Le librosquame

Nel frattempo la luce giallastra nell’occhio ciclopico del librovoro si era drammaticamente accentuata, il che mi faceva presumere che la storia lo coinvolgesse tanto quanto me.

«Il drago gemette, alzò la zampa anteriore destra e si osservò gli artigli» continuò Ildefonso Due. «‘All’inizio non trovavo molto piacevole andare in giro con la corazza piena di libri’ spiegò. ‘Ti danno un aspetto poco curato. Appena sveglio, passavo molto tempo a staccarli con gli artigli e con i denti. Ma poi divenne sempre più difficile. E in fondo, chi poteva mai interessarsi a me qui, a parte i parassiti della palude che dovevano stare sempre attenti che non li calpestassi? A chi importa del mio aspetto, qui? A nessuno! Non volevo ridurmi a un vanitoso gatto domestico che dedica la maggior parte della sua inutile esistenza a un’esagerata cura del corpo. Non è nella mia natura. Non fraintendermi, i draghi sono animali puliti, non maiali da palude! Ma neanche maniaci dell’igiene o teneri gattini. Così lasciai semplicemente che i libri si incastrassero tra le squame, fiducioso del fatto che si sarebbero sbriciolati da soli prima o poi. O che sarebbero caduti. Cosa che facevano, o almeno per la maggior parte. Il resto però – quelli veramente ben fatti – si sgretolavano con grande lentezza, e ogni volta che mi stendevo se ne aggiungevano di nuovi. A un certo punto la cosa divenne per me del tutto indifferente. Che cadessero o rimanessero incastrati, che marcissero o mi adornassero per migliaia di anni, per me era uguale. Era semplicemente diventata la mia caratteristica distintiva.

Il mio manto di squame iniziò a secernere una sostanza resinosa che ricopriva e sigillava i libri con una patina trasparente. Il risultato non mi sembrava neanche brutto! Finii per considerarlo un ornamento. E perché no, visto che alcuni libri erano decorati con oro, perle, intarsi d’argento, madreperla e pietre preziose. Nel giro di poco tempo, tra cuoio, carta, metallo e resina essiccata, il mio peso raddoppiò. A mo’ di cipolla, attorno a me si formava pian piano uno strato dopo l’altro e io diventai sempre più voluminoso e pesante. Se avessi intrapreso qualche tentativo di volo con quella zavorra addosso ci sarebbe stato sicuramente da ridere!’ Nataviel ghignò. ‘Come menzionavo all’inizio’ proseguì, ‘un tempo ero una sorta di uccello. Una creatura dei cieli. Le nuvole e le cime dei monti erano la mia casa. Da non credere, eh? Adesso invece sono l’essere più sedentario che ci si possa immaginare. Diciamo le cose come stanno: mi sono gonfiato parecchio. Se cercassi di uscire dalle catacombe per la stessa strada da cui sono arrivato, rimarrei sicuramente incastrato in una galleria sì e una no. I libri mi hanno condannato all’immobilità. Cosa dovevo fare? Prima di rendermene conto, ero diventato prigioniero della palude unzosa. Io stesso avevo chiuso la porta e gettato via la chiave. Senza pensarci due volte. Avevo semplicemente lasciato che accadesse. È chiaro, non è qualcosa che succede dall’oggi al domani… stiamo parlando di un periodo di tempo molto lungo, amico mio! Ssss… di anni. Decenni. Secoli, se lo chiedi a me. A un certo punto ho smesso di tenere il conto. E sono diventato tutto un altro drago. Fuori e dentro. Era come se non solo il mio manto di squame fosse stato rimesso a nuovo, ma fossi stato sottoposto a una ristrutturazione completa anche all’interno. La mia vecchia coscienza fu passata al setaccio: le parti utili filtrarono, mentre i ricordi spiacevoli e le brutte abitudini vennero eliminati. Al loro posto arrivavano quasi giornalmente nuovi eccitanti pensieri e idee insolite’.

