1. Colombano in Gallia, 590-615 d.C.

In quanto vescovo di Tours, nella sua attività pastorale Gregorio entrava ampiamente in contatto con il mondo degli affari pubblici. Le intrusioni dell’aldilà nel «qui e ora», che maggiormente occupavano la sua attenzione, avvenivano presso le tombe dei santi, in santuari affollati e aperti a tutti, oppure nel corso di autentici scontri pubblici tra presuli, re e peccatori facili alla violenza. I miracoli che portavano alla risoluzione di un conflitto, la rottura delle catene e l’apertura delle prigioni erano acclamati dalle folle cittadine, in cui era ancora vivo il primitivo desiderio di giustizia dell’antico populus romano. Quegli eventi avevano luogo sullo sfondo di un ambiente sostanzialmente urbano. Le tombe dei santi si trovavano spesso in antichi cimiteri appena fuori le mura, e la loro distribuzione rifletteva la mappa delle antiche città romane della Gallia.

Gregorio aveva viaggiato spesso nel Nord della regione, di cui conosceva molti prelati e gli uomini politici di maggiore spicco, ma si trattava di viaggi in una terra il cui futuro appariva ancora incerto. Era in quel territorio – la Francia vera e propria – che i re merovingi tenevano piú frequentemente la loro corte, ponendosi al centro di una nuova classe di governo di loro creazione che si stava spostando sempre piú a nord. La personalità di Gregorio, al contrario, aveva ancora le proprie radici nel Sud. Nella mente del vescovo di Tours, il ricordo dei santi apparteneva a un antichissimo paesaggio mediterraneo e le storie che ascoltava appartenevano in gran parte alle città del Meridione.

In questo Epilogo, rivolgeremo lo sguardo verso nord per seguire il movimento monastico, iniziato da un astro dell’ascetismo appartenente alle estreme regioni settentrionali del cristianesimo occidentale: l’irlandese Colombano. Ci troveremo dunque tra i crinali e le alte valli boscose dei Vosgi; nelle campagne lussureggianti e ben irrigate della Francia settentrionale; su estuari che si affacciavano sulla Manica e il Mare del Nord.

Soprattutto, ci ritroveremo in un mondo in cui le folle sembravano essersi dileguate e non seguiremo piú lo sguardo di Gregorio di Tours, attento a registrare le miracolose intrusioni del mondo ultraterreno in santuari affollati di sciami di fedeli. Seguiremo piuttosto quali ripercussioni ebbe l’accanita ricerca di santità iniziata tra qualche rara figura immersa nella profonda quiete speculativa di grandi monasteri e conventi di recente fondazione. In Gallia, la letteratura prodotta nel corso del VII secolo dai monaci seguaci di Colombano e da altri offre immagini dell’aldilà colte nel luogo e nel momento in assoluto piú silenziosi, nel trapasso dell’anima solitaria nell’istante della morte. Si pensava che l’altro mondo penetrasse per un istante in questo mondo al capezzale dei santi, non in prossimità delle loro tombe, sfolgoranti e gremite di fedeli. Anche nel caso di uomini santi, dunque, si pensava che la morte segnasse solo l’inizio di un lungo viaggio nel mondo ultraterreno. In questo Epilogo incontreremo, per la prima volta nella loro completezza, i racconti visionari di quel viaggio.

Tali sviluppi possono essere facilmente riassunti in una vivace narrazione che pone in chiara evidenza ciò che in essi vi era di nuovo. In realtà, i cambiamenti di quel periodo furono lenti e complessi. Il cristianesimo gallico era una religione già antica, un conglomerato concettuale riccamente sedimentato che variava notevolmente da regione a regione e da persona a persona. Il mondo di Gregorio non era l’unico mondo della Gallia. Se non avesse percepito l’esistenza di racconti diversi – riportati da altre persone, in altre regioni, in altre situazioni o in altri contesti sociali – che differivano dalle sue narrazioni, il vescovo di Tours non si sarebbe impegnato con tanta energia ad avvolgere i suoi lettori in una rete quasi impenetrabile di storie avvincenti.

Neppure Colombano e i suoi seguaci, del resto, rappresentarono un inizio del tutto nuovo, passando in modo irrevocabile da un cristianesimo tardoantico a un primo cristianesimo già di epoca medievale. La diffusione del monachesimo di Colombano permise piuttosto che nelle ricche terre della Gallia cristiana emergesse in superficie ancora un altro strato di terreno fertile, in grado di arricchire gli antichi campi di una nuova vena di vivaci colori, e con la sua comparsa possiamo dire di aver chiuso il cerchio.

Nell’Introduzione ho cercato di dimostrare in quale misura il Prognosticon futuri saeculi di Giuliano di Toledo – il Preannuncio del mondo che verrà – riassumesse già nel 688 una rappresentazione ben precisa dell’aldilà, destinata a essere poi condivisa dai cristiani latini di età medievale. Alla fine di questo Epilogo, traccerò le ultime fasi del processo mediante il quale le particelle elementari e immaginifiche di quella «futurologia» dell’anima dopo la morte, proposta da Giuliano, vennero a riunirsi tra il 250 e il 650. Non ci resta che rivolgere un breve saluto di commiato all’antica visione del mondo che questa nuova rappresentazione dell’aldilà aveva cacciato – lentamente ma inesorabilmente – dalle menti dei cristiani latini. Ma torniamo ora a Colombano.

Gregorio di Tours morí nel 594. Solo sedici anni dopo, nel 610, uno strano gruppo di monaci provenienti da una regione che Gregorio non aveva mai neppure menzionato trascorse una notte presso la tomba di san Martino a Tours. I monaci erano per lo piú originari dell’Irlanda e avevano come guida la straordinaria figura di un loro connazionale di nome Colombano. Esiliati da un re franco, erano in attesa di una nave che dalla Bretagna li riportasse in patria attraversando il Mare d’Irlanda. Lasciavano alle loro spalle un solo monastero – a Luxeuil, nei Vosgi, all’estremo limite orientale del territorio governato dai Franchi –, ora saldamente amministrato dai loro discepoli non irlandesi.

