Chi la fa l’aspetti e Crono, dopo quello che aveva combinato a suo padre, non si sentiva tanto tranquillo con i possibili figli; ragione per cui, a scanso di equivoci, pensò bene di mangiarseli, man mano che sua moglie Rea glieli sfornava. La prima a finire nelle fauci di Crono «dai contorti pensieri» fu Estia. Seguirono nell’ordine Demetra, Era, Ade e Poseidone.
Per lo che Rea, incollerita, trovandosi incinta di Zeus, andò a Creta, e quivi lo partorì nell’antro Ditteo, e lo diede ad allevare ai Cureti e alle ninfe Io e Adrastea.
(Apollodoro, Biblioteca I, 1, 6)
D’altra parte, mettiamoci nei panni di quella poveretta: dopo nove mesi di gravidanza quel fetentone di Crono si inghiottiva il neonato come se fosse un’oliva! Chiunque al suo posto se la sarebbe presa. E così accadde che un bel giorno Rea, approfittando del fatto che il marito era mezzo ubriaco, gli servì al posto di Zeus una pietra della stessa forma, tutta avvolta da candide fasce.
«Ecco a te, o mio signore,» gli disse «l’ultimo dei tuoi nati!»
E lui giù, senza battere ciglio, per poi berci sopra mezzo litro di vino.
Una gran pietra essa dette, avvolta in fasce, al figlio di Urano, grande signore, primo re degli Dei, e quegli la prese con le mani e giù la precipitò nel suo ventre sciagurato, senza pensare che un dì proprio quel figlio lo avrebbe sconfitto con la forza delle braccia e cacciato dal trono, per poi regnare luminoso sugli Dei immortali.
(Esiodo, Teogonia 485 sgg.)
Il piccolo Zeus trascorse i primi anni di vita a Creta, nascosto nel fondo di un antro del monte Ida: piangeva e urlava più di qualsiasi altro bambino al mondo. I rudi Cureti allora, per coprire i suoi strilli ed evitare che Crono potesse accorgersi di lui, fingevano di litigare tra loro con grandi schiamazzi e fragore di spade che cozzavano contro scudi di bronzo.
All’educazione del futuro re dell’Olimpo provvidero due ninfe, Io e Adrastea, e una capra di nome Amaltea.
Le ninfe lo nutrirono con una miscela di latte e miele e lo fecero allattare da una capra chiamata Amaltea. Ancora oggi rimangono molte tracce del fatto che il Dio sia nato e sia stato allevato nell’isola di Creta.
Si racconta a tale proposito che Zeus, per ringraziare le api che gli avevano fornito il miele, mutò loro il colore, rendendolo simile a quello dell’aureo rame e, dal momento che esse abitavano in luoghi molto rigidi, le rese tutte resistenti e insensibili al freddo.
(Diodoro Siculo, Biblioteca storica V, 70)
Amaltea, la capra, era bruttissima, al punto tale che Madre Terra, dietro suggerimento dei Titani, le aveva proibito di mostrarsi in giro e lei, poverina, si era andata a rifugiare nel fondo di una grotta del monte Ida. In compenso però era molto tenera: allattò Zeus e lo circondò di cure come nessuna madre avrebbe mai fatto. Durante la notte, quando il freddo dell’inverno cretese era più intenso, restava sveglia accanto a lui per riscaldarlo col suo alito caldo.
Una volta diventato grande, Zeus come prima cosa ammazzò Amaltea. Aveva bisogno di un giubbotto di lana e, non avendo trovato nei dintorni nessun altro animale da pelliccia, pensò bene di sopprimere la sua balia. Nel medesimo tempo però, anche per scaricarsi la coscienza, le dedicò un’intera costellazione (il Capricorno).