Il drago inclinò la testa e mi osservò. ‘Be’, in realtà non è niente di straordinario, vero? È una cosa che succede nella maggior parte dei giovani cervelli. Già, perché a quel tempo ero giovane. Sono diventato adulto qui sotto. Il ritmo e l’abbondanza con cui i nuovi pensieri e le idee si presentavano mi faceva quasi paura. Se non altro mostravano una certa sistematicità. L’ispirazione arrivava sempre di prima mattina, subito dopo il risveglio. Quasi che fossi sonnambulo e durante la notte frequentassi la scuola serale o l’università. Quelle non erano certo idee mie! Assolutamente impossibile. Era tutta roba della quale non capivo niente. Cose estremamente complicate, faticose, variegate e molto diverse tra loro, che in qualche modo si erano fatte strada nella mia testa. Ma da dove venivano? E perché erano arrivate? Che i libri della palude giocassero un ruolo in tutto questo, be’, lo sospettavo già da un po’. Ma in che modo? Non sapevo leggerli, quindi per me erano tutti ugualmente senza valore. E per questo semplicemente li ignoravo. Eppure allo stesso tempo sentivo che avevano qualcosa a che fare con il tumulto crescente tra le mie orecchie. E sì, pian piano iniziavo a trovarli inquietanti. Il perenne fruscio dei vermi che li corrodevano non era un rumore propriamente edificante. E assistere al loro deterioramento non era uno spettacolo piacevole. Dopotutto si trattava di morti, giusto? Cadaveri. Scheletri. Erano dappertutto. Erano sempre stati così tanti? O il Magmosso ne aveva trasportati degli altri? Sì, diventavano più numerosi di giorno in giorno, più minacciosi e invadenti. Come ratti o pidocchi, e come loro magari potevano diffondere malattie. Perché non anche malattie cerebrali, allora? E io mi ci rigiravo dentro ogni notte. Hhhh…’ La voce del drago adesso aveva un che di tremolante, di impaurito, che la faceva sembrare ancora più esile di prima. Quasi dimenticai che era un mostro vorace che mi teneva in pugno.

‘Be’, questi timori forse spiegano un po’ la mia reazione, quando un giorno inciampai in un volume particolarmente massiccio che marciva nella torba. Avrei voluto spingerlo ancora più a fondo nella palude con una zampata furiosa, ma poi mi fermai. Con la zampa sospesa a mezz’aria sopra di lui, mi misi a riflettere. Qualcosa in quel libro, forse la preziosa copertina ornata d’oro, forse le meravigliose incisioni sul cuoio antico, mi trattenne dal distruggerlo.

Un grosso volume con incisioni e intarsiature di pietre preziose galleggia nella torba della palude, ricoperto da un millepiedi e circondato da un mostro acquatico.