La folgorante carriera di un uomo santo originario di una terra esotica sembrava essere giunta al termine. Colombano e i suoi compagni erano arrivati dal monastero di Bangor, sulle rive del Belfast Lough. Avevano raggiunto la Gallia nel 590, proprio quando Gregorio di Tours stava completando i suoi Libri historiarum. In un primo momento, il loro estremo ascetismo e la fiera indifferenza nei confronti degli usi e costumi del paese in cui si trovavano catalizzarono l’attenzione dei re franchi e delle élite locali che venivano in contatto con il gruppo di monaci. In seguito, come spesso capitava dopo l’arrivo di qualche sant’uomo itinerante, quell’entusiasmo scemò rapidamente. I vescovi locali iniziarono a guardare con sospetto la rigorosa adesione di quel gruppo agli usi monastici irlandesi (diffidenza che Gregorio di Tours, se fosse stato ancora vivo, avrebbe senza dubbio condiviso, avendo patito a sufficienza a suo tempo la presenza di uomini di fede erranti e dotati di grande carisma). Il re franco Teuderico II, che regnava in Borgogna, perse presto ogni simpatia nei confronti di Colombano e dei suoi monaci e, dopo averli dapprima accolti benevolmente come ospiti sulle sue terre, ritenne che si fossero fermati a sufficienza e fosse ormai giunto il momento che facessero ritorno là da dove erano venuti.

La vicenda, tuttavia, non si concluse cosí semplicemente. Un altro re franco, rivale di Teuderico, richiamò dalla Bretagna Colombano e i suoi compagni e inflisse a Teuderico una sonora sconfitta. Il vecchio abate irlandese tornò a Luxeuil come simbolo vivente della pace restaurata in Borgogna e nelle regioni orientali. Sia Colombano sia i suoi benefattori, tuttavia, furono ben attenti a incanalare le loro energie verso le frontiere della Francia, lontano cioè dal nucleo vero e proprio del regno. Colombano passò da Bregenz, sulla punta orientale del Lago di Costanza, per stabilirsi infine a Bobbio, al margine estremo del regno longobardo dell’Italia settentrionale. Morí nel 615. Nato a Leinster, nell’Irlanda meridionale, terminò la sua vita nel monastero da lui fondato ai piedi dei passi alpini attraverso i quali Annibale aveva guidato i suoi elefanti contro Roma1.

Come possiamo facilmente immaginare, la straordinaria vicenda di Colombano ha attirato l’attenzione degli storici, benché ciò che appare veramente notevole nella sua carriera e successiva influenza risulti forse meno facile a vedersi ma ben piú decisivo per la storia del cristianesimo europeo. Come una nuova forma di vaccinazione, la radicale opzione monastica rappresentata da Colombano «prese piede». Nel giro di un secolo, la Gallia settentrionale si ricoprí di un centinaio di monasteri e conventi femminili direttamente generati dagli esperimenti monastici avviati inizialmente dai discepoli franchi del grande religioso irlandese2. Quei monasteri e conventi erano istituzioni di primo piano che non si celavano ai margini degli insediamenti urbani – nei cimiteri fuori delle mura delle città, in boschi, grotte o su isole in mare aperto –, come facevano un tempo le comunità monastiche. Esse sorgevano piuttosto al centro di ricche aree agricole e lungo estuari che ospitavano una frenetica attività commerciale. Molte di quelle istituzioni cenobitiche erano circondate da profondi fossati, fitte siepi e palizzate che le delimitavano come luoghi sacri, rievocando le grandi «città» monastiche dell’Irlanda che avevano trionfalmente soppiantato i santuari tribali di epoca pagana. Molti di quei monasteri sopravvissero fino all’era moderna. Per la prima volta nella storia dell’Europa occidentale, possiamo parlare di un «paesaggio monastico» che confluí direttamente in quello di tutti i secoli a venire3.

A segnare il vero spartiacque fra la tarda antichità e il Medioevo non fu la persona di Colombano, bensí la mobilitazione della popolazione laica della Gallia settentrionale e orientale verso il tipo di devozione rappresentato dai seguaci del grande monaco irlandese. Il nostro breve excursus storico sulle idee riguardanti l’aldilà nella tarda antichità si conclude dunque con Colombano, con i suoi discepoli franchi e borgognoni e con i protettori laici che sostennero monasteri e conventi «colombaniani» con la loro ricchezza e la protezione fisica.

Che cosa creò effettivamente Colombano in Gallia? Benché possa sembrare strano, egli riportò in vita una Gallia di altri tempi. Come molti leader carismatici, egli non appariva del tutto esotico alla società in cui era giunto, risvegliandone se mai vecchi sogni. A prima vista, questo potrebbe sembrare alquanto inverosimile. Colombano, in fondo, era una figura assolutamente estranea, arrivata in Gallia con un seguito di irlandesi e bretoni. Tenacemente fedele agli usi monastici del suo paese d’origine, seppe giocare con grande abilità sul fatto che proveniva dal margine estremo del mondo allora conosciuto.

Ma tutto questo rappresentava soltanto metà della storia. Come si addiceva a un uomo colto appartenente all’ambiente monastico irlandese, Colombano si era formato sui libri – libri in latino arrivati dalla Gallia (direttamente in Irlanda o attraverso le regioni superstiti «romane» della Britannia occidentale). Quei testi avevano portato nelle piccole enclave irlandesi, arroccate all’estrema periferia del mondo cristiano di allora e ancora attorniate da una cultura prevalentemente pagana, la visione di ciò che doveva essere il monachesimo cristiano. Come un mammut conservato nel permafrost, la visione del mondo dei grandi scrittori e predicatori della Gallia meridionale del V secolo, con cui abbiamo iniziato il capitolo IV, prese ad aleggiare nelle biblioteche della lontana Irlanda. Nei suoi lunghi anni trascorsi sul continente, Colombano ampliò quel nucleo radicale gallico, che rimase comunque centrale nel suo messaggio.

Colombano aveva assorbito gli ideali monastici di Cassiano e faceva appello alle opere di Fausto di Riez (tra tutti i predicatori di quel tempo) come «all’autorità di un piú grande maestro, cioè alla ricchissima e raffinatissima dottrina di san Fausto»4. Quando si trattava di ciò che aveva davvero importanza – la difficile arte di estirpare i vizi dall’anima –, i secoli trascorsi e la distanza esistente tra l’Irlanda e la Gallia meridionale rivestivano ben poco significato per Colombano. Una delle linee prospettiche conduceva direttamente, attraverso i libri letti dal monaco irlandese, a Fausto di Riez e ai sostenitori del «consenso gallico» del V secolo. Lo stile latino e l’atteggiamento di Colombano nei confronti del mondo derivavano dalla grande tradizione gallica dei predicatori penitenziali – tradizione che, come abbiamo visto, portava direttamente da Lérins a Fausto di Riez e Cesario di Arles e aveva altresí permeato le opere piú diverse di Gregorio di Tours di un senso di urgente bisogno di pentimento e del desiderio di assistere al giudizio di Dio hic et nunc5. Almeno sotto questo aspetto, il vescovo di Tours avrebbe riconosciuto in Colombano uno dei suoi. Come scrisse il monaco irlandese ai vescovi della Gallia nel 603: «mentre il giorno del Giudizio è piú vicino ora che allora, possiate prendere qualche piú rigorosa decisione in ordine alla dottrina evangelica»6.

