guai si erano cacciati, cominciarono a temere la vendetta di Era. Per non correre rischi, allora, abbandonarono il piccolo Eracle in un campo, fuori dalle mura di Tebe. Le prime a trovarlo furono Era ed Atena che stavano passeggiando proprio da quelle parti (su consiglio, pare, di Zeus). Atena, scorgendo il neonato, non potè fare a meno di esclamare: «Ma deve essere proprio impazzita una madre per abbandonare un bambino così bello!».

Ed Era, impietositasi, si denudò il petto e se lo attaccò al seno. Sennonché Eracle, evidentemente affamato, le dette un tale morso che la Dea fu costretta ad allontanarlo di scatto. Il getto di latte che ne fuoriuscì schizzò in cielo e dette origine alla via Lattea. Atena, allora, raccolse il piccolo e costrinse Alcmena a riprenderselo e a metterlo di nuovo accanto al suo gemello. Ma Era, per nulla commossa dalla grazia del pargoletto, dopo dieci mesi inviò due serpenti velenosi affinché uccidessero i due gemelli nel sonno. Ificle, da bambino normale, si spaventò moltissimo e giustamente si mise a strillare. Eracle, invece, come se avesse avuto a che fare con due giocattoli nuovi, li strozzò, ognuno con una mano, per poi mostrarli, tutto contento, al padre che nel frattempo si era precipitato nella stanza dei bambini allarmato dalle grida di Ificle. Teocrito dedica alla scena uno dei suoi Idilli:

Eracle aveva dieci mesi e Ificle

una sola notte di meno. Alcmena una

sera, dopo averli lavati e allattati,

nello scudo di bronzo li mette a dormire,

e carezzando le loro testine ricciute,

così dice: «Dormite, piccini, un sonno

soave, ma poi risvegliatevi. Dormite

felici e felici aspettate l’aurora».

Ma la perfida Era, nel profondo della

notte, chiama due orribili mostri,

due neri serpenti dalle orride spire,

e li spinge a passare sotto la soglia.

Già sono giunti presso i figli dormienti,

già le loro lingue vibrano vicino alle gote,

quando ecco che i bambini si svegliano!

Ificle, con i piedi, scalcia la coperta

e cerca di fuggire, Eracle invece, che

mai non piangeva, tende le mani e afferra

i due serpenti in una morsa d’acciaio.

(Teocrito, Idilli, XXIV)

E giustamente Diodoro mette in rilievo che è proprio Era a renderlo famoso fin dalla culla.

Gli Argivi, venuti a conoscenza del prodigio, lo chiamarono Eracle, ovvero colui che ha ottenuto la gloria (kleos) per merito di Era.

(Diodoro Siculo, Biblioteca storica IV, 10)

1. I Teleboi, ovviamente, non erano ballerini della tivù, bensì abitanti di un’isola chiamata Teleboa (quella che si ode da lontano).

2. Essendo Plauto un commediografo latino, nel dialogo che segue, Ermes e Zeus vengono indicati con i loro nomi latini, ovvero Mercurio e Giove.