Che sentissi il bisogno di aprirlo per controllare se la sua ricchezza artistica si traducesse in una ricchezza dei contenuti? Ma guarda un po’! Era la prima volta che un libro mi generava un pensiero così avventuroso. Osservarlo più da vicino e sfogliarlo… che assurdità! Era un po’ come ravanare di propria sponte in una cacca di mucca! Ma dopotutto le idee insolite non erano una novità per me negli ultimi tempi. E va bene! Seguii un po’ esitante la mia intuizione. Estrassi un artiglio. Con quello sollevai cauto la copertina, leggermente disgustato naturalmente, perché al tempo era quello il mio atteggiamento nei confronti di quei mattoni di carta privi di significato. Un atteggiamento che non pensavo di abbandonare proprio in quel momento. Ffff… Sfogliai le pagine del volume in maniera esageratamente svogliata e annoiata, come se avessi potuto rovinarmi la reputazione se solo qualcuno mi avesse visto. Le pagine erano relativamente intatte, asciutte e, in effetti, di nessunissimo interesse. Bah, nient’altro che carta ingiallita su cui correvano file interminabili di macchie nere che, dal mio punto di vista – tenevo ancora il collo ben dritto – , sembravano formiche essiccate e pressate. E le catacombe erano piene fino all’orlo di questa immondizia. Che spreco di spazio! Chinai la mia testa da drago e mi abbassai (nel vero senso della parola) a osservare diffidente i segni un po’ più da vicino. Be’, non erano formiche pressate, bensì… bensì… mmm… un momento! Con mio grande stupore mi resi conto che riuscivo a decifrarli! Quella era una A, giusto? Quella una M. E quella una Z, senza alcun dubbio. Ssss…! Fino a poco prima non avevo la più pallida idea di cosa fossero le lettere, figuriamoci se riuscivo a distinguerle. E invece adesso… riuscivo a leggere quei segni! Ero così sorpreso che indietreggiai e fissai il libro come se mi avesse morso. Poi mi accostai di nuovo e lo guardai ancora una volta con attenzione. Incredibile, riuscivo a decifrare tutto il testo sulla pagina, anche se era scritto in alfabeto veterozamonico. Caratteri che, come avrei imparato solo più avanti, conoscono bene solo studiosi, studenti e altri folli. Era, per quanto ricordi, un testo noiosissimo che si occupava di una qualche remota branca della giurisprudenza in ambito editoriale: se uno scrittore viveva fino a settecento anni, i suoi diritti rimanevano agli eredi per altri settecento anni dopo la sua morte o l’editore poteva disporne già dopo cent’anni? Cose del genere, un manuale specialistico, insomma. Dopo di che esaminai anche altri libri che se ne stavano a imputridire in giro per la palude. E con mia grande sorpresa constatai che davvero sapevo leggere! Quel giorno e nelle settimane seguenti analizzai quasi ogni libro che mi capitava tra gli artigli e che fosse ancora nelle condizioni di poter essere più o meno sfogliato. Con estasi crescente scoprii che non riuscivo solo a decifrare i libri in zamonico e veterozamonico, ma anche quelli in ultraveterozamonico, alto-zamonico medio, yhollisisch o bhuggtun e in altre lingue non zamoniche. Da un giorno all’altro ero diventato un esperto di lingue. Ffff…’»

Ildefonso Due si fermò per qualche istante, ora con espressione vagamente assente. Temevo che avrebbe interrotto il suo racconto, ma poi scattò su all’improvviso, mi guardò deciso con il suo occhio lucente e continuò.

«Mentre il drago raccontava, la palude unzosa si era riempita di vita. Giorno e notte sembravano susseguirsi con regolarità, cosa che si notava dall’attività di piante e animali. Forse un orologio biologico di qualche sorta continuava a ticchettare in quella natura fuori posto che sembrava ancora seguire il ritmo del sole e della luna. Sempre più piante spiegarono le proprie foglie e schiusero i propri fiori, altre brillavano più intensamente o sprofondavano nella palude mentre altre ancora emergevano. Anche gli animali erano più laboriosi e rumorosi. Le rane gracidavano più forte, i grilli frinivano più scatenati che mai, sciami di zanzare sfrecciavano qua e là e mi ronzavano attorno sempre più insistenti. Era difficile dire se si trattasse di un crepuscolo mattutino o serale, ma di certo era un crepuscolo. La qual cosa non contribuiva propriamente al mio benessere, a dire la verità! In particolare mi irritava tutto ciò che volava. Il drago invece non sembrava per niente infastidito.

‘Ero ancora un drago?’ proseguì poi in tono drammatico. ‘O non mi ero invece trasformato in una nuova forma di vita? All’interno di uno stesso ciclo vitale! Sarebbe stato un evento unico nel suo genere’.

‘Non proprio’ lo interruppi con fare saccente. ‘Non è una cosa così particolare. C’è un’altra specie animale in grado di farlo. Pare che sulla superficie di Zamonia esistano degli insetti chiamati farfalle’. Ne avevo sentito parlare a lezione nella grotta di pelle. ‘E loro si trasformano in un altro essere vivente. In, ehm, bruchi’.

‘È il contrario’ sbuffò il drago gettandomi un’occhiata difficile da interpretare. ‘Sono i bruchi che si trasformano in farfalle, non le farfalle in bruchi. Ma è una buona osservazione, mio piccolo amico monocolo. Grazie al tuo esempio puoi capire che razza di processo mostruoso e raro sia questo in natura: una creatura che si trasforma in un’altra… a parte il mio caso, è concesso solo alle farfalle. Eh, volevo dire, ai bruchi. Un miracolo della vita. In effetti anche io avrei dovuto avere un nuovo nome’.