Tale atteggiamento di intransigenza non assicurò necessariamente a Colombano le simpatie dei vescovi della Gallia, che avevano ritenuto fino ad allora di avere una sorta di monopolio sul diritto di mettere in guardia le rispettive congregazioni in merito all’imminente Giudizio universale. Il messaggio risoluto di Colombano, tuttavia, infiammò non pochi cuori – e in seguito furono centinaia – di giovani uomini e donne appartenenti ai vertici delle neonate aristocrazie della Gallia settentrionale. Vediamo dunque come accadde tutto questo.

2. Colombano e la vita monastica.

Il modo migliore per accostarsi a Colombano è leggere le sue Instructiones, vale a dire i sermoni da lui scritti per i suoi monaci. Clare Stancliffe ne ha comprovato l’autenticità e ne ha analizzato il tono decisamente peculiare7. Leggendoli, veniamo a trovarci nel punto di innesco di una possente detonazione spirituale.

Come ho già detto, Colombano aveva letto Cassiano, ma lo aveva letto come nessuno aveva mai fatto prima. A differenza di Cassiano, Colombano non partí dalla figura del monaco che esamina la propria anima nel silenzio di una cella, bensí, piuttosto, dall’immensità di Dio, ma di un Dio che non poteva essere avvicinato con facilità, attraverso l’introspezione o la contemplazione delle radiose meraviglie del creato. Per Colombano, Dio era circondato da un profondo silenzio8, quasi nascosto come le profondità che si annidavano sotto la superficie di un oceano freddo e impassibile9. Questo Dio nascosto, tuttavia, poteva essere intravisto, almeno in parte, dai puri di cuore: Ego sum Deus proximans et non Deus de longe? (Ger 23,23), «Sono forse Dio solo da vicino? […] Non sono Dio anche da lontano?»10. Nonostante tutta la Sua lontananza – come ribadisce ripetutamente Colombano –, Egli è il nostro Dio, «che deve tuttavia essere da noi implorato, implorato spesso; dobbiamo sempre aggrapparci a Dio, a questo Dio profondo, vasto, nascosto, sommo e onnipotente»11. Per quanto distante fosse Dio, era comunque possibile, in questa vita, attingere alla fiamma del suo amore che brillava al di là delle stelle e riporla nel nostro cuore: «Ah, se avessi l’esca per ravvivare, alimentare e tenere accesa quella fiamma, che mai si estingue e ognora aumenta!»12.

Qual era dunque la legna migliore per tenere viva quella fiamma? Era un tipo di regime monastico che urtò a lungo la sensibilità moderna e cui i discepoli non irlandesi di Colombano in seguito rinunciarono13. Quello che dobbiamo capire è il motivo per cui Colombano riteneva indispensabile una terapia ascetica cosí severa. Le ragioni sono da individuarsi nella sua totale adesione, attraverso la lettura di Fausto di Riez e Cassiano, al cosiddetto «consenso gallico»14. Gli esseri umani erano afflitti da una tragica debolezza, ma avevano, almeno, il residuo di una sana volontà che permetteva loro di lottare contro un’altra orrenda e peccaminosa volontà, avvinghiata a essi come «una sanguisuga insaziabile e rabbiosa»15. Erano dunque liberi di contrastarla, e lo facevano optando per un regime di sofferenza comune che li portava al punto di rottura. Era quello l’unico modo per frantumare il potere della volontà malvagia. Secondo le parole di un seguace di Colombano, la vita di un monaco era una vita di totale capitolazione:

Che [il monaco] non faccia come vuole, che si nutra di quanto gli è offerto, che tenga solo quanto gli viene dato, che riceva quanto gli è dovuto per il carico di lavoro assegnatogli, che rispetti gli ordini anche di uno che non vorrebbe servire. Che giunga esausto al suo letto, che dorma anche in piedi, che sia costretto ad alzarsi quando il suo sonno non l’ha ancora ristorato […] Che abbia timore del superiore della sua comunità come fosse il suo signore assoluto, come fosse suo padre16.

Una vita del genere assomigliava a quella degli schiavi e dei servi della gleba, la cui presenza tra la manodopera dei crescenti domini del Nord della Francia era particolarmente aumentata proprio in quegli anni.

Un regime che permetteva chiaramente solo due ore e mezza di sonno, per esempio, a cui seguivano ore e ore di litanie in inverno, prima dell’alba, in una chiesa non riscaldata, ha lasciato giustamente inorriditi i commentatori moderni. La disciplina della vita monastica era «una testimonianza sia del carattere [di Colombano] sia della tenacia dei suoi conversi»17.

Per gli storici, il mistero piú grande è appunto rappresentato non dalla figura in sé di Colombano ma da questa «tenacia dei suoi conversi». Che cosa ricevevano in cambio quei giovani monaci? Detto in poche parole, essi accoglievano nei loro cuori la fiamma divina, facendo ardere dentro di loro, innanzi tutto, il «fuoco dell’obbedienza»18. Colombano e i suoi successori esortavano i loro monaci e monache a credere con fede che un fuoco portasse all’altro, poiché la fiamma interiore dell’amore di Dio poteva cominciare ad ardere solo dopo il totale smantellamento e la successiva ricostruzione della persona dei giovani aristocratici (uomini e donne) che entravano in convento. La rinuncia alla libertà personale e l’incondizionata obbedienza a un superiore erano l’essenza della vita monastica, in quanto rappresentavano l’unico modo per accendere il fuoco interiore dell’amore di Dio.

L’obbedienza non era fine a se stessa. Essa era il modo piú doloroso per edificare un paradiso in terra. L’obbedienza doveva condurre alla trasparenza e all’amore. Colombano e molti dei suoi successori immaginarono monasteri e conventi come oasi racchiuse in se stesse, in cui regnavano la grazia e la chiarezza della mente. Le comunità monastiche dovevano essere luoghi di movimenti spirituali attentamente orchestrati, traboccanti delle onde sonore di voci modulate che levavano inni al Signore. La vita quotidiana doveva svolgersi attraverso interscambi garbati e alieni a qualsiasi contenzioso di sorta. Monasteri e conventi dovevano essere istituzioni amalgamate da innumerevoli atti di reciproca cortesia e sollecita obbedienza.

Colombano e i suoi seguaci erano convinti che tale bellezza potesse realizzarsi solo polverizzando la forza di volontà che monaci e monache avevano ereditato dalla loro classe nobile di appartenenza, e liberarsi di quella superba volontà era il lavoro in assoluto piú arduo: «Certo, l’apprendimento di tali regole può sembrare duro a uomini già duri, soprattutto il dover sempre obbedire alla voce di un altro»19.

