VII

Afrodite

L’organo genitale maschile potrebbe essere indicato sbrigativamente con una sola parola di cinque lettere: non essendo, però, io abbastanza disinibito, proverò a ricorrere a qualche sinonimo. Ciò detto, il giorno in cui Crono evirò suo padre e gettò in mare il divino attributo, quest’ultimo si coprì di spuma (afrós in greco) fino a mutarsi nella bella Afrodite. Botticelli dal canto suo, dovendo dipingere La nascita di Venere, e non potendo esibire in pieno Quattrocento un membro lungo circa due metri, perdipiù sballonzolato dalle onde, preferì servirsi di una leggiadra conchiglia, ritenendola più adatta a fare da piedistallo alla Dea della Bellezza. Sull’argomento, invece, il grande Esiodo fu molto esplicito.

L’immortale fallo tutto si coprì di bianca spuma, e da esso nacque una figlia che dapprima a Citera giunse, e poi a Cipro molto lambita dai flutti. Lì approdò la Dea veneranda e bella, e sotto gli agili piedi nascevano i fiori man mano che lei si inoltrava. Afrodite o Afrogenea fu chiamata, dagli uomini e dagli Dei, perché nata dalla spuma, o anche Citerea, perché finita nei pressi di Citera, o Ciprigna, perché prese terra a Cipro molto battuta dai flutti.

(Esiodo, Teogonia 190 sgg.)

La prima decisione di Afrodite, in verità, fu alquanto snob: stimò Citera troppo piccola per una Dea della sua importanza e decise di proseguire per la più prestigiosa isola di Cipro, da cui il doppio epiteto di Ciprigna e di Citerea.

La Titanessa Temi a sua volta, scandalizzata dalle nudità della nuova venuta, le mandò incontro le Ore affinché la rivestissero da capo a piedi. Subito dopo, a darle il benvenuto, provvidero Eros e il Desiderio che, tra uno stormire di tortore e di colombe in amore, le insegnarono l’abbiccì della seduzione.

Ciance di fanciulle, sorrisi e inganni, il piacere del sesso, l’affetto e le blandizie.

(Op. cit. 205)

L’arrivo di Afrodite sulla Terra sembra provocare una svolta nelle abitudini degli esseri viventi. Tutto quello che prima era guerra diventa amore:

Dietro di lei andavano docili i lupi grigi e i leoni feroci, gli orsi e le pantere avide di cerve veloci, e lei a vederli mansueti gioiva nella mente e nel cuore, giacché versava nel loro petto il desiderio, onde farli giacere a coppie nelle valli ombrose.

(Omero, Inno ad Afrodite 69 sgg.)

Una volta giunta nei pressi della città di Pafo, la Dea entrò in un tempio dove

le Grazie le unsero il corpo con un unguento soprannaturale, dolce, divino e profumato, con cui si cospargono gli Dei che vivono in eterno.

(Op. cit. 61 sgg.)

La sua arma più efficace fu la cintura magica. Trattavasi di una fascia di seta, intessuta con i colori della seduzione, che faceva innamorare chiunque vi posasse sopra lo sguardo.

Lì sono celati tutti gl’incanti, lì è l’amore, lì il desiderio e il dolce bisbiglio di parole che rubano il buon senso perfino a chi è saggio.

(Omero, Iliade XIV, 215 sgg.)

E così, un po’ grazie alla cintura e un po’ anche al fatto che doveva essere davvero un bel pezzo di figliola, in breve tempo il suo potere sugli uomini e sulle donne divenne immenso. Solo tre Dee riescono a salvarsi: Atena, Artemide ed Estia. La prima perché frigida, la seconda perché volontariamente vergine, e la terza perché aveva troppo da fare con le faccende di casa per star lì a pensare a certe cose. Tutti gli altri, non appena la guardavano, anche per un attimo, perdevano la testa, e in particolare Zeus, il Signore dell’Olimpo. Omero, nell’inno a lei dedicato, ci informa che turbò

...perfino la mente di Zeus che gode del fulmine, e che tutti comanda. Ogni volta, infatti, che lei lo decise, illudendogli l’animo saggio, facilmente lo convinse a unirsi a donne mortali, e lo indusse a dimenticarsi anche di Era, sua sorella e sposa.

(Omero, Inno ad Afrodite 36 sgg.)

Zeus però un giorno, per vendicarsi, la ripagò con egual moneta e le fece perdere la testa per un comune mortale: Anchise, il padre di Enea.

