A Troia combatteva anche un secondo Aiace, detto “il Piccolo”, il quale, quasi a voler compensare la sua statura da nanerottolo, era molto più crudele del “Grande”, ovvero di Aiace Telamonio.
Il “Piccolo” era figlio di Oileo e veniva dalla Locride, una regione greca posta a nord-ovest della Beozia, da non confondere con la nostra Locride che, pur avendo lo stesso nome, non ha nulla a che vedere con la mitologia.
Comanda i Locresi il figlio di Oileo, il rapido Aiace; non è grande come il figlio di Telamone, anzi è molto più piccolo; è basso e porta una corazza di lino, ma supera tutti i Greci e tutti gli Achei nel maneggiare la lancia.
(Omero, Iliade II, 527-530)
Se per Aiace Telamonio abbiamo scomodato Rambo, per Aiace d’Oileo il paragone d’obbligo è con Maradona. Moro, capelli ricci, tarchiato, astuto come un mercante levantino e ferocemente determinato in ogni tipo di azione, sia bellica che amorosa. I piedi piccoli e il baricentro basso gli consentivano spostamenti molto rapidi e una velocità in corsa seconda solo a quella di Achille.
Aiace, il veloce figlio di Oileo: nessuno lo eguagliava nell’inseguire di corsa i guerrieri atterriti, quando Zeus suscita panico e fuga.
(Omero, Iliade XIV, 520-522)
Andava molto d’accordo con il suo omonimo Telamonio, al punto che spesso e volentieri si battevano fianco a fianco.
Aiace, il veloce figlio di Oileo, mai si staccava, neppure di poco, da Aiace di Telamone; come due fulvi buoi in mezzo al maggese tirano insieme il solido aratro, e intorno alle corna scorre abbondante il sudore, e solo il giogo ben levigato li separa mentre avanzano in mezzo ai solchi fino ai confini del campo: così stavano gli Aiaci, l’uno a fianco dell’altro.
(Omero, Iliade XIII, 701-708)
A parte la statura fisica di Aiace d’Oileo, anche quella morale non era un granché; era uno che si dava un sacco di arie e bestemmiava come un turco. Ora si sa che in fatto di buone maniere quasi tutti gli eroi lasciavano alquanto a desiderare, eppure, al suo confronto, gli altri sembravano appena usciti da un collegio svizzero.
Lui cercava sempre di mettersi in mostra: in mezzo alla mischia era solito portarsi dietro un serpente ammaestrato, che lo seguiva come un cagnolino. Godeva sadicamente nel torturare i nemici, e si divertiva un mondo a provocare risse tra i commilitoni. Insomma, era un paranoico.
Idomeneo, il vecchio re di Creta, non a caso lo giudicava
un insensato, un sobillatore, un essere inferiore a tutti gli Achei, e perdipiù cocciuto di mente.
(Omero, Iliade XXIII, 483-484)
Questa tracotanza, alla lunga, finì per costargli cara. Fu durante il saccheggio di Troia: era appena entrato nel tempio di Atena per far man bassa di oggetti sacri, quando si accorse che Cassandra, la figlia prediletta di Priamo, si era nascosta dietro la statua della Dea. Al che, senza star troppo a riflettere in che luogo si trovava (in definitiva era pur sempre un tempio), si avventò sulla sventurata eccitato come un mandrillo. Cassandra allora, urlando di terrore, si aggrappò disperatamente alla statua. Tira tu che tiro anch’io, finirono tutti giù per terra: lui, Cassandra e la statua. Si dice anche che quest’ultima, inorridita dal sacrilegio, abbia levato gli occhi al cielo e che da quel momento in poi non abbia più mutato espressione.
Qualcuno, però, fece la spia, e quando si trattò di dividere il bottino di guerra, Ulisse, vedendo che Cassandra era stata assegnata ad Agamennone, non perse l’occasione per accusare il figlio d’Oileo.
«Questo pazzo» disse ad Agamennone «ha violentato la tua donna, e lo ha fatto nel tempio di Atena, davanti alla statua della Dea!»
«Non è vero affatto!» protestò l’accusato. «Questa è una delle solite menzogne di Ulisse!»