‘Hai già un sacco di nomi’ intervenni. ‘Dragolibro, ad esempio’.

Nataviel dondolò la testa avanti e indietro. ‘Sì… va be’… ma non è particolarmente fantasioso, non trovi? Hanno semplicemente messo insieme drago e libro. Questa io la chiamo pigrizia mentale. Dragolibro… sembra il nome di una libreria per bambini’. Sbuffò sprezzante.

Mi scappò da ridere. ‘È vero!’ esclamai.

‘Ehi!’ fece Nataviel con un ghigno. ‘Hai senso dell’umorismo, piccoletto. Non me lo sarei aspettato, da te’.

‘Grazie mille’ dissi io. E penso di essere anche arrossito un po’.

‘Il senso dell’umorismo è importante!’ sentenziò Nataviel con una zampa sollevata. ‘C’è una sottile linea di confine tra malinconia e disperazione. Questo confine, quest’esile baluardo che ci protegge dal cadere in un vuoto senza fondo, nel nulla più terrificante, è il senso dell’umorismo. E più questo senso dell’umorismo è nero, meglio funziona. Credimi!’ Abbassò di nuovo la zampa.

‘Allora: all’improvviso nel mio cervello c’erano tutti questi pensieri. Queste idee, questi vocaboli che prima non conoscevo. Parole meravigliose come modulazione o leccornia. Singulto o elucubrazione. Arguzia o nostalgia. Parole che mi rendevano preoccupato o triste, come struggimento o caducità. E ce n’erano anche alcune che mi facevano ridere come fumantino, bonaccione, imponderabilità oppure babbeo. All’improvviso tutte quelle parole così distinte facevano parte del mio patrimonio lessicale. Proprio come la parola patrimonio: prima non sapevo neanche di possederne uno. Un vero e proprio patrimonio di parole, un prezioso tesoro. Filigrana. Letizia. Vispo. Mestizia. Qualsivoglia. Amenità. Peculiare. Spigliato. Recondito. Rintocco. Malproprio. Tribolazione. Indulgenza. Lapislazzulo. Compassione. Sensibilità. Pelle d’oca. Sicumera. Traversia. Brina. Arabesco. Bufera. Pietà. Ammazzacaffè. Fandonia. Musone. Veemenza. Arcano. Antitetico. Sbornia. Sbronza. Sfuriata. Impeccabile. Impavido. Estro. Nonnulla. Giammai. Pennichella. Celestiale. Volubile. Irruenza. Turbine. Affetto. Baleno. Zeppo. Cura. Pazienza. Gracile. Scorbutico. Titubante. Incalzante. Cianfrusaglia. Fiacco. Amicizia. Tutte queste meravigliose parole, fino a quel momento a me sconosciute, si accatastavano ora nel mio cervello come lingotti d’oro. Ma da dove diavolo venivano? E la cosa che trovavo ancora più misteriosa era che conoscevo il significato di ognuna di loro! Lo sapevi che la sostanza primordiale dal quale sono nati tutti gli altri elementi si chiama ylem? E che se sei smurto, sei più smunto dello smunto? Vale a dire morto, capito? E c’è una parola migliore di miasma per ciò che rappresenta la palude unzosa? Potrei continuare all’infinito. E lo sai che i fiori che gli uomini ubriachi portano alle mogli per farsi perdonare in alcune regioni di Zamonia si chiamano cibo per draghi? Be’, io lo trovo strano. Ah! O che gli antichi abitanti di Atlantide avevano un luogo pubblico in cui si poteva andare a vomitare dopo aver gozzovigliato troppo e che per questo veniva chiamato vomitorium? All’improvviso sapevo questo genere di cose, così!’

