Ildefonso Due mi guardò come se si aspettasse che fossi io a continuare la sua storia.
«Capisco» commentai. «Naturalmente ti sei messo subito in viaggio».
«Esatto! Immediatamente» rispose il librovoro. «Senza prepararmi in alcun modo, senza equipaggiamento. Così».
«Mi ricorda qualcosa» dissi. «È così che sono partito da Forte Vermicchio, all’epoca. Però avevo delle provviste».
«Be’» disse Ildefonso Due. «Ero convinto che la faccenda si sarebbe conclusa nel giro di una giornata. Mi attenni al percorso descritto da Elias: attraversai il giardino di cristallo fino agli alberi di smeraldo, feci attenzione all’erba tagliente, trovai la scala di cui mi avevano parlato e percorsi la galleria, abitata davvero da insetti schifosi, che però dormivano o forse erano morti, con gli insetti non si sa mai. E, in effetti, la galleria era così stretta che un drago non ci sarebbe mai passato. O almeno non un drago adulto. Ero uscito dalla grotta di pelle. Così! Mi trovavo in una caverna bassa, ma così ampia da risultare comunque enorme. Qua e là vedevo ancora qualche minerale luminescente come nella grotta di cristallo, ma per il resto l’illuminazione era scarsa. Da quel momento mi avrebbe guidato l’olfatto, così aveva detto Elias. Ed era vero. Da quel giorno l’odore di palude fa parte del mio piccolo bagaglio di esperienze. Nella grotta di pelle ci sono delle polle bollenti, ma quella che scorre nella dura roccia non è altro che acqua e non ha praticamente alcun odore, a volte è solo un po’ sulfurea. All’interno della grotta non ci sono paludi o acquitrini, quindi diedi per scontato che quel particolare odore di terra bagnata che ora guidava i miei passi venisse dalla palude unzosa. L’aroma di libri essiccati non avrebbe potuto guidarmi fin lì, visto che diversi settori delle catacombe odorano di vecchi volumi. No, questo era qualcosa di completamente diverso, un’esperienza olfattiva del tutto nuova, un mondo sconosciuto. Un’aria estremamente umida, impregnata dal profumo intenso della carta che marciva, misto all’odore di piante putride. La puzza di acqua salmastra nella quale libri morti e vegetazione senza vita si decomponevano assieme. Non era propriamente piacevole e, al contrario, un po’ pauroso, ma anche eccitante perché nuovo e diverso, selvaggio e misterioso. Accelerai il passo. Bramoso e terrorizzato allo stesso tempo, volevo scoprire che aspetto avesse quello che fiutavo. Captavo poi dei rumori sconosciuti, inquietanti: qualche sporadico gorgoglio e stridio, borbottio e singhiozzo. Come se sott’acqua ci fossero dei mantici in azione.
Inoltre avevo nelle orecchie un incessante frullare e sibilare di insetti svolazzanti, cosa che mi infastidiva sempre di più: piccoli sciami di socievoli fuochi fatui che cambiavano continuamente colore mentre mi ronzavano attorno. Minuscole zanzare assetate si avvicinavano invadenti e avide di sangue. Moscerini ancora più piccoli, quasi invisibili, impazzivano per il mio liquido oculare. A questi si aggiungevano libellule trasparenti incredibilmente grandi, dotate di quattro o addirittura sei ali, e grilli senza occhi ma con antenne lunghissime che frinivano in maniera irritante. Nella grotta di pelle non avevo mai visto una varietà di insetti così ampia e impressionante».
«Gli insetti delle catacombe sono una delle ragioni per cui non resisterei mai a lungo qua sotto» interruppi il racconto del librovoro. «Proprio non capisco come facciate a sopportarli».
Ildefonso Due mi guardò con il suo unico occhio e fece spallucce. «È tutta una questione d’abitudine» rispose, e riprese con la sua storia.
«Il terreno divenne sempre più morbido, altra cosa che fino a quel momento non avevo mai sperimentato.
