Febbraio 1998

L’alba livida di un lunedì, con la nebbia sottile che odora di immondizia e un vento freddo che sferza la pelle. I sacchi della spazzatura ammucchiati sui marciapiedi levigati dalla brina. Un vapore di cose rancide nell’aria.

Mi ritrovo davanti alla saracinesca del bar di Agosto a battere i piedi e a soffiare fiato caldo sulle mani a conca.

Un silenzio da inverno nucleare intorno, spezzato solo dal battito diesel di un camion fermo con il motore acceso all’altezza dell’edicola. Un mezzo della nettezza urbana che con il braccio metallico aggancia i bidoni, li solleva in aria e poi li rovescia nel suo intestino fetido.

Mi sono presentato con largo anticipo, non riuscendo più a far dilatare il tempo in casa dopo il secondo caffè e la replica di una vecchia sit-com nel palinsesto morto della tv.

Percorro le strade incontaminate del tragitto verso il bar con un senso di incredulità e timore. A memoria non ho mai vissuto questo interregno che va dalle cinque alle sei del mattino fuori da un letto.

Agosto mi ha convocato all’alba come un bracciante clandestino. E la quiete che mi respira addosso mi pare quella sospensione acustica che precede di solito un evento spartiacque.

Sembro precipitato in un vecchio film in bianco e nero. Mi manca di ammonticchiare ai piedi un cumulo di mozziconi ma il fumo è un altro dei vizi da cui sono rifuggito e che si è trasformato, mio malgrado, in una involontaria virtù.

Mentre osservo le tapparelle serrate dei palazzi attorno penso a mio padre, alla sua reazione furibonda quando ha saputo che in fabbrica non ci ho messo piede. Penso alle urla disperate di mia madre mentre lui mi sbatte contro una parete della cucina e mi preme le mani sul collo.

Penso a quale inversione del destino mi abbia portato, in un lunedì mattina di freddo spietato, ad accettare il salto nel buio di Agosto. Il pilota automatico che ora decide al mio posto, si è lasciato lusingare dalla scorciatoia più facile. Pur di sfuggire a quel posto in fabbrica, ecco che mi lascio catturare come un pesciolino nella rete di un predicatore visionario.

A distogliermi dalle mie elucubrazioni, provvede un rumore di pneumatici in lontananza. Ci siamo, penso. Sento chiarissima la voce fuori campo della mia intelligenza che mi ripete di inventarmi una scusa e fare dietrofront. Quando la Fiat Bravo di Agosto inchioda, ho già ricacciato in fondo alla gola tutte le mie esitazioni.

Una volta montato in auto, l’abitacolo si trasforma per me in una cella soffocante. Accanto ad Agosto, sul sedile anteriore a lato del guidatore, siede un ragazzo. È tarchiato, il naso schiacciato sulle labbra, con le narici larghe, da cinghiale. L’espressione ombrosa di uno concentrato nei suoi cattivi pensieri. Si contorce come un cane alla catena, si strofina nervosamente il viso con le mani. Si volta di continuo, fulminandomi con una smorfia di disprezzo e ritornando a strofinarsi il viso. Paralizzato dal panico, pianto lo sguardo sul finestrino. Nessuno fiata.

È Agosto a infrangere quel silenzio. Si accende una sigaretta, abbassa il finestrino di una spanna, tira una prima boccata e mormora, con gli occhi oltre il parabrezza, fissi sulla strada, come se parlasse a tutti e a nessuno: “Una buona vendetta per compiersi ha bisogno di uno spettatore innocente.” Immagino che si riferisca a me e che queste parole deliranti servano a rabbonire il suo scagnozzo.

“Quello è l’appartamento del nostro uomo,” annuncia Agosto dopo un lungo tragitto oltre la tangenziale. Mi sporgo dal finestrino a contemplare una palazzina signorile. I tre quarti d’ora di viaggio ci hanno condotti nella tipica zona residenziale della media borghesia, un posto di gente che parla sempre con la bocca a culo di gallina. Domicilio insolito per un sindacalista.

Agosto fa pronunciare al suo scagnozzo un nome al citofono che non afferro ma che evidentemente gli è utile perché la serratura del portone si apre con la tempestività di chi attende una visita già fissata.

Mentre l’ascensore sale al piano, comincio a tremare impercettibilmente, sentendomi come un attore che entra in scena senza aver mai provato.

Nella casa c’è segno di grande opulenza. Mobili, quadri, sculture. Un’aria frigida da museo di provincia. Mi sento soffocare. Agosto si dirige nello studio del sindacalista con la medesima irruenza di un toro alla rincorsa di un drappo rosso. Io e il ragazzo, con passo incerto, alle sue spalle.

È un uomo corpulento, con il sibilo di fiato tipico dei cardiopatici. Seduto a una scrivania di noce, è intento a sfogliare un quotidiano. Alle sue spalle troneggia una riproduzione del Quarto stato di Pellizza da Volpedo.