Il drago fece schioccare gli artigli, provocando un rumore simile a quello di due pietre focaie sfregate una contro l’altra. ‘Senza avere la più pallida idea da dove venisse questa conoscenza. Ad esempio sapevo che esiste qualcosa come un egoismo collettivo, che viene chiamato solidaritite, anche se in realtà è una contraddizione in termini. È la forza che anima, tra le altre cose, un’unità militare speciale o l’equipaggio di una barca a remi. È una forma lieve e passeggera di follia: per un breve periodo di tempo si è convinti di essere più persone contemporaneamente. O meglio, più persone credono di essere la stessa persona. È una cosa molto diffusa, in particolare tra i soldati. Ssss…’

Lo sguardo del Dragolibro affiora dalla nebbia.

Il drago si picchiettò la fronte con una zampa. ‘Insomma, chi è che sa certe cose? All’improvviso il mio cervello era pieno di conoscenze specifiche! A palate. E diventavano sempre di più. Le parole si ammassavano fino a diventare frasi. Le frasi paragrafi, i paragrafi capitoli. Le lettere diventavano storie, figure, destini, paesaggi, continenti. Cronache di faide familiari e battaglie. O descrizioni dettagliatissime di oggetti del tutto banali: una sedia, una piazza, un nubifragio. Sempre in un linguaggio ineccepibile. C’erano poi delle frasi che risuonavano a lungo, come echi, e quando chiudevo gli occhi si illuminavano come scritte infuocate. Ad esempio: La fama può affievolirsi, ma l’oblio perdura in eterno. Oppure: Finché il tuo linguaggio è scorrevole, ciò che dici non ha importanza. E poi: Meglio un uovo oggi che un dardo avvelenato in un occhio’.

Nataviel scoppiò a ridere. ‘Simili perle di saggezza si ammassavano nel mio cervello ogni mattina. Che fossero aforismi? No? Proverbi da calendario? Idee balzane? Non ne ho idea, chiamale come ti pare! In ogni caso quelle frasi erano arrivate per restare. Non le ho dimenticate ancor oggi: Il destino è ciò che ti succede mentre pianifichi tutt’altro. Oppure: L’arco di tempo dopo il quale hai urgentemente bisogno di qualcosa che hai appena buttato via è di circa due settimane. E ancora: È opportuno radersi solo se si ha la barba’.

Il drago ghignò. ‘Che me ne faccio di queste sciocchezze? Io non ho neanche i capelli, figurarsi la barba. Ma naturalmente sono tutte frasi da interpretare. Cosa te ne pare di: Un po’ va bene, un po’ di più va meglio e troppo è proprio quello che ci vuole. Pensaci! O senti questa: Mai dormire nella stessa bara di un vampiro! Non si può davvero dire niente in contrario! Parole d’oro. Oppure: Tutti possono perdonare i tuoi peccati, tranne il tuo corpo. Verità eterne come questa si assiepavano nella mia mente: Non esiste una seconda possibilità di fare una buona prima impressione. Chi può negarlo? Io no! A proposito, per molto tempo la mia frase preferita è stata questa qui: Anche da un pipistrello si può succhiare il sangue’.

Nataviel fece una lunga risata, poi tornò serio. ‘Già, ne conosco a centinaia. A migliaia. Una meglio dell’altra. Queste erano le frasi luminose. Un vero e proprio balzo in avanti rispetto alle singole belle parole, perché in loro albergava un significato. Le parole erano briciole, le frasi biscotti, ma solo le frasi combinate tra di loro davano come risultato un’intera torta. Capisci? Mi passavano per la testa quantità sempre più grandi di parole. A volte erano talmente insensate che sulle prime non riuscivo neanche a comprenderne il significato. Ma il loro ritmo e la loro melodia mi affascinavano e mi conquistavano. Parole che sembravano un canto! Lingua che pareva musica! Tutto nella mia testa’.