Agamennone però lo fissò storto, e Aiace Due, vedendo la mala parata, corse nel tempio di Atena e, con una mano sull’altare, giurò, anzi spergiurò:
«Atena mi è testimone: non ho torto un solo capello a Cassandra!»
Di fronte a un’autodifesa così efficace, Agamennone non poté fare a meno di credergli, cosa che salvò Aiace dalla lapidazione, ma non dalla vendetta della Dea Atena. «Maledetto vigliacco!» esclamò, furibonda. «Maledetto lui e tutti quelli che gli prestano fede! Bella riconoscenza, dopo tutto quello che ho fatto per gli Achei! Ma, quanto è vero che sono Atena, impareranno e presto a rispettare gli Dei!» Ciò detto, andò da Poseidone, il Dio del mare, che da sempre aveva simpatizzato per i Troiani. Ed ecco, a detta di Euripide, quanto si dissero in quell’occasione:
ATENA Mi è concesso, deposta l’antica inimicizia, rivolgere la parola al più stretto parente di mio padre, a un grande Dio, onorato dai celesti?
POSEIDONE Ti è concesso: giacché una conversazione in famiglia, o gentile Atena, ha sempre un fascino sentimentale.
ATENA Lo sai che i Greci hanno oltraggiato me e i miei templi?
POSEIDONE So che Aiace ha strappato con violenza Cassandra dall’altare...
ATENA ...e che gli Achei non lo hanno punito, né hanno detto alcuna parola per condannarlo.
POSEIDONE Eppure avevano distrutto Troia proprio grazie al tuo aiuto.
ATENA È appunto per questo che, con il tuo aiuto, voglio far loro del male: intendo infliggere a tutti loro un ritorno disastroso.
POSEIDONE Per conto mio sono pronto ad accontentarti.
ATENA Ascolta il mio piano: quando faranno vela verso casa, Zeus rovescerà sulle loro teste cupe raffiche di vento e torrenti di pioggia e grandine. Poi mi metterà a disposizione, me lo ha promesso, il fuoco delle sue folgori, in modo da colpire gli Achei e incendiare le loro navi. Tu, da parte tua, prepara un Egeo mugghiante di onde gigantesche, furioso di vortici, e riempi di cadaveri il golfo di Eubea: devono imparare, gli Achei, a rispettare i templi e a onorare gli Dei.
(Euripide, Troiane 48 sgg.)
Così, durante il viaggio di ritorno, una spaventosa bufera inghiottì le navi greche come se fossero altrettante barchette di carta.
Mentre i Greci facevano ritorno in patria, furono travolti da una tempesta di pioggia e di venti avversi, sollevata dall’ira divina a causa delle ruberie ai templi e perché Aiace Locrese aveva strappato Cassandra dalla statua di Atena. Sbattuti dalle onde, i Greci fecero naufragio presso il promontorio di Cafareo.
(Igino, Fabulae 116)
Aiace d’Oileo fu tra i pochi a salvarsi grazie a uno scoglio sul quale riuscì ad arrampicarsi. Ma al Fato, si sa, non si sfugge, tanto più che non appena si vide al sicuro non trovò niente di meglio che sfidare il Cielo con un’ennesima bestemmia.
«Eccomi in salvo a dispetto degli Dei!» urlò, minacciando le nuvole con il pugno teso.
Al che Poseidone, più indignato che mai, prese il tridente e gli frantumò lo scoglio sotto i piedi.
E sarebbe sfuggito al destino, benché odioso ad Atena, se non avesse detto parole superbe. Accecato dalla vanagloria, infatti, disse che era scampato ai gorghi del mare, malgrado gli Dei. Lo udì Poseidone, proprio mentre pronunciava questa vanteria. Il Dio allora afferrò il tridente con mani vigorose e colpì la Rupe Girea spaccandola in due. Una buona parte rimase dov’era, mentre lo spezzone su cui stava Aiace, accecato di superbia, cadde in mare e lo trasse giù nell’abisso infinito. Così egli morì, dopo avere ingoiato acqua salsa.
(Omero, Odissea IV, 502-510)