Recatosi sull’Olimpo, Zeus si sposò con sua cugina Meti, una strana Dea nota per la sua perfidia. Costei, con la complicità di Rea, convinse Crono ad assumere un coppiere e gli presentò il suo nuovo marito travestito da sommelier. Una volta ammesso alla mensa del padre, Zeus ne approfittò per versargli un intruglio che lo fece vomitare. Apollodoro ci racconta l’episodio:
Cresciuto a giovinezza, Zeus si prese a compagna Meti, figliuola di Oceano; questa diede a Crono tal beveraggio, in virtù del quale egli vomitò prima il sasso, indi tutti i figliuoli che avea divorati.
(Apollodoro, Biblioteca I, 2, 1)
A detta di Pausania (X, 24, 5), il famoso sasso restituito da Crono sarebbe ancora oggi visibile presso l’oracolo di Delfi. Controllare per credere.
La detronizzazione di Crono, però, non voleva dire la conquista automatica dell’Olimpo. C’era tutto uno stuolo di divinità e di mostri, più o meno grandi, che aspiravano al potere. In primo luogo i Titani, poi i Centimani e infine una ventina di Giganti non meglio identificati. Essendosi però Zeus alleato con Poseidone e Ade, ne venne fuori una vera e propria guerra generazionale che vedeva da una parte “gli zii”, ovvero i figli di Urano, e dall’altra le nuove leve.
Da tempo lottavano, soffrendo pene terribili, gli Dei Titani e quanti erano i figli di Crono, gli uni, i Titani gloriosi, dall’alto dell’Otri, e gli altri, gli Dei donatori di beni, dall’Olimpo. Da dieci lunghi anni non s’intravvedeva una fine all’aspra contesa, e incerta si protraeva la guerra.
(Esiodo, Teogonia 629 sgg.)
A porre fine ai combattimenti fu, come al solito, l’astuzia. Zeus convinse i Centimani Briareo, Gige e Cotto a passare dalla sua parte. Bastò invitarli a cena e far servire loro nettare e ambrosia. A quanto pare i tre mostri non avevano mai assaggiato nulla di così prelibato. Certo è che da quel giorno, presi per la gola, non capirono più niente e si schierarono contro i loro stessi fratelli. E siccome disponevano di cento braccia ciascuno, ogni volta che lanciavano delle pietre, erano trecento quelle che si abbattevano sulle teste dei Titani.
Incatenati per la seconda volta i Titani ribelli nel profondo Tartaro, ivi piantonati a vista dagli stessi Centimani, a Zeus non restava che eliminare i Giganti, ovvero ventiquattro energumeni dai capelli inanellati, dalle lunghe barbe e dai piedi a forma di serpente. La cosiddetta “Guerra dei Giganti” fu caratterizzata da una serie di duelli, uno più cruento dell’altro. Eccone i principali:
Eracle contro Alcioneo
La Titanessa Era, seconda moglie di Zeus, aveva profetizzato che solo un mortale vestito di pelle di leone avrebbe sconfitto i Giganti, e solo dopo aver mangiato un’erba miracolosa. Zeus allora, con santa pazienza, si mise a cercare quest’erba e, dopo averla trovata, la dette da mangiare a Eracle, il mortale vestito con pelle di leone e prediletto dagli Dei.
Il duello tra Eracle e Alcioneo fu tremendo. Tre volte l’eroe greco lo scaraventò al suolo con un colpo di clava e tre volte Alcioneo si rialzò più forte e feroce di prima. Era la Madre Terra che gli restituiva le forze ogniqualvolta cadeva a terra, cioè su di lei (detto in termini calcistici, si avvaleva del fattore campo). Atena allora indusse Eracle ad attirare il nemico fuori dal suolo nativo e ad ammazzarlo con una freccia avvelenata. Le figlie di Alcioneo, disperate per la morte del padre, si suicidarono gettandosi a mare, e furono tutte trasformate in uccelli marini (gli alcioni).
Porfirione contro Era
Usando come pedana d’appoggio una piramide di pietre, il Gigante Porfirione con un sol balzo piombò sull’Olimpo e si avventò su Era. Stava lì lì per strangolarla, quando Eros con una delle sue famose frecce erotiche gli trafisse il cuore.