Il drago si chinò vicinissimo a me e sussurrò: ‘Hai mai visto o vissuto qualcosa di così bello da farti piangere? La nebbia ardente alle cascate di fuoco di Fiorinto? Le danze mortifere dei fuochi fatui nelle grotte di rubino sotto le fonti del Magmosso? Le armonie di cristallo che il vento di vetro ti sussurra all’orecchio riducendoti in pezzi il cuore con pugnali affilati? È così, mio piccolo amico: c’è una terra di mezzo tra bellezza e dolore, si chiama malinconia. Un’altra parola così bella, ricorda un fiore malato! Forse tu non la conosci ancora, sei molto giovane. Ma un tempo, qui nella palude unzosa, quella terra diventò la mia nuova casa. Chi impara a sentirsi a casa nella malinconia può sopportare il peggiore dei mondi. Buone letture, umorismo nero e un po’ di sana, vecchia malinconia, non serve altro. Di tanto in tanto qualche coscia di rana di palude e la vita è assolutamente sopportabile. Ssss…’

Il fiato di Nataviel mi arrivò di nuovo dritto in faccia. E questa volta aveva esattamente lo stesso odore di certi settori della grotta di pelle. Ovvero quelli nei quali conserviamo i libri particolarmente antichi, preziosi e intrisi d’unza. Un eccitante aroma di vecchio cuoio. L’olezzo penetrante, insinuante, dell’inchiostro tipografico. Così l’hai descritto nel tuo libro».

Ildefonso Due aveva ragione. Il mio ricordo era piuttosto vago, ma la citazione era sicuramente corretta, dalla prima all’ultima lettera.

«Nel corso del suo racconto, il Dragolibro si era lasciato scivolare accanto a me» continuò a raccontare, «e adesso era steso con le zampe anteriori intrecciate sulla pancia, tranquillo e rilassato come un grosso e grasso felino dopo aver mangiato. Si esaminava trasognato gli artigli della zampa destra e mi sembrò di percepire addirittura delle fusa inconsapevoli. Iniziavo a rilassarmi un po’ anch’io.

‘Be’, nonostante tutto rimaneva ancora da capire come tutta quella roba fosse finita nella mia testa’ proseguì Nataviel. ‘Anche se naturalmente qualche idea me l’ero fatta, da quando avevo iniziato a leggere libri. Cosa che, dopo l’entusiasmo iniziale, non facevo più così spesso, devo ammetterlo. Lo trovavo alquanto stancante. Non il processo mentale, quello no, proprio l’atto fisico di leggere. Per noialtri è del tutto innaturale! Semplicemente i libri non sono fatti per i draghi. E viceversa. È così, siamo onesti! Già le proporzioni non aiutano. Hhhh…’

Nataviel pescò un libro dalla palude e lo sollevò tenendolo tra la punta degli artigli per dimostrare la sua affermazione. Sembrava che avesse raccolto dal fango i resti di un ratto morto. Poi lasciò ricadere il volume nell’acquitrino, dove scomparve gorgogliando. ‘Per leggere questi aggeggi minuscoli faccio una tale fatica che mi si indolenziscono le palpebre. Dopo una decina di pagine mi viene mal di testa e dopo un libro intero ci vedo doppio. Alla lunga non può funzionare. Ci vogliono o libri più grandi o draghi più piccoli. Ffff…’

Nataviel alzò di nuovo la zampa anteriore e tirò su la testa. La nebbia si era sgonfiata fino a diventare una coltre ovattata che mi arrivava solo fino alle ginocchia e avvolgeva ingannevole la palude tutt’attorno.

‘Il semplice fatto di avere tutti quei pensieri nuovi mi faceva temere, a volte, di star perdendo la ragione. Ma probabilmente è così che si sente la maggior parte della gente che studia seriamente. Diventai lamentoso e ipocondriaco. Ssss… Anche quando uno fa indigestione pensa subito al peggio. Invece ha solo mangiato troppo. D’altro canto, se davvero stavo perdendo la ragione, almeno lo facevo in maniera estremamente piacevole e divertente. La cosa migliore dell’inspiegabile tumulto nel mio organo pensante era che non solo scacciava via la noia, ma anche gli stati d’animo negativi che da sempre mi avvelenano la vita. I miei umori neri rimanevano lì, ma ora venivano coperti, respinti da un vociare continuo e sempre più forte, da un vivace e ciarliero coro di anime. Il mio cervello era più popolato di un municipio, un manicomio o un alveare. Monologhi e dialoghi. Comizi e arringhe. Duelli tra lingue taglienti, elogi e intere relazioni mi frullavano per la mente. Come in un congresso di chiacchieroni professionisti che io stesso avevo l’onore di presiedere. All’inizio passavo intere giornate, settimane, mesi quasi esclusivamente a vagare senza direzione per la palude mentre cercavo di stare dietro al caos nella mia testa, a volte tenendo gli occhi chiusi per ore intere per concentrarmi meglio. Devo essere sembrato un nottambulo o un malato di mente! Cieco come un gufo alla luce del sole barcollavo senza orientarmi nel fango e nella nebbia, parlando a vanvera e scoppiando ogni tanto in una risata isterica. Ffff…

