Luglio 1997

La finestra spalancata nella riposta speranza che spirasse un soffio di vento. Il piccolo ventilatore a colonna a ronzarmi a pochi centimetri dal viso. Nulla riusciva a mitigare il senso di oppressione di quell’afa letale. Tamponavo il sudore con un fazzoletto bagnato mentre persino le pagine dei libri parevano sfrigolare.

Restare trincerato nella mia stanza eremo con quella canicola era un autentico calvario. E allora, sciolto il mio voto di clausura, nelle ore più calde, nella disperata ricerca di un refrigerio, mi spingevo fuori casa.

Sceglievo un libro voluminoso che mi portavo appresso come un’appendice del corpo, e raggiungevo, a dieci fermate dal mio quartiere, la prima stazione interrata della tratta ferroviaria.

Mi sedevo sull’ultima panca di marmo, all’estremità della banchina, e di tanto in tanto gettavo lo sguardo sul tabellone luminoso delle partenze, fingendo di vibrare d’impazienza come se attendessi l’arrivo di un treno.

Me ne restavo lì, nella fresca penombra di quella stazione, fintanto che non avessi ultimato il mio libro. I passeggeri andavano e venivano, sostavano sulla banchina giusto il tempo di attesa del loro convoglio e poi sparivano. La luce al neon imprimeva una cera di morte su ogni volto che illuminava. Il tempo mi passava a scatti, minuti che si dilatavano nel modo più assurdo, intere mezzore che sparivano sul quadrante in un battere di ciglia.

Nessuno poteva realizzare che rimanevo seduto a leggere per un tempo tanto prolungato. Per tutti ero una presenza fissa solo per una manciata di istanti. Nessuno poteva essere testimone del mio passatempo solitario. Il mio comportamento esteriore era tutt’al più quello di un viaggiatore che ha perso una coincidenza.

Di tanto in tanto, allo sciamare di adolescenti accaldati e ridanciani, ero trafitto da un lieve turbamento. Non volevo subire l’umiliazione dei loro sguardi di irrisione. Detestavo quella gioventù dai pantaloni larghi, dalle canottiere attillate, dai sorrisi ottusi e gonfi di barzellette oscene. Mi rinserravo, quasi a sprofondare dentro il libro che tenevo tra le mani.

Quel pomeriggio torrido di luglio, mentre in una pausa dalla lettura strizzavo gli occhi, ferito dalle luci da obitorio della stazione, mi accorsi al margine del mio campo visivo di una presenza all’altra estremità della banchina. Mi voltai giusto il tempo di accorgermi che una ragazza, seduta a gambe incrociate, leggeva, assorta, un libro che teneva sollevato con una mano all’altezza degli occhi.

Come in una emulazione parallela, la ragazza non accennava a lasciare la sua panca di marmo.

Mi bastava l’ombra scura in fondo all’occhio per saperlo, la macchia nera che di sottecchi mi confermava la sua presenza.

A distanza di ore era ancora lì, come me sommersa a intervalli regolari dalla fiumana di passeggeri e dallo sferragliare dei treni. La banchina ogni volta pareva attraversata da piccole onde di terremoto.

Non potei reprimere un moto di disagio. Adesso era testimone del mio piccolo segreto. Certo anch’io avrei potuto dire lo stesso. Ma io ero solo, lei forse copriva il tempo di un’attesa vera.

Sebbene non avessi completato la lettura, ebbi l’impulso di andarmene. Era da più di mezz’ora che fissavo la sagoma delle parole senza mai varcare la soglia del loro nudo significante e non avrebbe avuto senso continuare.

Non sopportavo l’idea che quella sconosciuta potesse prendersi gioco di me. E mentre rimuginavo sul da farsi, percepii con la coda dell’occhio che era balzata in piedi. Con il suo libro sottobraccio ora percorreva la banchina nella mia direzione, per raggiungere evidentemente le scale mobili e risalire in superficie.