L’odio si mutò in lussuria, e Porfirione cominciò a stracciare le vesti della Dea nel vano tentativo di possederla. Zeus allora, pazzo di gelosia, lo colpì con una folgore procuratagli dai Ciclopi. Il Gigante mollò la presa e si avventò su Zeus, ma ecco che una freccia di Eracle lo fece secco.
Efialte contro Ares e Apollo
Malgrado fosse il Dio della Guerra, Ares contro Efialte stava per avere la peggio. Il Gigante lo aveva già costretto a piegare le ginocchia, quando una freccia scagliata da Apollo gli si conficcò nell’occhio sinistro. Efialte, allora, si avventò come una belva ferita su Apollo e stava già per stenderlo al suolo quando una seconda freccia, questa volta scagliata da Eracle, lo centrò nell’occhio destro e lo uccise.
Altri duelli
L’intervento di Eracle, in pratica, fu determinante in tutti gli scontri che ebbero luogo tra Dei e Giganti, benché gli Dei si battessero al meglio delle loro possibilità. Dioniso, per esempio, scaraventò al suolo Eurito, Ecate bruciò Clizio con una torcia, ed Efesto ustionò Mimante con una sbarra di ferro incandescente, eppure fu sempre Eracle il risolutore; tranne che nel caso di Atena, la quale, con un sol colpo, riuscì ad appiattire il Gigante Encelado al punto di farlo diventare un’isola, la Sicilia. Il duello però che più di tutti contrassegnò la guerra dei Giganti fu quello tra Zeus e Tifone.
Zeus contro Tifone
Gea, la Madre Terra, era, per così dire, fuori dalla grazia di Dio: quel farabutto di Zeus, con l’aiuto dei suoi fratelli e di quei fetentoni dei Centimani, aveva sterminato i suoi figli più belli, i Titani, dal primo all’ultimo.
Ormai non c’era più nessuno che si potesse opporre allo strapotere di Zeus. E allora lei che fa? Pensa e ripensa, si chiude in una grotta della Cilicia, si stringe le tempie tra le mani e, con la sola forza del pensiero, senza il concorso di nessun maschio, partorisce un mostro che più mostro di così non lo si può proprio immaginare: l’orrendo Tifone.
Per descriverlo, lascio la parola ai colleghi Apollodoro, Esiodo e Ovidio:
Era Tifone, fra quanti mostri Gea avesse generato, il più terrificante di tutti per grandezza e forza di braccia. Costui fino alle cosce era di natura umana, per il resto tutto un groviglio di draghi ritorti. Era così alto che con il capo urtava le stelle, e mentre con una mano sfiorava l’Occidente, con l’altra toccava l’estremo lembo dove sorge il Sole. Da capo a piedi era coperto di penne: dalla testa gli venivan giù crini lunghissimi, così come intricata e fulva era la barba. E gittava dagli occhi fiamme e pietre infocate, ed empiva l’Universo intero di orrendi ruggiti.
(Apollodoro, Biblioteca I, 6, 3)
Le sue braccia eran fatte per compiere sforzi enormi e i piedi per instancabili fatiche. Dalle sue spalle spuntavano cento teste di serpi, di terribili draghi, con lingue nere vibranti, e dagli occhi, sotto le ciglia, splendeva un ardore di fuoco. E voci inaudite s’alzavano dalle orrende teste, che suoni d’ogni sorta emettevano: ora di tori muggenti dall’impeto irrefrenabile, ora di leoni dal cuore spietato, e ora più simili ai cani.
(Esiodo, Teogonia 823 sgg.)
Tifone, uscito dagli abissi profondi della Terra, incusse tale terrore nei Celesti che tutti si dettero alla fuga, celandosi sotto mentite spoglie, finché, stremati, non raggiunsero la terra d’Egitto e il Nilo dalle sette foci. Giove guidava il branco sotto forma d’ariete e ancora oggi è raffigurato con lunate corna: il Dio di Delo si tramutò in un corvo, il figlio di Semele in un capro, la sorella di Febo in una gatta, la figlia di Saturno in una candida vacca, Venere s’occultò in un pesce e il Dio Cillenio sotto le piume di un ibis.