Le piante dei miei piedi conoscevano solo terreno roccioso, granito, lava o marmo levigato. Ma adesso avevo a ogni passo la sensazione di camminare su qualcosa di umido, cedevole, quasi vivo. La cosa mi rendeva insicuro. Sarei sprofondato al passo successivo? O a quello dopo ancora? Non avevo mai avuto bisogno di ponderare i miei passi in maniera così cauta. Avevo sentito di librovori che erano affondati in sabbie mobili di libri ed erano soffocati. Si trattava di ammassi di vecchissimi volumi che al primo sguardo sembravano intatti, ma che in realtà erano talmente disidratati che, se solo si provava a toccarli o a salirci sopra, si dissolvevano subito in polvere finissima. In grandi quantità, potevano diventare una trappola mortale. Ma nel caso dei libri zuppi d’acqua di questa palude – a quanto pareva mi ci trovavo già nel mezzo – il problema non era la scarsa idratazione, bensì il contrario. Qui si poteva letteralmente affondare nell’immondizia letteraria. Oltre ai vecchi libri, il Magmosso aveva trasportato in questa parte delle catacombe anche altri rifiuti della civilizzazione, insieme a terra, sabbia e torba in quantità e addirittura piante che avevano tutta l’aria di provenire dal mondo superiore. Probabilmente un tempo il Magmosso aveva trascinato con sé un intero acquitrino, comprese piante e animali, che poi si erano adattati a sopravvivere laggiù o erano mutati. Altrimenti non si sarebbe spiegato quel miracolo della natura a una tale profondità dalla superficie. Ovunque c’erano piante incolori e flosce che proliferavano in ogni direzione».
«Perché cercavano il sole» lo interruppi ancora.
«Esatto, là sotto non splende alcun sole. Ma queste piante esistevano lo stesso, probabilmente con le loro ultime forze. Avevano un aspetto pallido e malaticcio. Sulla superficie della palude galleggiavano foglie mosce e piatte, sulle quali a volte sedevano rane senza occhi che emanavano una luce violetta e gracidavano in tono di rimprovero. Qua e là spuntavano dall’acquitrino stalagmiti coperte di muschio, anche in esemplari giganti. E, nonostante tutta quella decadenza, c’era una certa vita, te lo posso assicurare! Nel terriccio umido strisciavano miriadi di insetti che, si spera, si trovano solo lì e in nessun altro luogo! Le creature con più di cinque zampe sono già abbastanza spiacevoli, ma se in più sembrano anche malate o mezze morte o hanno l’aspetto di scheletri di insetti, è una vista veramente deprimente, credimi! E c’erano ancora molti altri animali. I più dall’anatomia flessibile e dalla pelle viscida. Vermi, lucertole, sanguisughe, lumache, pesci con le gambe… bleah!»
Ildefonso Due rabbrividì. La sua descrizione, così precisa e dettagliata, iniziava a mettere a disagio anche me. «C’erano anche le bisce d’acqua?» chiesi. «Quelle mi fanno particolarmente senso».
«Fino a quel momento i serpenti nemmeno li conoscevo» rispose il librovoro, «e avrei potuto vivere benissimo anche con questa lacuna. Quei rettili lunghi e viscidi senza zampe, con la loro lingua curiosa, mi incutevano una paura mai provata prima. E non avevo idea che potevano essere velenosi! E poi c’erano addirittura dei mammiferi, per quanto potessi giudicare con le mie modeste conoscenze di biologia. Piccoli animaletti nervosi e pelosi con gli occhi verdi lucenti e i denti gialli aguzzi, che per i miei gusti si muovevano troppo in fretta nell’acqua oleosa… brrr! Per fortuna, però, sembravano avere più paura loro di me che io di loro! Infine altre creature che spuntavano e si reimmergevano così veloci nelle numerose pozze e nei piccoli e grandi stagni che non saprei descriverle neanche approssimativamente. Nella palude unzosa c’era più varietà biologica di quanta ne avessi mai vista. Credo di averci visto addirittura dei libri viventi».*
«Davvero? Libri viventi?»
«Non ne sono del tutto certo» rispose il librovoro con un’alzata di spalle. «È successo così in fretta. C’erano dei libri con occhi rossi scintillanti che, quando mi hanno visto, si sono immersi all’istante sott’acqua».
