Diomede era il compagno d’avventura di Ulisse: quando c’era da menare le mani uscivano sempre in coppia. Anche lui del resto prese parte alla guerra di Troia in qualità di ex aspirante alla mano di Elena; e anzi, di lui, in particolare, si dice che l’avesse amata a tal punto da considerare il suo rapimento un affronto personale.
Era figlio di Deipile e del feroce Tideo, uno dei Sette contro Tebe, e con ogni probabilità fu proprio dal padre che ereditò quel carattere irascibile che lo rese famoso nel mondo antico. Oddio, non è che gli altri eroi fossero mansueti, fatto sta, però, che il suo solo apparire sul campo di battaglia seminava il terrore.
Ma aveva anche altre doti: Agamennone, per esempio, lo considerava uno dei migliori oratori dell’esercito acheo, al punto da farlo partecipare a tutti i “vertici” con gli altri re. Come atleta, poi, era un ottimo fondista: vinse gli ottocento piani nei giochi funebri che si celebrarono in onore di Patroclo. In quanto a coraggio guerriero, poi, era secondo al solo Achille. E fu lui che, sotto le mura di Troia, uccise più nemici di tutti.
Lui e Ulisse, un po’ come il duo televisivo Starsky e Hutch, andavano sempre in coppia: li troviamo fianco a fianco in numerose imprese, ognuna delle quali prevedeva sia l’abilità oratoria che il coraggio. Furono loro, infatti, dopo la morte di Achille, a prelevare il figlio dodicenne dell’eroe, Neottolemo, per risollevare il morale delle truppe, e furono sempre loro a recarsi nell’isola di Lemno per convincere il maleodorante Filottete a ritornare sui campi di battaglia.
Questo Filottete, per chi non lo sapesse, era un principe greco che durante il viaggio di andata a Troia, ancor prima che iniziassero le ostilità, era stato morso a un piede da un serpente. La ferita, infettandosi, aveva cominciato a puzzare in modo tale che lo sventurato, per ordine di Agamennone, venne scaricato nella prima isola possibile. Filottete però, oltre a essere un formidabile guerriero (è lui che, una volta guarito, ucciderà Paride), era anche il proprietario delle preziose armi di Eracle, senza le quali i Greci non avrebbero mai potuto vincere la guerra. Il suo rientro, pertanto, aveva un’importanza fondamentale ai fini della vittoria finale, come gli indovini avevano detto e ridetto.
Fu sempre Diomede, con l’aiuto di Ulisse, a rubare ai Troiani il “Palladio”, ovvero la statua sacra di Pallade Atena custodita nell’omonimo tempio al centro di Troia. Questa statuetta, secondo l’indovino Eleno, impediva a chiunque di espugnare la città, ragione per cui Agamennone aveva promesso un ingente premio in monete d’oro a chiunque gliel’avesse consegnata. Da questa impresa, in verità, non è che i due ne siano usciti molto bene. Si racconta, infatti, che, allorché scavalcarono le mura per entrare nella città, Diomede prima montò sulle spalle di Ulisse e poi si rifiutò di restituirgli la cortesia aiutandolo a salire. Sulla strada del ritorno, invece, Ulisse, pur di tornare solo e riscuotere l’intero premio, cercò di pugnalare il compagno alle spalle. Diomede, però, grazie al riverbero della luna, che quella sera splendeva più che mai, vide per terra l’ombra dell’“amico” sollevare il pugnale. Ne nacque una violenta colluttazione e un finale increscioso, con Diomede che prendeva a calci nel sedere Ulisse. Per giunta, pare che la statuetta non fosse quella autentica, avendola i Troiani sostituita, in precedenza, con una copia, proprio per evitarne il furto.
Insomma, come tanti altri leggendari eroi, anche Ulisse e Diomede si resero protagonisti di azioni non proprio cavalleresche. D’altra parte, la cavalleria a quei tempi era del tutto sconosciuta, essendo stata inventata solo nel Medioevo. Così, quando si trattava di duelli all’ultimo sangue, i nobili valori, come lealtà, onore e pietas, andavano a farsi benedire, ed erano gli inganni e le prepotenze a diventare la prassi quotidiana: come quando sgozzarono il troiano Dolone, pur avendogli promesso salva la vita in cambio di alcune informazioni, e quando trascinarono la povera Ifigenia per i capelli fino all’ara del sacrificio, solo per ottenere che si alzasse un po’ di vento.
