XIII

Dioniso

Nella vita, dice Nietzsche, c’è chi nasce dionisiaco e chi apollineo, e per capirlo basta individuare chi comanda dentro di noi, se l’istinto o la ragione. A volte è sufficiente essere un pochino più riflessivi del solito per finire tra gli apollinei, o un po’ meno per essere schedati tra i dionisiaci. Solo i geni, beati loro, avrebbero ambedue gli impulsi; noi invece, gente normale, siamo l’uno o l’altro.

Dioniso, tanto per cambiare, nacque da una delle tante scappatelle di Zeus. Vittima designata: la bellissima Semele, figlia di Cadmo e Armonia. Come sempre però, lì dove c’era un’infedeltà del Padre degli Dei, spuntava inesorabile la vendetta di Era. La Signora dell’Olimpo anche quella volta non smentì la sua fama: si travestì da vecchia e inculcò nella mente dell’innocente fanciulla un dubbio atroce.

«Si dice che il tuo amante sia un orribile mostro» le sussurrò in un orecchio. «Chiedigli di farsi vedere com’è in realtà, e se non acconsente negagli i tuoi favori.»

Alquanto scossa, Semele seguì il consiglio, e Zeus, in un primo momento, si rifiutò: «Non se ne parla nemmeno: non reggeresti alla vista!».

Poi, siccome Semele insisteva, supplicava e soprattutto gli negava l’accesso alla camera da letto, decise di mostrarsi al naturale. Non l’avesse mai fatto: in men che non si dica Semele cominciò a bruciare come una torcia. Ermes fece appena in tempo a estrarre dal suo ventre il piccolo Dioniso, non ancora settimino, e a trapiantarlo in una coscia di Zeus, primo esempio d’incubatrice d’emergenza nella storia dell’umanità.

La seconda nascita, però, non poteva sfuggire all’occhio vigile di Era, che in quanto a malvagità non aveva rivali. Da lei istigati, i Titani ghermirono il neonato non appena lo videro sbucare dalla coscia del padre e, dopo averlo fatto a pezzi, lo gettarono in un calderone di acqua bollente.

Nonna Rea fu la prima ad accorgersi dell’orrendo misfatto: con una santa pazienza scese giù tra i Titani, rimise insieme i brandelli del piccolo e attese che si facesse più grande per affidarlo, prudenzialmente travestito da donna, al re Atamante e a sua moglie Ino.

Apollodoro ci racconta l’episodio con qualche variante:

Venuto il tempo debito, Zeus ruppe la cucitura e partorì Dioniso per poi consegnarlo a Ermete che, a sua volta, lo portò a Ino e Atamante perché lo allevassero, vestito da fanciulla, insieme agli altri figli. Ma Era, indispettita, fece impazzire i due coniugi affinché eliminassero la loro prole. Zeus, allora, trasformò Dioniso in un capretto, per poi consegnarlo alle ninfe di Nisa, in Arabia, che lo curarono amabilmente e che per questo gesto finirono con l’essere eternate nelle stelle Iadi.

(III, 4, 3)

Le ninfe (Macride, Nisa, Erato, Bromie e Bacche) lo coccolarono come meglio non avrebbero potuto, finché un bel giorno Dioniso, gironzolando per l’isola, vide una strana pianta dalla quale pendevano grappoli di palline. Spremerle, lasciarle fermentare e berne il liquido fu per lui una specie d’intuizione che gli fece scoprire il vino.

Ora, a essere sinceri, storie come questa ci vengono raccontate in quasi tutte le mitologie, da quella indiana a quelle dei pellirosse, l’importante, però, è che nel nostro caso il vino sia stato inventato da un Dio simpatico e casinista come Dioniso. Apollo, tanto per dirne una, con le sue arie da intellettuale con la puzza sotto al naso, non sarebbe stato mai capace di tanto, né, con ogni probabilità, ci avrebbe tenuto.

Tre sono gli elementi che caratterizzano il culto di Dioniso: il vino, la follia e la promozione del prodotto. Si dice, infatti, che Dioniso sia stato in Libia, in Egitto, in Tracia, in Beozia, in Palestina e che abbia attraversato l’intero continente asiatico per raggiungere l’India, sempre allo scopo di meglio diffondere la coltivazione della vite.

A fargli da cornice urlante c’erano: un vecchio, mezzo uomo e mezza capra, di nome Sileno e un numero imprecisato di Satiri e di Menadi. Queste ultime bisogna immaginarsele come una torma di femmine discinte, costantemente ubriache, pericolosissime da incontrare giacché giravano armate di manganelli, detti anche “tirsi”, ricoperti da cima a fondo di foglie d’edera.