«Come facevi a vedere?» chiesi. «Da dove veniva la luce?»
«Oh, di illuminazione ce n’era in abbondanza» rispose Ildefonso Due. «Ma solo qua e là. In alcuni punti c’erano piante fosforescenti che emanavano una luce pulsante, funghi, alghe, muschio incandescente. Sott’acqua fluttuavano meduse luminose, uno spettacolo inquietante, soprattutto se si muovevano. ‘Penombra’ non sarebbe la parola giusta, diciamo che c’erano delle isole di luce. Insomma, erano presenti parecchie fonti di luce che a tratti rubavano un pezzetto di palude all’oscurità. E poi di nuovo buio. Luce, buio, luce, buio. Riuscivo a riconoscere molte cose, ma nessuna con certezza, capisci? E poi tutti quei rumori. Erano delle rane a emettere quegli strani squilli di tromba? O qualcosa di completamente diverso? Il frinire dei grilli lo conoscevo, anche nella grotta di pelle si sentiva di tanto in tanto. Ma quel rantolio gorgogliante non era solo strano e spaventoso, ma decisamente vomitevole. Faceva pensare a un’unica gigantesca creatura con problemi di digestione, un continuo brontolio di stomaco, rutti e…» il librovoro cercò la parola corretta «… flatulenze! Ma in realtà si trattava di innumerevoli esseri, una folle oasi sotterranea, un magazzino che, grazie all’umidità e all’ampia offerta alimentare, attirava magneticamente e ospitava le specie più diverse. Non solo animali, ma anche vegetali. E chissà cos’altro ancora! Creature ibride, forme miste di flora e fauna… immaginatelo come un insieme di tutto ciò che può avere sete. Ho visto funghi con le branchie. Pesci con i peli, creature di fango e radici. L’unica cosa nota sembravano essere i libri antichi, che erano veramente onnipresenti. In vari stadi di decadimento, galleggiavano come pesci morti nelle pozzanghere nere. Si ammucchiavano sul pantano come colline e argini abitati da legioni di insetti, bachi, coleotteri, acari, vermi e pidocchi che li attaccavano, masticavano e perforavano incessantemente. Nell’aria risuonava un continuo strusciare, scrocchiare e scricchiolare, il rumore di un pasto senza fine. Intanto, carta e cuoio venivano digeriti da muffe che, pazienti e silenziose, trasformavano il proprio nutrimento in luce fioca. Alcune parti della palude erano illuminate di un verde spettrale che si posava sulle cose come un sudario. Altre erano immerse in una luce bluastra o violetta».
«C’erano segni di civilizzazione?» chiesi al librovoro. «A parte libri e carta?»
Ildefonso Due rifletté per un istante. «Là sotto anche solo un’asse di legno marcia poteva essere considerata come un segno di civilizzazione. Qua e là dalla palude spuntavano resti di scaffali da biblioteca, spesso con dentro libri ammuffiti. A un certo punto vidi una pendola intera che sbucava dall’acquitrino, ricoperta di lumache. Scale a chiocciola mezze distrutte che ricordavano le carcasse di pesci giganti. Paioli di rame, sedie e scrivanie. Vasi, piatti. Un enorme gong! Intere biblioteche universitarie con relativo mobilio sembravano essere state trascinate laggiù, le mensole a volte completamente distrutte, a volte sorprendentemente ben mantenute. C’erano libri triangolari e pentagonali, e addirittura rotondi e a forma di stella! Strani oggetti di culture scomparse, di popoli da lungo tempo dimenticati. Non osai ripescare dal fango neanche un volume gonfio d’acqua per vedere cosa ci fosse di leggibile. Sembrava ovvio che così facendo mi sarei solo attirato addosso bachi e scarafaggi. O qualcosa di ancora più disgustoso. Gli studiosi di letteratura e gli antiquari perderebbero la ragione nella palude unzosa, credimi! Quella montagna di roba irrecuperabile che ti si polverizza tra le mani ti spezza il cuore. Era come attraversare un campo di battaglia pieno di moribondi ormai impossibili da salvare. L’acqua marcia della palude prima o poi distrugge tutto. Alcuni libri si erano gonfiati fino a raggiungere il doppio o il triplo del volume originario, altri erano così bagnati che la rilegatura era saltata o si disintegravano in grandi frammenti di cartapesta. Ovunque nelle pozze galleggiavano pagine staccate, brandelli di carta e pezzi di copertine riccamente decorate. Qua e là spuntavano dall’acqua marrone piccole piante simili ad alberi, robuste radici aeree ricoperte di muschio e funghi, con rami arricciati come cavatappi dai quali pendevano libri come frutti sul punto di marcire.
