Ehm» continuò Ildefonso Due. «Come si può definire? Una stupidaggine? Una cavolata? Un’idiozia? Mi sono subito mosso in direzione del canto, è questo che ho fatto. Come tirato da un filo. Ma nel farlo mi sentivo così stranamente sicuro. L’umidità sopra la palude si era condensata in una fitta zuppa, un vapore denso come quello delle polle bollenti nella grotta di pelle, hai presente? Quella nebbia mi dava l’illusione di essere invisibile. Credo comunque che in quel momento la sana ragione librovora mi avesse abbandonato del tutto. E all’improvviso riuscii a capire cosa cantava quella voce tanto bizzarra e lieve:
da un remoto e tetro regno
son ritornato, di recente, a questo luogo indegno –
da una strana contrada, selvaggia e senza scampo
lontana dallo Spazio, fuori dal Tempo.
Che quella voce cantasse di me? Le parole erano estremamente appropriate alla situazione in cui mi trovavo in quel momento:
Valli e burroni senza fondo,
voragini e caverne senza ritorno,
masse d’acqua sconfinate,
e misteriose forme prima mai indagate
emergono da titaniche foreste,
ombre enormi, infinitamente meste
grondanti di nebbia, assetate di rabbia
ormai troppo ingombranti, eternamente in gabbia».
«Mi ricorda qualcosa» lo interruppi. «Non è, mmm… una poesia di Perla La Gadeon?»
«Esatto» annuì nuovamente il librovoro. «L’ho scoperto solo più tardi. Be’, chiunque fosse a cantare, aveva un eccellente gusto letterario, non è così? E finalmente potevo anche vederlo – o vederla, qualsiasi cosa fosse. O almeno potevo intuirlo: sopra la palude ondeggiava una sagoma spettrale. Solo un’ombra lunga e sottile, simile a un albero affusolato. Sembrava dondolarsi avanti e indietro, al ritmo di quello strano canto. Sinuosa come uno di quei serpenti che avevo visto nella palude per la prima volta. Già: l’enorme ombra di un serpente! Mi fermai. Stranamente non provavo più alcuna paura. Deferenza? Abbastanza, sì. Rispetto? Certamente. Ma paura? No. L’unica cosa era che non riuscivo più a muovere un passo. Osservavo ipnotizzato quell’apparizione ondeggiante.
‘La mia voce ti sorprende, vero?’ disse l’ombra. ‘Scommetto che l’avevi immaginata profonda e rombante. Come quella di un rospo che parla dal fondo di un pozzo. Più o meno così? Nelle favole i draghi hanno sempre dei vocioni profondi, giusto? Ssss…’
Allora era lui, il drago! Il Dragolibro! Non era un’apparizione. O una fantasticheria. Era proprio lui: Nataviel, il drago unzato.
‘Se è così dobbiamo ringraziare la pigrizia mentale e la penuria di idee degli autori delle favole’ continuò l’esile voce. ‘Noi draghi siamo creature dotate di ali. Sappiamo volare e deponiamo le uova! Com’è che si chiama la specie animale che presenta queste caratteristiche? Eh? Hhhh…’
‘Ehm… gli arpiri?’ risposi. Cercai invano di togliermi la nebbia dagli occhi per poter vedere meglio.
‘Cosa?’ fece l’ombra. ‘Eh… no! Gli uccelli! I draghi in realtà sono uccelli! E hai mai visto un uccello con una voce profonda e rombante?’
‘Io, ehm, in realtà non l’ho mai neanche visto un uccello, figurarsi poi sentirlo’ risposi il più onestamente e con la voce più ferma possibile. ‘Io sono un librovoro. Un librovoro che non ha mai lasciato le catacombe. Gli unici animali volanti che conosco sono i pipistrelli. E gli arpiri. E gli insetti. A meno che i pipistrelli non valgano come uccelli’. Scacciai con la mano le zanzare che mi ronzavano attorno insistenti.
L’ombra ondeggiava quasi impercettibilmente. ‘Ah’ disse con tono insicuro. ‘Giusto, sì. Un librovoro. Mmm… adesso mi hai fatto perdere il filo’. L’ombra si schiarì la voce. ‘Così non hai mai visto un uccello, eh? Comprensibile, se sei un librovoro. Non puoi farci niente. Ssss… Be’, io ho passato gran parte della mia giovinezza in superficie, fino a che non sono finito nelle catacombe. Quindi, be’, gli uccelli, eh, sono…’
‘Lo so cosa sono gli uccelli’ osai interromperlo. ‘Ho letto di loro. Solo che non ne ho mai visto uno. O sentito’.
‘Dovresti rimediare’ sussurrò l’ombra. ‘Il canto degli uccelli è una delle cose più belle che ci sono lassù. Come le nuvole. Il cielo. Il vento. La pioggia. E le vergini’.
Deglutii. ‘Le vergini?’ domandai esitante.
L’ombra si schiarì nuovamente la voce. ‘Era solo uno scherzo. Un vecchio scherzo da drago che a quanto pare non migliora a forza di ripeterlo. Altrimenti avresti riso. Già, che noi mangiamo le vergini è una di quelle brutte maldicenze che non ne vogliono sapere di lasciarci in pace: è grosso, ha le squame, sputa fuoco e sa volare? Allora mangia anche le vergini! Ffff! Va be’, ormai abbiamo imparato a prenderla con filosofia, non ha senso innervosirsi ogni volta. Scientificamente parlando, la realtà è che da un punto di vista biologico siamo a tutti gli effetti degli uccelli. E seguiamo una dieta prevalentemente vegetale. Prevalentemente. Di tanto in tanto ci scappa qualche insetto, perché fanno bene ed è così bello farli scrocchiare sotto ai denti. Ma una vergine intera? Altro che scrocchiare. Sarebbe disgustoso! Onestamente: chi è che si inventa una cosa del genere? Bisogna essere malati di testa. Oh ragazzi, odio spiegare le battute. Possiamo cambiare argomento? Hhhh…’».
«Cosa rappresentano gli strani suoni che emetti ogni tanto? Tutti questi ‘Hhhh’, ‘Ffff’ e ‘Ssss’» domandai al librovoro.
«Be’» rispose Ildefonso Due. «Un organismo così mostruoso come quello del Dragolibro emette naturalmente dei versi molto particolari. Con tutti quei tubi e tubicini che attraversano il suo corpo è del tutto normale. Forse ogni tanto ha bisogno di lasciar uscire l’aria, regolare la pressione. Rumori da drago, insomma. Insieme ad altri due o tre suoni, questi erano quelli che si ripetevano regolarmente. Uno era un sibilo serpentesco: ‘Ssss…’ L’altro un fruscio spettrale: ‘Hhhh…’ E il terzo un fischio sordo: ‘Ffff…’ Magari sono espressioni di stati d’animo ed emozioni, e corrispondono in qualche modo alla nostra mimica. Come le fusa del gatto o lo sgrusciare di noi librovori.* Fa semplicemente parte della creatura, è il suo marchio acustico».