XIII

Enea

Per una mamma i figli, si sa, so’ piezz’e core, e neppure Afrodite faceva eccezione alla regola: sebbene la cotta per Anchise le fosse passata, stravedeva per il piccolo Enea, e gli presagiva un fulgido avvenire. L’eroe, infatti, era destinato a diventare il capostipite del popolo romano.

Afrodite come prima cosa lo affidò alle amorevoli cure di un gruppetto di Ninfe abitatrici del monte Ida, che lo tirarono su a carezze e ambrosia (una pappa reale riservata agli Dei). Poi, quando raggiunse l’età scolare, lo mandò in città da un certo Alcatoo, affinché costui provvedesse alla sua educazione.

Fisicamente Enea era bellissimo e non poteva essere altrimenti, avendo per madre la Dea della Bellezza. Ne fa fede una descrizione di Darete Frigio:

Enea era di pelo rosso, aveva spalle quadrate e occhi neri e allegri; abile parlatore, affabile, saldo nelle decisioni, di animo pietoso e di modi aggraziati.

(Darete Frigio, Excidium Troiae)

Tutti gli autori concordano nell’attribuirgli una grande saggezza e un valore pressoché pari a quello di Ettore. Eppure, all’inizio, non volle prendere parte al conflitto: si sentiva snobbato da Priamo, che nell’assegnazione dei posti di comando gli preferiva i propri figli.

Il suo primo scontro con Achille avvenne ben dopo otto anni di guerra, e fu quanto mai cruento: il figlio di Teti, che a tempo perso si dedicava a saccheggiare i dintorni di Troia, cacciò Enea dal monte Ida a colpi di lancia, si fregò le sue mandrie e distrusse le vicine città di Pedaso e Lirnesso.

In quell’occasione Enea riuscì a porsi in salvo grazie a un intervento diretto di Zeus, che gli infuse nelle gambe tali energie da renderlo più veloce del suo nemico. Si tenga presente che, in quanto figlio di Afrodite, il nostro era un raccomandato di ferro: aveva alle spalle mezzo Olimpo che parteggiava per lui. In uno scontro con Diomede

sarebbe morto, allora, il signore di popoli, se non l’avesse scorto la figlia di Zeus, Afrodite, la madre che lo generò al pastore Anchise; intorno al figlio essa tese le candide braccia, con un lembo dello splendido peplo lo avvolse, per ripararlo dai colpi, perché nessuno degli Achei dai veloci cavalli gli piantasse la lancia nel petto e gli togliesse la vita. Così la Dea sottrasse il figlio alla battaglia.

(Omero, Iliade V, 311-318)

Da notare che, nella circostanza, anche Afrodite se la vide brutta. Diomede infatti

si tese in avanti e con un balzo la ferì con la lancia all’estremità del braccio delicato (...); l’arma penetrò nella pelle, al di sopra del polso; sgorgò la linfa immortale che scorre nelle vene dei beati.

(Omero, Iliade, loc. cit.)

La Dea allora, gemendo dal dolore, lasciò cadere a terra Enea, che, con un femore fratturato, stava di nuovo per essere raggiunto da Diomede, quando a trarlo d’impiccio ci pensò Apollo:

lo raccolse fra le braccia Apollo e lo avvolse in una nuvola oscura, perché nessuno degli Achei dai veloci cavalli gli piantasse la lancia nel petto e gli togliesse la vita.

(Omero, Iliade, loc. cit.)

Un’altra volta fu Poseidone a sottrarre l’eroe alla furia di Achille, facendoglielo scomparire da sotto il naso con il solito trucco della nuvoletta:

sugli occhi di Achille figlio di Peleo fece calare un velo di nebbia, poi dallo scudo del nobile Enea strappò la lancia di bronzo e la depose ai piedi di Achille; infine sollevò in alto l’eroe e con un balzo gli fece oltrepassare molte schiere di uomini e molte file di carri.

(Omero, Iliade XX, 321 sgg.)

Inutile dire che Achille, vedendo sfumare per la seconda volta la possibilità di far fuori il suo nemico, s’infuriò come una belva e si mise come al solito a imprecare:

Accidenti! Questo è certo un grande prodigio; ecco la mia lancia, qui per terra, ma non vedo più l’uomo contro il quale l’avevo scagliata sperando di ucciderlo. Certo è ben caro, Enea, agli Dei immortali: e io che invece pensavo che si gloriasse invano! Alla malora! Gli mancherà il coraggio di tornare a misurarsi con me, poiché ancora una volta ha avuto la fortuna di sfuggire alla morte.

(Omero, Iliade, loc. cit.)

Insomma, gli Dei lo amavano, e lui, Enea, li ricambiava. Profonda era, infatti, la sua religiosità: non prendeva una sola decisione senza prima compiere i sacrifici propiziatori, tanto che i Romani gli rifilarono il soprannome di Pius.

Anche l’ultimo giorno di guerra, quando ormai non restava che fuggire, la sua prima preoccupazione fu di salvare le statue dei Penati, gli Dei protettori del focolare domestico; e solo in un secondo momento pensò al padre Anchise e al figlio Ascanio:

Reggeva sulle spalle le sacre immagini dei numi, e un’altra sacra immagine: il padre, venerabile peso. Quell’uomo pio, fra tante ricchezze, scelse quel bene da salvare, nonché il suo Ascanio.