Affascinante e inquietante allo stesso tempo, materiale adatto ad animare sia sogni che incubi. Alberi con libri impiccati! Chissà se quei vecchi mattoni erano effettivamente tutti imbevuti d’unza? Mi mancava tutto per controllarlo: il tempo, la calma, la conoscenza delle lingue antiche. Presumibilmente si trattava per la maggior parte di libri comuni e affatto interessanti, come in qualsiasi biblioteca. Giusto?»
«L’unza fa le spese di una certa esagerazione mitologica» risposi. «Ma a volte un libro è solo un libro, non è vero?»
Il librovoro annuì. «Chiamami pure ignorante» disse. «Perché, invece di verificarne il contenuto d’unza, calpestai un vecchio volume dopo l’altro. Non avevo scelta, o non sarei avanzato di un millimetro! La palude era notevolmente più estesa e caotica di quanto avessi immaginato. Avevo la sensazione di arrancare lì dentro da ore, tanto era il dolore alle gambe causato da quel faticoso incedere. Era come se avessi delle ventose ai piedi, ogni passo era uno sforzo immane. Se sopra di me c’era il tetto di una grotta, io non lo vedevo. Là sopra sembrava ammassarsi soltanto un’oscurità insondabile, lacerata di tanto in tanto da un grido roco. E poi: cosa ci facevo in quel luogo malato? Cosa cercavo? Accidenti, era qualcosa di completamente diverso dal delimitato e rassicurante giardino di cristallo nel quale noi librovori passeggiavamo tranquilli! Un mondo spaventosamente organico e vivo che nelle catacombe non avrebbe mai potuto esistere, da un punto di vista meramente biologico. Cosa ci facevo lì, allora?»
«Volevi diventare un cercatore d’unza» mi intromisi, per ricordare al librovoro la sua missione.
«Sì! No! Anzi, sì!» esclamò Ildefonso Due, e alzò le braccia al cielo. «Cioè, non più! Non volevo più diventare un cercatore d’unza! Si trattava chiaramente di un prezzo troppo alto da pagare per entrare a far parte di qualsiasi organizzazione! Non mi interessava quanto segreta fosse. Se in un luogo così spiacevole e ostico c’era un drago che ci stava bene e ci abitava da tempo per sua volontà, allora doveva trattarsi di un drago piuttosto spiacevole e ostico, o no? Magari era pazzo! Non doveva avere tutte le rotelle al posto giusto, se abitava lì! E io non lo volevo più conoscere. Poteva anche essere onnisciente, pacifico o pervaso d’unza, non mi importava. Volevo una cosa sola: ritornare nella grotta di pelle. Subito! Così girai su me stesso e cercai di stabilire quale fosse la direzione per tornare indietro. Non era così facile, visto che avevo camminato e camminato, senza prendere punti di riferimento lungo il percorso. Sembrava tutto uguale, o comunque molto simile! Un labirinto senza pareti! In quel pantano non avevo neanche lasciato delle impronte sulle quali orientarmi. Se in quel momento non avessi sentito quella bizzarra cantilena, sarei partito alla cieca. In una direzione qualsiasi, nella vana speranza che mi portasse alla grotta di pelle».
«Cantilena? C’era della musica?»
«Sì, una specie di canto recitato. Proveniva dalla profondità della palude unzosa». Il librovoro annuì.
«E poi? Cos’hai fatto?» chiesi curioso.