(Ovidio, Metamorfosi V, 321 sgg.)
Per maggior precisione, gli Dei in fuga, citati da Ovidio, erano nell’ordine: Zeus, Apollo, Dioniso, Artemide, Era, Afrodite ed Ermes. C’è chi parla anche di Ares trasformatosi in cinghiale e di Efesto diventato bue, ma in proposito i mitologi non sono tutti d’accordo. Fatto sta che da quel giorno, in Egitto, nacque il culto delle divinità animalesche (Luciano, Dei sacrifici 14).
Ebbene, come giudicare i tanto celebrati Dei dell’Olimpo? Un branco di codardi? Non direi: Tifone doveva essere davvero un castigo di Dio, non a caso il suo nome stava per “fumo stupefacente”. Solo a guardarlo c’era di che restarne terrorizzati.
Il primo, comunque, a rendersi conto che una figura del genere non la si poteva fare fu proprio il grande Zeus. Seppure tremando come una foglia, affrontò il mostro partorito dalla Madre Terra e Tifone, per tutta risposta, gli lanciò contro due lunghissime fiammate che non lo colpirono, ma che in compenso generarono i deserti del Sahara e dell’Arabia Saudita.
Zeus, visto Tifone da lontano, lo percosse col fulmine e, quando gli fu vicino, lo spaventò apparendogli innanzi armato di un’affilata falce adamantina. E, dal momento che il mostro fuggiva, lo inseguì fino al monte Casio, dopodiché, accorgendosi ch’era ferito, si azzuffò con lui. Sennonché Tifone, abbrancatolo con le voluminose spire, lo serrò stretto e, toltagli dalle mani la falce, gli tagliò i tendini delle mani e dei piedi, e sulle spalle caricatoselo lo portò fino in Cilicia, dove lo depose in un antro, ivi custodendo i tendini recisi in una pelle d’orso, e mise alla custodia del luogo una dragonessa, Delfine, per metà donna e per metà serpente.
(Apollodoro, Biblioteca I, 6, 3)
A questo punto, colpo di scena: da quelle parti passò Cadmo, un eroe greco famoso per la sua abilità di suonatore di flauto. Tifone e Delfine, pur essendo mostri, apprezzavano moltissimo la musica da camera, motivo per cui invitarono Cadmo a suonare il flauto per loro. Dopo averli accontentati, Cadmo si pavoneggiò: «Questo non è nulla: dovreste sentire cosa sono capace di fare con la lira!».
«E perché non ce la suoni un pochino?»
«Perché non ho le corde: mi si sono rotte. Ho solo lo strumento ricavato da un guscio di tartaruga.»
«Veramente noi dovremmo avere da qualche parte dei vecchi tendini. Magari li potresti provare.»
E fu cosicché l’eroe Cadmo prima suonò la lira e poi, col favore delle tenebre, restituì i tendini a Zeus, il quale, riacquistato l’uso degli arti, non si fece più sorprendere: scaricò su Tifone tutti i fulmini che aveva a portata di mano. Il Gigante reagì a modo suo, lanciando contro il Padre degli Dei macigni grandi come montagne. Il duello ebbe fasi alterne, finché Zeus, con un’ultima folgore, riuscì a stendere al suolo il suo avversario. Poi, per maggior sicurezza, gli adagiò sopra il monte Etna, in modo che non potesse più rialzarsi. E ancora oggi, affacciandosi sull’orlo del cratere, è possibile vedere Tifone che urla al cielo tutta la sua rabbia.
Durante il giorno ne fuoriescono torrenti di lava, che versano cortine incandescenti di fumo, e nelle tenebre una fiamma rosseggiante trascina i massi di pietra con strepito immane. È Tifone, bestia mostruosa, che fa scaturire simili getti di fuoco. O spettacolo prodigioso, che lascia increduli gli occhi e che suscita stupore solo a sentirlo narrare!
(Pindaro, Pitica I, 21 sgg.)