La cosa mi assorbiva a tal punto che dimenticavo di mangiare e di dormire. A volte così a lungo che a un certo punto mandavo giù la prima medusa luminosa o il primo ululone di palude che mi capitavano a tiro per poi stramazzare a terra esausto. A periodi mangiavo solo cetrioli della torba perché crescono dappertutto. Poco a poco imparai a distinguere l’una dall’altra le voci nella mia testa e a riconoscere i diversi argomenti. Sì, in effetti non aveva niente a che vedere con il cupo rimuginare sul mangiare e sul bere, sul cacciare e uccidere forme di vita inferiori, con il vegetare un giorno dopo l’altro e tutte le altre attività che prima scandivano la mia monotona esistenza. Ma non ero capace di un vero pensiero autonomo, non ancora. La mia testa si limitava a riempirsi sempre più di materia prima che doveva essere faticosamente decifrata e classificata. E non era neanche tutto valido, ciò che ogni giorno si faceva strada nel mio cranio. C’erano varie cose da eliminare. A volte venivo inondato da pensieri di indicibile banalità e superficialità, e ci voleva parecchio tempo per riuscire a scacciarli e a dimenticarli di nuovo. Non era quindi che la conoscenza mi piovesse proprio dal cielo, capisci? Nossignore, dovevo metterci del mio. Era un lavoro vero e proprio. Mentre i muscoli e i tendini del mio corpo, nelle gambe e nelle ali, si afflosciavano e rattrappivano sempre di più, il muscolo del pensiero nascosto dietro la mia fronte si gonfiava di giorno in giorno. Se gli anni precedenti li avevo passati quasi esclusivamente a cacciare prede vive, ora andavo a caccia di un cibo intangibile, da digerire con la mente’.

Nataviel mi guardò con un ghigno. ‘A un certo punto il mio cervello era talmente ricolmo di idee che immaginavo di poter spaccare le montagne con i miei pensieri. Mentre prima avevo avuto così paura di impazzire, adesso le idee folli non mi bastavano mai. O forse ero io a essere proprio impazzito del tutto. Un tempo avrei respinto ogni pensiero complesso e non mi sarei sforzato di pensarlo fino alla fine. Avrei preferito riempirmi lo stomaco di pantegane delle gallerie, far defluire il sangue dal cervello, mettere in moto i processi di digestione e soffocare così qualsiasi attività mentale in procinto di germogliare. O avrei optato per un sonnellino per poi dormire una settimana di fila. Ogni problema può essere annientato sognando. E ora invece preferivo essere sveglio e affamato! Queste nuove idee riempivano il vuoto spirituale che per così tanti anni era stato il vero motivo della mia irresolutezza. Finalmente avevo trovato un valido sostituto alla mia smania di muovermi e mangiare. Potevo far volare i miei pensieri, potevo sognare a occhi aperti, il tutto rimanendo perfettamente in me. E non si trattava più di incubi angoscianti nei quali divoravo me stesso a partire dalla coda. No, erano sogni vigili e intrepidi, solo all’apparenza infinite rimuginazioni, che avevano in realtà un significato ben definito e portavano a delle soluzioni per i miei problemi. Erano utili. Era questo allora, pensare! Non limitarsi a seguire semplicemente l’impulso, ma invece determinare la propria vita, organizzarla e darle forma. Stavo diventando intelligente. Non diventai subito astuto, e neanche saggio – questo arrivò dopo –, ma stavo subendo una lenta trasformazione da animale istintivo a essere razionale e dubbioso. Una buona idea al giorno alla lunga basta a riempire anche il cranio più vuoto’ ghignò il drago. ‘E una mattina, quando mi svegliai, c’era questa cosa. Questa cosa nella mia testa’.