Esse lo seguivano ed egli indicava loro il cammino: il clamore invadeva l’immensa selva.

(Omero, Inno a Dioniso XXVI, 9)

Dovunque Dioniso si facesse vedere, le popolazioni gli affibbiavano i più strani soprannomi, ragione per cui oggi ce lo ritroviamo nei testi più svariati e sempre con nomi diversi. Bacco, Megapenteo, Eleutero, Phale e Sannio, tanto per citarne qualcuno, oppure Leone, Capra, Cerbiatto, Toro, a seconda dell’animale che aveva scelto per mostrarsi in pubblico.

Tanti travestimenti e altrettanti epiteti, tutti, però, a significare un Dio godereccio, fallico, libero da regole, leggi o imposizioni. A tale proposito, ricordiamo che le feste in suo onore erano chiamate “falloforie”, anche perché le scatenate Menadi portavano in processione giganteschi falli di creta, alti, immagino, venticinque metri, come i famosi Gigli di Nola nella festa di san Paolino.

Dioniso, diciamolo subito, era pazzo e, in quanto tale, anche parzialmente incolpevole. Un giorno sua nonna Rea, per salvarlo dall’ira degli altri Dei, fu costretta a purificarlo delle tante trasgressioni commesse, ed effettivamente ne aveva fatte di cotte e di crude.

Tanto per darne un’idea, citeremo solo alcuni misfatti. Aveva scorticato vivo il re di Damasco, reo di essersi opposto alla diffusione del culto dionisiaco nelle terre tracie; ucciso un migliaio di Amazzoni solo perché gli stavano antipatiche; fatto impazzire le donne argive fino al punto d’indurle a divorare crudi i propri figli. E non basta: aveva indotto Licurgo, re degli Edoni, a potare con un’accetta il figlio Driade, dopo averlo convinto che lo stesso non era un bambino ma una vite. Per non parlare poi delle metamorfosi che operò a destra e a manca, come quando mutò in pipistrelli le sorelle Alcitoe, Leucippe e Aristippe, colpevoli di non aver voluto partecipare a una festa notturna in suo onore. O come quando, rapito dai pirati, trasformò gli alberi della nave in viti, i remi in serpenti, il sartiame in belve feroci e se stesso in leone, cosicché tutti i pirati si gettassero in mare e a loro volta si tramutassero in delfini.

La follia però, sia chiaro, a quei tempi (e forse non solo a quei tempi) era considerata quasi un dono degli Dei; un dono che, ad esempio, induceva le donne a lasciarsi andare. Di qui la preghiera, attribuita a Omero:

O tu che appari in forma di toro, ti scongiuro, siimi propizio e infondi nella mia donna la follia!

(Inno a Dioniso I, 17)

Tra i tanti viaggi di Dioniso, importantissimo quello all’isola di Nasso, dove incontra Arianna abbandonata di fresco dall’eroe Teseo (vedi I miti degli eroi, cap. IX). Lei rossa e lui biondino: niente male come coppia.

Dioniso dalle chiome d’oro fece sua sposa la fulva Arianna, fiorente figlia di Minosse.

(Esiodo, Teogonia 947)

Vederla e innamorarsene fu un tutt’uno. Non si sa bene cosa le abbia detto di così invitante. Probabilmente qualcosa del tipo: «Su bella: vieni con noi che ci si diverte».

Fulcro, infatti, del culto di Dioniso era l’orgia. Ma cosa si faceva durante un’orgia dionisiaca? Niente di strano: prima si beveva il vino, poi ci si stancava ballando e infine, per quelli che avevano ancora fiato, si faceva l’amore, omo o etero non importava molto, tanto a quel punto nessuno era più in grado di badare a simili dettagli.

Del resto, a quei tempi, l’orgia era considerata un rito religioso, in qualche modo simile a certe manifestazioni di casa nostra, come quella della Madonna dell’Arco, dove tutti i devoti, detti anche fujenti, ballano come invasati, dall’alba al tramonto, senza fermarsi mai un attimo, nemmeno per soddisfare i bisogni più elementari. E poi, a pensarci bene, che balli o faccia l’amore, l’uomo «si manifesta sempre come membro di una comunità superiore che ha disimparato a camminare e a parlare e che è sul punto di volarsene in cielo danzando». Così parlò Nietzsche nella sua Nascita della tragedia.