Si aggiunga a tutto questo la recente scoperta di un nuovo mezzo per conseguire la perfezione monastica. Colombano, infatti, aveva portato con sé in Gallia la pratica della confessione regolare, in uso in Irlanda e Britannia, a cui seguivano, per ciascun peccato, vari scaglioni di penitenza minuziosamente calibrati. Nel lungo periodo, questo portò in Gallia a un’«accettazione di rilievo epocale» di una nuova pratica religiosa, sviluppata in quella che fino ad allora era stata una regione marginale del mondo cristiano20.

Non dobbiamo in ogni caso esagerare l’impatto che le nuove forme di confessione e penitenza ebbero anche all’esterno dei conventi e monasteri di Colombano e dei suoi sostenitori. In Irlanda e altrove, l’esercizio regolare della confessione era una forma di «devozione facoltativa»21, che la Chiesa non imponeva mai ai fedeli in generale, come sarebbe invece successo nell’Alto Medioevo e nel cattolicesimo moderno. Si trattava di una pratica elitaria, in gran parte riservata a quanti avevano la vocazione religiosa, ovvero monaci e monache oppure conversi e novizie.

Nei monasteri di Colombano, tuttavia, l’utilità di frequenti confessioni per domare la forza di volontà di uomini e donne che peccavano di orgoglio era fondamentale. Tre volte al giorno, in molti conventi, ogni monaca era chiamata a confessare i peccati commessi con il pensiero e l’azione, per poi ricevere l’assoluzione e un’adeguata penitenza per bocca di una delle sue consorelle22. Le lunghe e inquietanti elucubrazioni dei Padri del deserto sulle loro svariate e quasi irresistibili tentazioni (di cui Colombano dovette leggere nelle opere di Cassiano) furono adattate alla pratica della confessione. Le tentazioni furono infatti, per cosí dire, «miniaturizzate», suddivise in una serie di scenari chiaramente definiti, ciascuno dei quali poteva essere descritto o comunicato a un altro monaco o monaca e quindi affrontato con una penitenza commisurata. Era un sistema che aveva il vantaggio di una rapida assoluzione e di riportare la pace in un cuore ora «purificato», e questo in un ambiente in cui la resistenza fisica e psicologica di monaci e monache era portata al limite in ogni altro frangente della vita monastica.

Benché monasteri e conventi colombaniani conoscessero altresí ribellioni e fughe (il che non sorprende)23, le comunità offrivano anche rari momenti di serenità, raggiunti perseguendo risultati apparentemente minimi che evidenziavano tuttavia la differenza tra la quiete del monastero o del convento e lo stridore di un mondo al di là degli spazi monastici protetti, dominato da élite laiche ormai troppo sicure di se stesse. Le regole di Colombano e dei suoi successori – autentici capolavori di quella che i sociologi moderni definiscono «gestione delle emozioni»24 – facevano molto di piú che controllare la condotta di monaci e monache, capovolgendo deliberatamente i codici comportamentali delle classi elitarie da cui provenivano. Esse esortavano al silenzio e al riserbo, punendo severamente il pettegolezzo e qualsiasi gloriatio da «smargiassi»25. La cosa non era da poco, visto che l’enfasi vanagloriosa e l’abitudine di mettere in difficoltà i rivali con racconti malevoli erano state tra le caratteristiche di grandi vescovi, spavaldi cortigiani, signori della guerra e grandi proprietari terrieri del regno dei Franchi26.

In modo non dissimile dalla pratica dei giovani aristocratici che nel V secolo entravano nei monasteri della Provenza, ai valori e ai modelli comportamentali di un’orgogliosa classe nobiliare di recente formazione si contrapponeva una deliberata inversione dei ruoli in senso ascetico. Passare dal «mondo secolare» a un monastero o a un convento di tradizione colombaniana significava abbandonare una cacofonia di parole piene di superbia in favore di una tranquilla rada di moderazione verbale e misurati movimenti cadenzati. Le regole monastiche assicuravano che a garbate richieste sarebbero seguite, giorno dopo giorno, pacifiche risposte. Questo valeva perfino nel caso di una questione tanto delicata come la distribuzione del cibo alla comunità di monaci e monache prossimi all’inedia. La monaca responsabile della cantina (e quindi dell’approvvigionamento di cibo) doveva sempre rispondere «con parole miti e senza alcuna reazione aspra, sicché la dolcezza del suo cuore possa rivelarsi attraverso le risposte della sua voce»27.

Questo intenzionale sovvertimento dei codici comportamentali della nuova aristocrazia finí per irradiarsi anche al di fuori di conventi e monasteri. Molto prima di farsi monaco, il pio Vandregisilo (in seguito santificato) non aveva esitato a rovinare la sua veste di tessuto dorato per aiutare un contadino a spingere il carro nel fango profondo di fronte al palazzo reale, con grande sollazzo dei suoi compagni cortigiani (dobbiamo tuttavia aggiungere che l’abito incrostato di fango era stato miracolosamente lavato a secco dagli angeli prima che Vandregisilo si presentasse al re). Nel convento di Nivelles, Gertrude (niente meno che zia dell’antenato di Carlo Magno) era stata sepolta in una tomba di desolante semplicità in segno di disapprovazione nei confronti dei sontuosi mausolei dei nobili mondani appartenenti alla stessa classe di origine della monaca. Queste drammatiche inversioni dei ruoli assumevano probabilmente un particolare significato tra le nuove classi aristocratiche della Francia orientale, dove era piú appariscente la stratificazione sociale della nobiltà (espressa dall’abbigliamento e dalle sepolture di gran lusso)28.

3. Monasteri, conventi e benefattori nella Francia del VII secolo.

Se vogliamo analizzare l’impatto avuto dal messaggio di Colombano sulla società franca nel suo complesso, è importante avere presente il passare delle generazioni. Era trascorsa infatti un’intera generazione dalla morte di Colombano quando Giona di Susa (un monaco del monastero di Bobbio originario della Borgogna e ugualmente a suo agio su entrambi i versanti delle Alpi) scrisse tra il 639 e il 643 un testo classico come la Vita di san Colombano. A quel tempo, le cose erano molto cambiate in Gallia, in seguito a due sviluppi fondamentali.