‘Una cosa? Nella tua testa?’ rabbrividii. ‘Che intendi dire? Mica una malattia?’

‘No, no’ fece Nataviel e, con mio grande sollievo, rise. ‘Era solo un conglomerato di parole. Un testo. Era, come dire, era… eh…’

‘Vuoi dire… che era l e t t e r a t u r a?’

‘Esatto. Letteratura. Si può ben dire. E di una qualità sorprendente. Non erano meramente un paio di frasi brillanti che si erano unite per caso. Era una vera storia, traboccante d’unza. Io non dovetti fare niente. Venne da me… già, come il bambino dalla vergine’. Il drago rise di nuovo. ‘Me lo spiego così: era merito delle librosquame. Stavolta il mio organismo non ne aveva ricavato solo belle parole o frasi illuminanti, bensì una storia lineare di altissimo livello letterario’. A un tratto il drago sembrò concentrarsi intensamente su un pensiero. ‘Senti, per caso conosci il libro La città dei libri sognanti?’ mi chiese poi.

‘Non solo per caso!’ ribattei fiero. ‘È un libro di Ildefonso de’ Sventramitis. Il mio compito è di imparare a memoria la sua opera omnia e per questo porto addirittura il suo nome’».

Non avevo proprio messo in conto di comparire, io o uno dei miei lavori, nella storia del librovoro. Ero quindi notevolmente stupito, ma mi guardai bene dall’interromperlo. Preferivo scoprire come andava avanti.

Ildefonso Due procedette. ‘Wow’ disse il drago. ‘Che incredibile coincidenza. Si dà il caso che si trovi sotto alle mie librosquame, e per questo motivo ne conosco il contenuto quasi parola per parola. Per farla breve: in questo libro, come sai, de’ Sventramitis trova un manoscritto traboccante d’unza e la descrizione che ne fa mi ricordò la qualità del testo che si trovava nella mia testa. De’ Sventramitis ne parla così: Il mio primo pensiero fu: ogni parola è al posto giusto. […] Ogni lettera s’imponeva come un manufatto artistico a sé stante, e l’intera pagina pareva un balletto di segni che danzassero un affascinante girotondo. […] Da quelle frasi emanava una percezione algida che mi fece rabbrividire, e non fu un freddo terrestre, di ghiaccio, quello che mi scosse, ma il gelo solenne, grandioso ed eterno dello spazio’.

Leggevo pensieri, formulazioni, articolazioni di forme purissime: mai prima d’allora i miei occhi si erano posati su qualcosa d’un candore anche solo lontanamente paragonabile’ completai la citazione a memoria senza fatica.

‘Esatto!’ esclamò il drago. ‘Erano queste le parole di de’ Sventramitis… e anche i miei pensieri riguardo al testo nella mia mente’.

‘Di cosa parlava?’ gli chiesi eccitato. Non vedevo l’ora di scoprire il contenuto della storia.

‘Be’, potrei dirtelo’ rispose il drago sorridendo. ‘È ancora tutto qua dentro’. Il drago si picchiettò la tempia con un artiglio. ‘Ma ci torneremo più tardi, mio piccolo amico’. Si schiarì la voce. ‘Nella mia scatola cranica aveva avuto luogo una rivoluzione. I settori razionali del mio cervello presero poco a poco il comando. Sul mio corpo, su tutte le mie abitudini. Avevo smesso da un pezzo di mangiare indistintamente tutto ciò che si muove. Perché mi dava molto più piacere fare conversazione con gli esseri viventi piuttosto che masticarli. Senza contare che quelli in grado di parlare non sono neanche buoni: questa può essere presa come regola empirica. Come le vergini. Di cibo ce n’era comunque in abbondanza, nella palude. Non doveva per forza essere dotato di zampe, ali o pinne. Foglie e radici andavano bene lo stesso. Diventai praticamente vegetariano’. Il drago indicò con un gesto invitante la palude avvolta nella nebbia».