Sorge a questo punto una domanda: ma come facevano a passarla sempre liscia? Ebbene, sia Ulisse che Diomede godevano di protezioni in alto loco, in particolare erano sponsorizzati da Atena. La Dea stravedeva per Diomede: lo considerava il suo eroe preferito e non si vergognava di ammetterlo. Tanto per dirne una, un giorno gli aveva persino concesso il privilegio, utilissimo in battaglia, di riconoscere le divinità travestite da guerrieri. Lo apprendiamo dall’Iliade, dove Atena dice al suo protetto:
Fatti coraggio, o Diomede, e battiti contro i Troiani, ti ho infuso nel petto la furia di tuo padre, l’intrepido furore di Tideo, agitatore di scudo, guidatore di carri; ho tolto la nebbia che velava i tuoi occhi, perché tu possa sempre distinguere un uomo da un Dio. Se un Dio viene dunque a tentarti, non batterti con lui; ma se Afrodite, figlia di Zeus, entra in battaglia, colpiscila con la lancia acuta.
(Omero, Iliade V, 124-132)
Parole che Diomede non si fece ripetere due volte. Come vide Afrodite, l’aggredì con tale foga che le trafisse il polso da parte a parte.
«Razza di animale, disgustoso energumeno!» urlò la Dea. «Ti insegnerò io a prendertela con le donne!»
E mentre fuggiva terrorizzata, sentì Diomede che le intimava dietro:
Allontanati, o figlia di Zeus, dalla guerra e dalle stragi; non ti basta sedurre deboli donne? Ma se vuoi prendere parte alla mischia io ti dico che anche da lontano ne proverai orrore.
(Omero, Iliade V, 348-351)
Afrodite, dal canto suo, già l’odiava per un incidente accaduto qualche attimo prima. Diomede era stato lì lì per uccidere Enea, il suo figlio prediletto: gli aveva prima spezzato una gamba e due tendini con una sassata, e subito dopo lo aveva assalito con la spada.
Sarebbe morto, allora, Enea signore di popoli, se non l’avesse scorto la figlia di Zeus, Afrodite, la madre che lo generò dal pastore Anchise; intorno al figlio allora ella tese le candide braccia, e con un lembo dello splendido peplo lo avvolse, per poi ripararlo dai colpi (...). Così la dea sottrasse il figlio alla battaglia.
(Omero, loc. cit.)
Successivamente, con l’aiuto di Atena, Diomede si spinse ancora più in là: osò colpire Ares in persona, il Dio della Guerra! Il figlio di Zeus, centrato in pieno al basso ventre, levò un urlo così tremendo, ma così tremendo, che tutti i presenti ebbero l’impressione che avessero urlato nove o diecimila soldati contemporaneamente.
Un tremito colse Troiani e Achei atterriti: tale fu il grido di Ares, mai sazio di guerra.
(Omero, loc. cit.)
A questo punto, per vendicarsi della brutale offesa, Afrodite indusse Egialea, la moglie di Diomede, a tradirlo con un uomo che fosse più forte di lui. Ragione per cui, quando a fine guerra Diomede fece ritorno ad Argo, la città di cui era re, ebbe la sgradita sorpresa di trovare sua moglie a letto con un altro uomo, ai nome Comete, più bello, più giovane e più malvagio di lui. Dopodiché si racconta che i due amanti lo abbiano angariato a tal punto da costringerlo a scappare il più lontano possibile.
Diomede allora si rifugiò, insieme ad altri reduci, nelle isole Tremiti, e qui, non potendo più rimpatriare, fondò una colonia. Quando morì, Atena convinse Zeus a inserirlo tra gli Dei immortali, e per dargli una degna cornice, mutò i suoi compagni in uccelli, ancor oggi noti come “diomedee”.