Il primo cambiamento ebbe luogo all’interno di un piccolo ma influente gruppo ai vertici della società franca. Negli anni Trenta del VII secolo, i valori monastici di apertura mentale, rispetto reciproco e assenza di vanagloria, generati dall’attività quotidiana dei monasteri colombaniani, trapassarono nel mondo laico. Una sorta di ethos monastico contribuí infatti a creare un codice di buona creanza aristocratica tra cortigiani, burocrati e vescovi del regno franco settentrionale. Questo valse soprattutto per la gioventú dorata alla corte di Dagoberto I (629-34), ovvero i cosiddetti «VIP merovingi» della successiva generazione. Quei giovani erano giunti da molte regioni diverse e avevano tradizioni famigliari differenti. Alcuni erano arrivati dalle regioni sud-occidentali ancora «romane», altri dal settentrione di costumi franchi. L’adozione di un codice comportamentale comune rientrò pertanto nel processo di omogeneizzazione del regno merovingio29.

Si trattava di un codice paramonastico. Per la prima volta in assoluto, ci troviamo dinnanzi a una sorta di galateo per le classi alte che non attingeva all’antica saggezza «mondana», associata fondamentalmente alla retorica classica e alla legislazione romana. Benché tali componenti fossero ancora presenti alla corte merovingia, esse vennero ora a fondersi con consuetudini legate alla devozione e mutuate dai monasteri cristiani. Negli ambienti privilegiati vicini alla corte fiorí dunque qualcosa di simile alla courtoisie, ovvero una serie di norme di comportamento raffinato adatte a una corte regale.

Questo stile di vita cortese e semiascetico offriva un grande vantaggio, giacché permetteva ai grandi dignitari reali di cambiare carriera con maggiore facilità. I funzionari di corte potevano infatti diventare vescovi o abati di monasteri senza dare piú l’impressione di migrare tra due mondi ineluttabilmente diversi. Gli uomini di corte influenzati in questo modo dalle pratiche monastiche ostentavano una sublime gravità di modi. Cerimoniosi e scrupolosi, si rivolgevano invariabilmente l’uno all’altro con l’appellativo peccator, ovvero come «compagni uniti nel peccato». Essi contribuirono a creare l’impianto ideologico di un governo consensuale all’interno di un sistema politico ordinato e responsabile, come se lo stesso regno franco fosse un unico enorme monastero. La serietà di tale impegno risulta particolarmente apprezzata nell’innovativo lavoro di Anne-Marie Helvétius e Jamie Kreiner30. Questa nuova visione della classe dirigente del regno franco del VII secolo lasciò sorpresa la maggior parte degli studiosi, che tendevano a considerare i sovrani merovingi di epoca tarda e i loro sostenitori poco piú di una cricca di irriducibili criminali.

Il secondo cambiamento a cui accennavo ebbe maggiore diffusione e riguardò l’alta società franca nel suo complesso. Monasteri e conventi cominciarono infatti a essere considerati come istituzioni sacre in sé, e si trattò pertanto di un cambiamento particolarmente significativo. Colombano era stato la tipica figura del sant’uomo della tarda antichità, uno straniero dotato di carisma che si era posto drammaticamente in urto con la società che lo circondava. All’epoca in cui Giona di Bobbio scrisse la sua Vita Columbani, quell’immagine carismatica del monaco irlandese era stata tuttavia eclissata da un forte senso di «santità di gruppo». A rivestire importanza non era il singolo monaco o la singola monaca, ancorché circonfusi di santità, bensí la vita straordinaria e rigidamente scandita di monaci e monache, dediti unanimemente alla recitazione di infinite orazioni e capaci di attrarre l’attenzione di una cerchia sempre piú vasta di benefattori laici31.

Osserviamo ora quegli insediamenti monastici attraverso gli occhi dei loro protettori. I laici che patrocinavano le comunità monastiche non avevano alcuna intenzione di adottare il penoso stile di vita di monaci e monache ma desideravano piuttosto colmare l’abisso tra il sacro e il profano mediante le donazioni. Come nel caso di molte società in cui un’élite di virtuosi della vita ascetica coesisteva con grandi gruppi di laici facoltosi, era per il tramite delle grandi offerte che si pensava che i due mondi inconciliabili potessero unirsi32.

Le donazioni non dovevano considerarsi come fredde transazioni finanziarie. Esse, se mai, creavano un rapporto simbiotico tra la santità di monasteri e conventi e la vita laica dei loro protettori. Questo stretto rapporto rappresentava una delle vette dello scambio mistico tra ricchezza e preghiera che abbiamo visto originariamente nella parabola del profeta Erma sull’olmo e la vite, risalente al 140 d.C. Ora, però, si trattava di uno scambio in cui i poveri erano assenti, sostituiti da monaci e monache come intercessori per eccellenza.

Le pie offerte tracciavano inoltre dei confini, creando una sorta di «zona cuscinetto» tra i ceti laici, che conducevano un incorreggibile stile di vita profano (e comprendevano ora anche uomini d’arme con le mani grondanti di sangue, mano a mano che le classi superiori militarizzate venivano a sostituirsi alle élite civili di epoca romana), e i monasteri e conventi, che irradiavano la piú pura sacralità33. Questo senso di incommensurabile alterità e il valore assoluto di determinati monasteri e conventi si esprimevano al meglio in donazioni altrettanto straordinarie.

Tali offerte corrispondevano ben di piú che a un semplice sostegno finanziario. Per piú di una famiglia nobile, un convento o un monastero rappresentava «il cuore della sua forza simbolica». Molte comunità monastiche erano state fondate su terreni di famiglia, e la presenza di conventi in cui prevalevano monache di origini aristocratiche rendeva tangibile, in particolare, il buon nome di grandi clan nobiliari, i cui capi, finanziando la fondazione di monasteri, dimostravano di poter disporre di grandi appezzamenti di terreno. Nello stesso modo, essi segnalavano all’intera società il fatto che, in quanto nobili e dignitari di corte, potevano anche permettersi di lasciare che le loro figlie vivessero in luoghi sperduti in aperta campagna, protette da ogni possibile violenza da nient’altro che un muro sacro e dalla reputazione del loro lignaggio34. Verso la fine del VII secolo, molti conventi possedevano fino a 20 000 ettari di alcuni dei terreni agricoli piú ricchi e intensamente coltivati d’Europa35.

Questi monasteri e conventi, come ho già detto, erano considerati alla stregua di centrali elettriche della preghiera. Tra le loro mura, file disciplinate di monaci pregavano ininterrottamente per la pace del regno franco, ma, cosa ben piú importante, essi pregavano per le anime dei fondatori e benefattori della loro comunità36. Sotto questo aspetto, la fondazione in Gallia di tanti monasteri e conventi e le donazioni di massa che molti di essi ricevettero contrassegnarono il grande finale di secoli di preghiera d’intercessione. L’immaginario dell’epoca era altresí saturo dell’idea di un trasferimento mistico di un tesoro dalla terra al cielo. Fondare un grande monastero significava ribadire idee di buon senso riguardanti la ricchezza, immaginando al tempo stesso di trarne esiti meravigliosi. Secondo le parole di un ricco cortigiano: «Voglio donare […] piccole cose in cambio di grandi, cose terrene in cambio di cose celesti, ciò che è su questa terra in cambio di ciò che resiste in eterno»37.