“E voi chi siete?” grida stridulo appena siamo dentro lo studio.

Agosto a un passo dalla scrivania, ringhia a muso duro: “Credevi di farla franca, Ferrara?”

L’uomo pare inclinarsi in avanti, come colpito alle spalle da un pugnale invisibile. Nei suoi occhi una luce di puro terrore. Una vena sulla tempia gli pulsa come se avesse un verme che si contorce sotto la pelle.

Agosto spazza l’aria con un braccio. Si protende sulla scrivania, a un centimetro dal volto dell’uomo.

“Mio padre si fidava di te. Maledetto.”

L’uomo è una statua di sale, le mascelle che vibrano, gli occhi che si dilatano. Con una mossa fulminea, Agosto si strattona l’orlo dei jeans ed estrae una pistola.

L’uomo indietreggia spingendo la sedia contro la parete, il ragazzo avanza alle spalle di Agosto. Io, paralizzato dal panico, in cerca di un sostegno, mi appoggio con entrambe le mani a uno schedario con cassetti d’acciaio premuto contro una parete poco dopo l’ingresso dello studio. Mi domando perché Agosto mi abbia trascinato lì. La lusinga di un guadagno facile che mi mettesse al riparo dalle rimostranze dei miei ha vinto ogni mia resistenza ma ora, immerso in questo scenario malavitoso, maledico me stesso.

“Te la godi la tua pensione dorata, eh? Ti sei costruito una vita di agi sulla pelle degli operai che dovevi difendere. So tutto di te, dove nascondi i soldi che continui a prendere per onorare il tuo silenzio. Quei soldi sono sporchi di sangue. Ora sono il legittimo risarcimento per le famiglie che hai mandato sul lastrico.” Agosto sputa le parole con tale foga che fatica a pronunciarle separate. Schizzi di saliva gli partono dalle labbra come schegge.

“Non so di che parla,” riesce a mormorare l’uomo, con un tono di rabbiosa implorazione. Vago freneticamente con lo sguardo da Agosto a Ferrara, gli occhi che mi scattano nelle orbite, come se assistessi a una tesa partita di tennis.

Agosto fa un cenno al ragazzo di provare a spostare il lungo pendolo appoggiato alla parete. Deve celarsi con tutta probabilità un deposito di contanti. Agosto si muove in quello spazio come se conoscesse ogni dettaglio, come se sapesse esattamente dove e cosa cercare.

I movimenti di Agosto nel trascinare il pendolo in avanti sono impediti dall’arma che tiene in pugno e dalla concitazione di non perdere di vista l’uomo.

“Domenico, tieni!” grida d’un tratto, con un filo di sudore a colargli sulle tempie. Io sono sempre appoggiato sul ripiano dello schedario di metallo, a tentare di rincorrere un respiro che sento abbandonarmi.

“Domenico, tieni!” grida ancora Agosto, agitando in aria la pistola. Il suo sguardo ha una nuova durezza, una specie di splendore metallico.

Non riesco a muovere un passo. Lo guardo sconvolto, incredulo, con i denti che sbattono come un martello contro un chiodo.

Agosto allora mi raggiunge, mi strattona con violenza, mi apre a forza la mano tremante, poggia sul palmo la pistola e mi spintona in avanti.

“È carica. Tieni sotto tiro questo bastardo mentre cerco di spostare questo cazzo di pendolo.”

Tengo in mano la pistola come un artificiere alle prese con un ordigno. Temo che un minimo movimento possa provocare l’irreparabile.

Frattanto Agosto e il ragazzo con fatica riescono pian piano a trascinare in avanti il pendolo, distanziandolo dalla parete.

La mano con la quale impugno la pistola ondeggia come una foglia scossa dal vento. Il sindacalista mi osserva ora con una strana fissità. I suoi occhi quelli di una bestia ferma su un dirupo.

Mentre Agosto e il suo scagnozzo trafficano sulla parete, riparati dal pendolo che incombe alle loro spalle, l’uomo di colpo si guarda intorno, nasconde le mani sotto la scrivania. In un lampo mi trovo davanti il foro nero di una pistola, puntata contro di me.

L’uomo pare accennare a un movimento brusco che mi blocca il respiro.

Scoppio in un urlo lacerante, premo il grilletto riuscendo a fiaccarne la resistenza, il braccio che schizza verso l’alto, il petto che prende il colpo del rinculo, un dolore acuto alla spalla. I timpani trapassati da un dolore di spilli.

Mentre ancora grido come fossi vittima di un attacco epilettico, i miei occhi si soffermano sullo schizzo rossastro che ora imbratta un’estremità del Quarto stato.

Il corpo di Ferrara riverso sulla scrivania, la testa adagiata sulla pozza color prugna del suo sangue.

Mentre il braccio mi pesa come un macigno e avverto nelle orecchie un sibilo ovattato, Agosto mi fissa con un ghigno lucente. Penso che deve essere così che un piromane guarda l’incendio che ha appena appiccato.