Le infuse nel cuore un dolce desiderio per Anchise, e quando lo vide pascere gli armenti, simile a un immortale, sulle alte vette dell’Ida, lei che ama il sorriso lo desiderò profondamente nell’animo.

(Op. cit. 53 sgg.)

Il giovane Anchise, futuro re dei Dardani, stava dormendo insieme alle pecore sul monte Ida, quando sentì aprire la porta del suo capanno: si svegliò e vide sulla soglia, al debole chiarore lunare, stagliarsi la silhouette di una donna, tutta nuda, sotto un mantello rosso. Ovviamente non ci stette a pensare un minuto di più, e cercò di trascinarsela dentro.

Afrodite, però, lo mise subito in guardia, sia pure nascondendosi sotto false generalità: «Bada bene, o Anchise: io sono una principessa frigia. Potrebbe essere molto pericoloso per te, semplice mandriano, avermi accanto come amante. Conosciamoci, ordunque, un po’ meglio, e poi... magari col tempo...».

«Dovessi morire oggi stesso,» rispose Anchise, accecato dalla passione «ma ho voglia di averti immediatamente!»

A cose fatte, però, non appena lei gli rivelò chi fosse in realtà, il disgraziato, preso dal panico, le si gettò ai piedi.

«Ti scongiuro, o divina, non uccidermi! Abbi pietà del tuo povero servo!»

«Non aver paura, o Anchise» lo rassicurò Afrodite, carezzandogli i capelli. «Sappi, anzi, che avrai da me un figlio che ti renderà famoso. Di una sola cosa ti prego: non dire a nessuno che siamo stati insieme.»

Sennonché Anchise, contrariamente al noto proverbio «il gentiluomo gode e tace», alla prima occasione raccontò tutto per filo e per segno. Sentì per caso qualcuno, in una taverna, vantarsi di conoscere una fanciulla più bella della stessa Afrodite, e lo smentì dicendo: «Ho fatto l’amore con entrambe, e ti assicuro che non c’è paragone».

Purtroppo per lui, la sbruffonata giunse all’orecchio di Zeus che per la rabbia (e forse anche per l’invidia) gli lanciò contro una folgore. Afrodite fece appena in tempo a proteggerlo con la cintura, e il fulmine, così deviato, lo colpì solo di striscio. Lo spavento, a ogni modo, fu tale che da quel giorno restò piegato in due.

Ora, che la Dea mi perdoni, ma, detto fra noi, Afrodite era una che andava a letto con tutti. Tra i suoi tanti partner ricordiamo:

  1. Efesto, che la volle sposare per forza, pur sapendo delle continue infedeltà (vedi cap. XIV).
  2. Ares, il Dio dal membro eretto, e anche il vero padre di Armonia, di Fobos (la Paura) e di Deimos (il Terrore).
  3. Ermes, con il quale ebbe un unico figlio, metà uomo e metà donna, chiamato per l’appunto Ermafrodito.
  4. Poseidone, che la rese madre di Rodo ed Erofilo.
  5. Dioniso, con il quale generò il famigerato Priapo, un orribile neonato dotato di immensi genitali (un po’ il precursore del neonato-anziano di Roger Rabbit).
  6. Il bellissimo Adone, di cui abbiamo già parlato nei Miti dell’amore, e che per colpa di Afrodite fu ucciso da un cinghiale aizzatogli contro da Ares.
  7. Bute l’Argonauta, con il quale, a detta dei mitologi, si accoppiò solo per fare ingelosire Adone.

L’unico ad andare in bianco, incredibile a dirsi, fu Zeus, l’indefesso Copulatore dell’Olimpo. Il quale, però, proprio grazie ai consigli e alle magiche arti di Afrodite (i famosi “afrodisiaci”), riuscì a conquistare decine e decine di ninfe e di damazze della buona società.

Molti furono gli epiteti affibbiati alla Dea dell’Amore. Oltre ai già ricordati Citerea e Ciprigna, segnaliamo: Afrodite Urania (l’amore celeste) e Afrodite Pandemia (l’amore volgare) pubblicizzati da Platone nel Simposio, quindi Kalliglouteos (dotata di bei glutei), Porne (la meretrice), Cruse (l’aurea), Anosia (l’empia), Ambologera (capace di ritardare la vecchiaia), Androfonos (assassina di uomini), Pasifaessa (colei che splende ovunque) e Doloplokos (la tessitrice d’inganni).