Come abbiamo visto nel capitolo V, le donazioni avvenivano, prima di tutto, per il remedium, ovvero la guarigione e la protezione dell’anima nell’aldilà. Non sorprende quindi che i monasteri istituiti per pregare per le anime dei loro fondatori nel mondo ultraterreno generassero riguardo all’aldilà storie particolarmente vivide, concentrate essenzialmente sul modo in cui l’anima entrava nell’altro mondo al momento della morte. Pertanto, quando Giona di Bobbio scrisse il secondo libro della sua Vita Columbani, una sezione notevole fu dedicata alle fuggevoli visioni dell’altro mondo tra le monache del convento di Faremoutiers (nei pressi di Meaux, al margine estremo della valle della Marna).

Ciò che vi era di nuovo in quei vivaci racconti erano proprio gli squarci sull’aldilà, presentati non sotto forma di visioni o sogni travolgenti ma come momenti di chiaroveggenza presso il letto di morte di comuni monache. Era come se, al momento del trapasso, venisse a squarciarsi un velo e apparissero agli occhi di quanti si erano raccolti al capezzale della morente le schiere di forze angeliche e demoniache che Salviano (duecento anni prima) aveva immaginato accanto al letto di morte dei cristiani piú ricchi.

Il messaggio di Giona di Bobbio, a differenza di quello di Salviano, era tuttavia ottimista: grazie alla loro bontà e devozione, le consorelle non avevano difficoltà ad affrontare, senza pericolo alcuno, il mondo minaccioso dell’oltretomba. Debitamente preparati, e protetti dalle preghiere di intere comunità di monaci e monache, anche i devoti mecenati laici potevano sperare in un trapasso altrettanto sicuro. L’importante era morire bene. Secondo le parole attentamente scelte da Jamie Kreiner, per Giona di Bobbio e gli altri «la morte è un momento di deliberata conclusione»38. Prima di essere passato nell’altro mondo, nessuno poteva essere troppo preoccupato di come sarebbe giunto a quel momento conclusivo.

Ciò che Giona di Bobbio poneva in chiara evidenza parlando della morte delle monache di Faremoutiers era che la morte stessa non era altro che una fase della vita penitenziale del convento. Era l’ultimo momento in cui l’Io tirava le somme. Sisetrudis era stata la prima sorella a morire a Faremoutiers, ed era una morte a cui la monaca era preparata. Le era stato infatti rivelato di avere quaranta giorni di tempo per prepararsi «al viaggio», ma il trentasettesimo giorno era caduta per un breve momento in coma. Sembrava fosse morta. Non appena riprese coscienza, raccontò alle monache quello che era successo: due giovani l’avevano portata attraverso l’aria vuota ed era stata poi sottoposta a «molte verifiche»: discussionibus multis. Dobbiamo notare che la parola discussio conservava ancora forti connotazioni giuridiche e fiscali, come se il vaglio dell’anima di Sisetrudis fosse stato una sorta di controllo tributario39. Sisetrudis era stata appena collocata tra gli angeli quando le fu ordinato di tornare in vita, non essendo pronta ad accedere alla «presenza» di Cristo perché non aveva ancora portato a termine i suoi quaranta giorni di preparazione facendo penitenza. Il quarantesimo giorno, tutto il convento si riuní intorno al letto della monaca per pregare per la sua morte, e gli angeli ritornarono. Sisetrudis era ormai pronta a intraprendere il suo ultimo viaggio: «Eccomi, vengo, miei signori, vengo»40. Questa morte esemplare, scrisse Giona, fu «il primo incoraggiamento che il Signore si compiacque di dare alle sue serve in tale cenobio»41.

È rivelatore il fatto che nessuna delle morti successive descritte da Giona di Bobbio coincidesse con un ingresso trionfale direttamente in paradiso. L’anima di ogni suora era comunque sottoposta a una qualche forma di verifica, volta a valutare i peccati e le omissioni compiute durante la vita in convento. Anche sorella Gibitrudis, pertanto, fu assunta in cielo e poi nuovamente inviata sulla terra: «Vattene perché non hai rinunciato completamente al mondo»42.

Gibitrudis non poteva «lasciare il mondo terreno» perché sulla sua anima gravava ancora un peccato. Non aveva saputo infatti concedere il suo perdono a tre consorelle, nonostante il fatto che ogni giorno pregasse «rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori»43. Quello che per Agostino era stato l’eterno e inconsolabile lamento (talora perfino un po’ sviante) del peccatore in generale offriva, nel convento di Faremoutiers, l’ennesima occasione – impietosa e puntuale – di confessare un particolare peccato, a cui seguiva la misericordiosa assoluzione in cambio di una specifica penitenza. Soltanto dopo aver fatto la sua penitenza, e perdonato le consorelle, Gibitrudis sarebbe stata libera di entrare in paradiso.

Storie come questa lasciavano intendere che solo le anime già purificate da ogni peccato potevano passare in modo sicuro, attraverso la morte naturale, alla vita celeste. Secondo modalità che ricordano il Libro dei Morti dell’antico Egitto, ogni anima che lasciava il mondo terreno doveva essere accuratamente «vagliata». L’anima di ogni suora di Faremoutiers era minuziosamente esaminata dai guardiani dell’altro mondo, affinché potesse entrare nella terra immacolata della vita ultraterrena senza portare su di sé alcuna contaminazione prodotta dall’impurità del peccato. Secondo le parole di Jan Assmann, a proposito del Libro dei Morti egizio: «Per questo motivo, la soglia non poteva mai essere alta abbastanza, il confine non poteva mai essere sicuro abbastanza, e la natura dei guardiani non poteva mai essere terrificante abbastanza»44.

Quel terrore, tuttavia, non veniva risparmiato a tutte le sorelle. Le monache ribelli andavano infatti incontro a una brutta morte: le porte delle loro celle si spalancavano, attorno al loro capezzale si affollavano ombre tenebrose e voci ultraterrene sembravano chiamarle per nome nell’aldilà45.

Alcune monache ce la facevano per un soffio. La madre «mondana» di una novizia timorata di Dio non ricevette altro che il semplice «perdono» – venia –, ma non prima di essere stata «atterrita da visioni diaboliche»46. Il trapasso di quella donna piú vicina ai peccati del mondo era in qualche modo rassicurante per la media delle persone laiche: «Giacché colei che non aveva potuto sfuggire alle rovinose insidie del secolo per i suoi propri meriti, fu per l’intervento di sua figlia che meritò di essere salvata»47. I benefattori laici e gli ammiratori di Faremoutiers potevano sperare la stessa cosa per se stessi.

