Settembre 1984
Quella mattina mia madre faticò a svegliarmi e a trascinarmi fuori dal letto. Il mio primo giorno di scuola. La prospettiva di essere scaraventato nel marasma di un nuovo gruppo di bambini riempiva di orrore la mia sensibilità di introverso e taciturno.
Desideravo essere lasciato in pace, nel mio angolo sul tavolo della cucina, con i miei fogli immacolati. Impugnavo i pastelli come fossero batticarne e disegnavo senza sosta. Non mi limitavo a tratteggiare figure da colorare. Ero una sorta di fumettista. Disegnavo in tempo reale come se sceneggiassi una storia, depositavo su carta i protagonisti delle mie fantasie mentali.
Non volevo offrire allo sguardo del mondo, allo sguardo crudele di altri bambini, la mia postura di alieno, le mie guance calde di imbarazzo, la mia gola secca di parole e di risate. Mia madre sollevava le coperte e io, caparbio e singhiozzante, mi ricoprivo rinserrando la testa sotto il cuscino. Fu mio padre a sollevarmi con forza bruta e a scaraventarmi a terra.
Non appena varcai la soglia della scuola, alla vista di quella massa fluttuante di bambini, scoppiai in singhiozzi. Tiravo la gonna di mia madre e la imploravo di riportarmi a casa.
Quando fu richiamata dalla maestra della mia classe, insieme a tutte le altre mamme con i rispettivi figli al seguito, mi strattonò per un braccio, pronta a seguire il flusso che si indirizzava alla mia aula lungo due rampe di scale.
Non ci fu verso di spostarmi. Come se avessi messo radici, come se i miei piedi si fossero saldati al linoleum.
“Domenico, per piacere. Non fare capricci. Muoviti,” mi esortava innervosita e intanto mi strattonava con forza il braccio come tirasse una fune, mentre io, le guance umide di muco e lacrime, pattinavo di qualche passo appena, e opponevo resistenza con i piedi e con tutto lo stagno del peso.
Ora l’atrio d’ingresso della scuola era deserto. Tutti i bambini erano nelle loro aule, un gruppetto di mamme fuori dalla scuola a chiacchierare emozionate.
Mia madre continuava a grugnire disperata. Con tutta la caparbietà dei miei sei anni di solitudine interiore non avevo intenzione di farmi condurre in quella che la mia piccola sensibilità riteneva una sorta di camera degli orrori.
Richiamate dai miei gemiti strazianti e dai rimproveri di mia madre, intervennero una bidella e una maestra. Ora erano in tre a tentare di rabbonirmi, a offrirmi una caramella, a sussurrarmi parole dolci, a tentare con l’inganno di condurmi in classe.
“Signora può andare, ci pensiamo noi,” disse gentile la maestra.
Mia madre la guardò smarrita e incredula. “Mi creda, Domenico è terribile quando ci si mette,” disse con il fiato corto.
“Non si preoccupi, ci siamo abituati. Vada signora.”
La bidella fece cenno a mia madre di dar retta alla maestra. Mia madre allora, sconfitta, mi lasciò la mano e si diresse verso l’uscita. Tentai di rincorrerla, subito afferrato dalle due.
I sussulti del diaframma, le vie nasali che si riempiono di muco, la respirazione che accelera fino a un massimo d’intensità, e poi di colpo si placa. Questo lo spettacolo che offrii per più di un’ora mentre la bidella e la maestra grugnivano di impotenza.
Fu il direttore, virilmente, a risolvere l’impasse. Mi agguantò di peso con una forza sovrumana, mentre io scalciavo come un impiccato, e mi condusse lungo le due rampe di scale, su fino alla soglia dell’aula. Senza più versare una lacrima, preda di una rabbia impotente, mi morsi la lingua fino a farmi gemere le mandibole e a farla sanguinare. Poco dopo, nel momento del respiro, quando riaprii la bocca scivolò il sangue. La maestra, terrorizzata, prese dei fazzolettini che si inzupparono subito. Ce ne vollero parecchi prima che riuscisse a fermare la piccola emorragia e osservare da vicino il piccolo taglietto alla lingua. La scuola fu un battesimo di sangue.
Non ci fu verso di introdurmi in classe. La maestra decise allora di smetterla di tormentarmi. Fece cenno al direttore e alla bidella di andare, che potevo pure restare seduto sul pavimento, appoggiato allo stipite della porta aperta.
Con gli occhi gonfi e rossi, me ne stavo con una mano sul viso, ogni tanto allargavo appena le dita per spiare intorno a me come dalle fessure di una persiana. Con il respiro mozzato dalla fatica della mia resistenza fisica, mi ripromettevo che mai sarei entrato in quell’aula colorata, gremita di bambini che vedevo come carnefici pronti a divorarmi. Sì, pensavo, se proprio la mamma voleva obbligarmi ogni mattina a entrare a scuola, io me ne sarei rimasto lì, tutti i giorni, fuori dall’aula, a guardare il lungo esofago del corridoio aprirsi davanti a me.