(Ovidio, Metamorfosi XIII, 624-627)

E la moglie Creusa? Che Enea avesse abbandonato Creusa al suo destino è sempre stato sottaciuto dai poeti. Da quanto abbiamo avuto modo di capire, Enea, prima di prendere il largo, avrebbe detto alla moglie:

«O Creusa, ho già addosso papà, Ascanio e i Penati. Almeno tu fammi ’sta cortesia: arrangiati!»

E Creusa fece una brutta fine: per quanto corresse, restò indietro e venne inghiottita dalle fiamme. Che poi Enea fosse tornato indietro a cercarla (ce lo assicura un certo Libanio Sofista) secondo noi è tutto da dimostrare.

Qui ora ci corre l’obbligo di riferire una diceria: in una curiosa versione sulle cause che portarono alla distruzione di Troia, dovuta a Darete Frigio, si sostiene che non sarebbe mai esistito il famoso cavallo di legno, ma che Enea, d’accordo con Antenore, un troiano di dichiarate simpatie achee, avrebbe consegnato ai nemici le chiavi della città in cambio della vita. Niente cavallo di legno, quindi, niente armati nascosti nel suo ventre, bensì solo un mazzo di chiavi per aprire una delle porte di Troia, chiamata per l’appunto Porta Cavallo a causa di un bassorilievo scolpito sull’arcata.

Se i Troiani avessero consegnato la loro città, i Greci avrebbero mantenuto la parola data, salvando la vita e gli averi ad Antenore, Enea, Ucalegone, Polidamante, Dolone e similmente ai loro figliuoli, alle mogli, ai parenti e agli amici.

(Darete Frigio, Excidium Troiae 1176)

Sempre secondo questa diceria, fu stabilito che i capi greci, durante la notte,

si accostassero alla porta Scea, che aveva di fuori scolpita una testa di cavallo, e quivi aspettassero; Antenore e Anchise, appostatisi di guardia, avrebbero aperto la porta all’esercito, e come segnale avrebbero mostrato loro un lume.

(Darete Frigio, op. cit. 1184)

Per il resto, la versione è in tutto simile a quella tradizionale: l’irruzione degli Achei, il saccheggio della città, le stragi e l’incendio.

Scappando da Troia, Enea esce dai confini della mitologia greca ed entra in quella romana. A fare da intermezzo, tra l’una e l’altra mitologia, l’incontro con Didone che è forse la più celebre e commovente storia d’amore del periodo classico. Per rendersene conto, basta leggere il quarto libro dell’Eneide.

Enea nel suo peregrinare per il Mediterraneo finisce a Cartagine. Qui si invaghisce della regina Didone, che a sua volta si innamora di lui. Tutto va per il meglio finché l’eroe, sempre per ubbidire alla volontà degli Dei, decide di ripartire. A nulla servono le implorazioni dell’amante.

Sei deciso a partire lo stesso, ad abbandonare Didone infelice, e gli stessi venti porteranno via le tue navi e le tue promesse? Sei deciso, o Enea, a sciogliere le navi e insieme i tuoi patti, per correre dietro ai regni d’Italia, che non sai dove sono? Non ti attira Cartagine appena fondata, né le sue mura che crescono, né la sovranità affidata al tuo scettro? Tu fuggi ciò che è già fatto e insegui ciò che è ancora da farsi: (...) un altro amore, immagino, ti attende, e un’altra Didone; dovrai fare altre promesse, da poter nuovamente tradire.

(Ovidio, Heroides VII, 7 sgg.)

Vedendolo irremovibile, la regina decide di uccidersi:

e sopra una pira, eretta col pretesto di un sacrificio, ella giacque colpendosi con un pugnale.

(Ovidio, op. cit.)

A questo punto tutti si commuovono, eccetto Dante che nella Divina Commedia la sprofonda nel cerchio dei peccatori carnali, con la scusa che non era rimasta fedele alla memoria del marito defunto:

l’altra è colei che s’ancise amorosa,

e ruppe fede al cener di Sicheo (...)

(Dante, Inferno V, 61-62)

Scaricata di brutto Didone, Enea sbarca in Italia, a Cuma, dove incontra la Sibilla, che lo invita a farsi un giretto per l’Oltretomba. Così può rincontrare il padre Anchise che gli predice un glorioso avvenire:

«Ora qui ti mostrerò» soggiunse Anchise «quanta sarà nei secoli futuri la gloria nostra: quanti e quali nipoti nasceranno dalla stirpe dei Dàrdani e quante anime illustri, sangue del mio sangue, sorgeranno in Italia. Potrai così conoscere quali saranno le tue fortune e quale il tuo Fato.»

(Virgilio, Eneide VI, 1135-1141)

E giù una sfilza di nomi, da Romolo all’imperatore Augusto, fino alla celebre ammonizione:

«Voi, o Romani, governate il mondo con l’autorità delle armi, e le vostre arti siano l’essere giusti in pace e invincibili in guerra, perdonare gli umili e sconfiggere i superbi.»

(Virgilio, loc. cit.)