Questi racconti, provenienti da un convento tra i piú prestigiosi della rigogliosa valle della Marna, suggeriscono un cambiamento di ordine piú generale. Per le persone di generazioni precedenti, il «perdono» – venia – poteva ottenersi solo genuflettendosi ai piedi di grandi santi di sesso maschile che riposavano nelle loro splendide tombe alle porte delle antiche città della Gallia. Ora, il dono del perdono di Dio, il piú prezioso di tutti, lo si trovava in luoghi diversi ed era nelle mani di persone differenti. Il perdono lo si poteva ora ricevere non solo per intercessione di santi morti da lungo tempo, ma anche attraverso le preghiere di persone sante tuttora viventi, come le nobildonne che affollavano conventi che irradiavano una santità collettiva. Quei conventi, inoltre, risultavano concettualmente lontani dalla vita frenetica delle città come se fossero stati sulla luna. Le comunità monastiche costituivano delle istituzioni rurali, situate nei campi e nelle foreste della Gallia settentrionale e orientale. Nessuna di esse esisteva quando Gregorio di Tours aveva deposto la sua penna di scrittore nel 591.

4. Viaggi dell’anima: Fursa e Baronto.

Per l’aristocrazia laica, come per monaci e monache, i monasteri e i conventi della Francia del VII secolo fungevano da anticamera dell’aldilà. Cominciarono presto a comparire resoconti di «viaggi dell’anima», connessi con esperienze di premorte, che descrivevano in modo dettagliato e circostanziato i pericoli che l’anima correva nell’oltretomba. Il primo di questi «rapporti di viaggio» a essere pubblicato e avere ampia diffusione fu quello di Fursa (o Fursey), un irlandese stabilitosi alla fine in Gallia dopo aver attraversato l’Anglia orientale e morto a Lagny (vicino a Noyon) nel 650. Il secondo resoconto, apparso nel 679, narrava il viaggio di andata e ritorno fino alle porte del paradiso di Baronto, un monaco del monastero di Saint-Pierre de Longoret (Longoretum, ora Saint-Cyran, a ovest di Bourges)48. Nulla di simile era apparso prima di allora.

I protagonisti e le forme di queste due visioni non potrebbero essere piú differenti tra loro. La Visio Fursei, ambientata nella lontana Irlanda, era presentata come una conferma della futura carriera di Fursa come predicatore penitenziale. Egli affermava di aver visto ciò che nessun essere umano aveva visto, ed era stato qualcosa di veramente spaventoso. Negli anni successivi, quando raccontava della sua visione, lo si vedeva ancora sudare per la paura anche nel gelido freddo invernale dell’Anglia orientale49. Baronto, al contrario, era un personaggio quasi buffo. Convertitosi a una certa età alla vita monastica, era il tipico nobile franco di quell’epoca, non già un uomo d’arme portato alla cieca violenza (come spesso immaginiamo), bensí ex funzionario del governo, sposato e con troppe amanti sulla coscienza50. Nella sua visione lo troviamo che fluttua sopra i campi, nello spazio reale (all’esatta velocità di venti chilometri all’ora!), e osserva in basso un paesaggio punteggiato di monasteri familiari. Riesce perfino a scorgere i monaci di uno di essi, raccolti in preghiera sotto di lui, chiamati dal suono della campana del loro monastero. Per tutto il tempo, Baronto viene preso a calci nel posteriore da demoni importuni. Non c’è dubbio che egli corrispondesse in pieno a uno dei non valde boni – i cristiani «non del tutto buoni» – del suo tempo, e avesse pertanto bisogno di tutte le preghiere che riusciva a ottenere51.

Entrambe quelle visioni di premorte riassumevano le speranze e le paure dell’epoca e appartenevano a un nuovo genere di immaginazione. A differenza delle grandi visioni della tarda antichità, non erano viaggi «cosmici», non descrivevano l’ascesa verso un regno stellato né portavano il veggente direttamente al cospetto di Dio, anzi, in queste visioni Dio risultava stranamente assente, velato da un impenetrabile splendore. L’interesse era concentrato sul destino di una particolare anima alle prese con potenze intermedie – angeli e demoni – che incutevano un sacro timore, erano poste a guardia della soglia del cielo e mantenevano i peccatori lontano da quel luogo di assoluta perfezione. Il destino dell’anima era segnato da quei peccati individuali ed esattamente definiti che non erano ancora stati purificati in vita con una penitenza adeguata. In entrambe le visioni, inoltre, erano i demoni che, attenendosi al criterio dell’assoluta trasparenza, parlavano con la voce del sistema penitenziale monastico nella sua forma piú rigorosa. Il povero Baronto si era sentito semplicemente sopraffatto da tutto ciò che i demoni sembravano sapere di lui: «Passarono in rassegna tutti i peccati che avevo commesso dall’infanzia in avanti, inclusi quelli che avevo completamente dimenticato»52.

Baronto non era certamente un santo. Fursa, al contrario, quando visse l’esperienza della sua visione, era agli esordi della carriera missionaria53 e doveva dimostrare di essersi completamente «purificato» dal peccato prima di poter assumere il suo ruolo pubblico di predicatore penitenziale. I demoni lo avevano messo alla prova in modo spietato: sull’esempio delle guide spirituali della tradizione irlandese propriamente detta, essi affondarono fino alle radici delle sue azioni, rimarcando per esempio che non aveva saputo perdonare i suoi nemici dal profondo del cuore54. Fursa non era diventato innocente «come un bambino»55, ma aveva agito in collusione con i peccatori omettendo di rimproverarli per le loro mancanze56.

Di fronte a quella raffica di accuse, gli angeli che accompagnavano Fursa obiettarono che i demoni potevano avere la sua anima solo se egli avesse commesso i «peggiori peccati», i principalia crimina, e non meri peccati di minore rilievo57. I demoni, tuttavia, la pensavano diversamente: «Ogni peccato che non sia stato eliminato sulla terra deve ricevere il suo castigo in cielo […] Qui non c’è posto per il pentimento»58.

Fursa non poteva nemmeno sperare di giovarsi di qualche nascosta riserva di misericordia divina. I demoni operavano in un mondo immerso in una luce accecante e quasi insopportabile: Quid enim occultum hic? («Che cosa potrebbe mai esserci qui di nascosto?»)59.

Per quali peccati Baronto e Fursa erano stati chiamati ad affrontare il castigo? A differenza di tante visioni tardoantiche delle sofferenze delle anime all’inferno, i loro peccati non avevano nulla a che vedere con il sesso. Il vero problema era infatti il denaro. Al suo ingresso nel monastero, Baronto aveva trattenuto dodici pezzi d’oro per suo uso personale, ed era stato san Pietro in persona a dirgli di deporre nelle mani di un povero una moneta ogni mese, sigillata e benedetta da un sacerdote. Con questo rito solenne, si ridelineava con cristallina chiarezza il primordiale gesto cristiano dell’elemosina per espiare i peccati dell’anima60.