Mi chinai sul libro. Non volevo che, approssimandosi, potesse vedere riflessa nei miei occhi la solitudine di cui ero ostaggio. Rallentò nel transitarmi davanti, mi oltrepassò di poco e la sentii ridacchiare. Quella risata mi colpì come uno schiaffo. D’istinto sollevai il capo e incrociai per pochi istanti il suo sguardo. Ora procedeva verso di me, agitando il suo libro tra le mani.

“Non è incredibile?” disse, tenendo il volume stretto sul torace. Quando buttai l’occhio sulla copertina abbozzai un timido sorriso.

“Dai, sembra fatto apposta, no? Stiamo leggendo lo stesso libro,” riprese, scuotendo il capo incredula.

Mi sollecitava con lo sguardo, in attesa che io parlassi, che pronunciassi una qualsiasi parola. Ma non potevo, non sapevo a quale pozzo di coraggio attingerla.

“Ho scoperto da poco Pasolini. Un grande!” esclamò con una pressione implacabile nella voce, come a non lasciarmi scampo.

Seguì un silenzio greve, un buco nero di quelli che solo io sapevo creare e nei quali riparavo come in una tana.

“Ho letto tutto di lui,” dissi per spezzare quel silenzio, in un sussurro sporco di raucedine. Sostenevo una sfida personale con le poesie di Pasolini. Tutto nei suoi scritti sembra esaurire la realtà ma la vita resta sempre un passo più avanti della poesia. Il mio rovello era lo scarto di ciò che le sue parole riuscivano solo a sfiorare. Quando mi illudevo di avere compreso a fondo, sentivo come una rottura di confini, un essere accolto.

Lei si sentì incoraggiata e si sedette vicino a me, all’altra estremità della panca di marmo. Deglutii un grumo denso di saliva e mossi nervosamente le gambe come colto da un fastidioso prurito.

Il pianto della scavatrice è la mia preferita,” rivelò, mentre un treno sopraggiungeva a coprire la sua battuta con un fracasso infernale.

“Solo l’amore, solo il conoscere conta, non l’aver amato, non l’aver conosciuto,” mormorai guardando via di lato, rosso di imbarazzo.

Provai una istintiva simpatia per questa ragazza che, come me, era uscita di casa per leggere Pasolini nella penombra di una stazione, in mezzo al flusso di chi parte e di chi arriva. Entrambi eravamo minatori impegnati in un cieco lavoro sottoterra.

Forse anche lei si portava addosso una mancanza, forse ne stava misurando i contorni con me, nella speranza che nella collisione con la mia solitudine la sua cominciasse a erodersi.

Non sapevo più come tenere a bada il mio disagio. Mi alzai, finsi di guardare con apprensione il tabellone, allargai le braccia e mormorai con voce tremante, scontroso come un mulo: “Ora devo andare.” Eravamo uno di fronte all’altra, immersi nella lenta marea di viaggiatori che passavano e ci urtavano.

Il suo sguardo mi fece capire che aveva intuito che la mia fosse una scusa per liberarmi di lei. Non c’era animosità nei suoi occhi, solo il riverbero di una tenera delusione per questa mia pietosa bugia.

Accennai un saluto levando appena la mano e la oltrepassai mentre un altro treno portava su e giù altri plotoni di umanità anonima.

Mentre ero a metà della banchina, l’eco di una rincorsa. Ansimante, rossa in faccia, mi afferrò per un braccio. “Aspetta! Non ci siamo presentati.”

Non si era rassegnata al mio commiato, cercava disperatamente un nuovo pretesto per riavviare la conversazione.

Il suo sguardo implorante fu più forte della mia volontà di sfuggirle. Crollai il capo.

“Domenico,” dissi allungando timido una mano.

“Piacere, Anna,” rispose con una delicatezza molto simile al pudore.

Il suo sguardo mi paralizzò al punto che allentai la presa sul libro, che scivolò a terra, e presi a correre come mai avevo fatto nella vita, neanche fossi inseguito da una muta di cani feroci.