Per Fursa, le cose andavano molto peggio. Egli era infatti accusato di aver ricevuto offerte da peccatori sulla cui penitenza non aveva riflettuto a sufficienza per assicurarsi che la loro contrizione fosse sincera61. All’epoca, i doni da parte dei peccatori erano un problema costante, e rappresentavano un pericolo. Giona di Bobbio riferisce di alcuni bicchieri di vino offerti a Colombano dall’empio re Teuderico, che erano esplosi in mille pezzi62. Il testo della Visio Fursei fu redatto in un monastero fondato da un mecenate di dubbia reputazione quale Erchinoaldo, il maggiordomo di palazzo (maior palatii), figura sempre piú impopolare ma ai vertici del potere del regno merovingio. In un simile contesto, la purezza dei doni offerti ai monaci era cosa tutt’altro che secondaria63.

Per Fursa, si trattava – letteralmente – di una questione scottante. Lungo il viaggio di ritorno sulla terra si trovò ad attraversare un argine in fiamme, da cui era emerso improvvisamente un demone che trascinava un uomo avvolto dal fuoco. La creatura diabolica aveva poi scagliato contro Fursa quel poveretto divorato dalle fiamme. Il corpo bruciante dell’uomo gli aveva sfiorato la mascella e la spalla. A quell’uomo, Fursa aveva inflitto una penitenza inadeguata, in cambio del dono di un mantello. I demoni gridavano: «Non rifiutare ciò che un tempo non disdegnasti ricevere!»64. Da quel momento, il volto di Fursa rimase segnato da una cicatrice livida. Quell’orrendo e bruciante abbraccio, mascella contro mascella, tra monaco e donatore riassumeva le ansie piú profonde di quella grande epoca di pie donazioni.

5. Le anime, il peccato e l’Universo.

Con questo, siamo ormai prossimi alla conclusione. È ampiamente riconosciuto che il VII secolo rappresenta uno spartiacque nella storia del cristianesimo occidentale. Gli spartiacque, tuttavia, sono spesso luoghi piatti e alquanto informi, e questo non solo in geografia, ma anche, a maggior ragione, nella storia delle religioni. Nel pensiero e nella pratica cristiana, certi momenti di continuità poco appariscenti che collegano il III secolo al VII – vale a dire il mondo antico al Medioevo – rivestono altrettanta importanza quanto momenti di svolta ben piú famosi, come la fioritura di una nuova cultura monastica e la comparsa del nuovo genere letterario del «viaggio dell’anima».

Ciò che a prima vista può sembrare sorprendentemente nuovo ed esotico si rivela spesso nient’altro che l’ennesima mutazione di una specie da lungo tempo affermata. Nelle drammatiche dispute tra angeli e demoni nelle visioni di Fursa e di Baronto vi è ben poco che Agostino non avesse considerato (forse con un’esitazione molto maggiore) nelle sue grandi opere. Molto spesso, ciò che finiamo per ritenere un cambiamento irreversibile non è altro che uno spostamento del punto di osservazione, come se i riflettori puntati sulle testimonianze da noi addotte si spostassero per illuminare altri aspetti del medesimo continuum65. Nondimeno, possiamo ancora percepire un diverso gradiente. In Gallia, verso il 650, la religione e la società avevano cominciato a scivolare lungo un pendio che avrebbe portato ai grandi monasteri, alla pratica regolare della confessione, alla comparsa del purgatorio e alla somma Divina Commedia di Dante Alighieri.

Dobbiamo tuttavia stare attenti a mantenere il senso della prospettiva storica. Abbiamo seguito la storia dell’anima cristiana da un mondo molto antico, tra le tombe romane del III secolo, fino alle soglie del Medioevo. Nel 650, avevano già cominciato ad apparire grandi comunità monastiche, fondate allo scopo di offrire preghiere di intercessione per le anime dei loro benefattori; erano divenuti chiaramente visibili i contorni concettuali del purgatorio; si era iniziato a praticare la penitenza attraverso il rito della confessione. Nel corso di questo nostro memorabile viaggio, tuttavia, potremmo lasciarci sfuggire ciò che è scivolato fuori dal campo visivo. Ponendo un eccessivo accento sul futuro del cristianesimo occidentale, possiamo correre il rischio di trascurare ciò che era stato lasciato alle spalle. Cerchiamo quindi di non limitarci a guardare al futuro medievale, ma accomiatiamoci se mai dall’antico passato.

In conclusione: che cosa si è lasciato alle spalle in questi secoli il cristianesimo occidentale? Mi piacerebbe dire che ciò che si era lasciato alle spalle era quasi troppo grande per essere visto: intendo l’erosione e la definitiva sostituzione della mistica dell’antico cosmo con un modello cristiano di universo dominato dai concetti di peccato, castigo e ricompensa.

Per capire tutto questo, la cosa migliore è tornare alla fine del periodo classico e a un autentico capolavoro di sintesi come The After Life in Roman Paganism, di Franz Cumont. L’autore vi evoca, con rara limpidezza, il brivido dell’antica visione dell’universo: un mondo in cui ciò che era visibile corrispondeva a ciò che alla fine si poteva sperare di ottenere. Era un mondo straordinariamente maneggevole: «Quando gli uomini alzavano gli occhi alle costellazioni del firmamento, pensavano di riuscire a cogliere la fine del cosmo. Per loro, le profondità del cielo non erano affatto insondabili»66.

L’universo materiale non era soltanto un mondo chiaramente delimitato, ma anche coerentemente comprensibile e attentamente graduato. Esistevano un «basso» assolutamente chiaro e un «alto» altrettanto chiaro. Le anime superiori raggiungevano le posizioni piú alte come per qualche legge di fisica morale. Le anime dei beati arrivavano ​alla Via Lattea. In questo modo, la struttura morale dell’altro mondo coincideva esattamente con la sua struttura fisica. Le anime dei buoni stavano in alto, tra le stelle imperiture; le anime imperfette, viceversa, restavano sospese in un mondo malsano sotto la luna.

Tale visione non era affatto limitata ai pagani, e per convincercene non abbiamo che da leggere le iscrizioni funerarie degli aristocratici cristiani di Roma e dei loro discendenti, vale a dire i vescovi appartenenti alle classi piú alte della Gallia. Per tutti, le loro anime non potevano che collocarsi tra le stelle o perfino al di là di esse, altrettanto saldamente quanto le anime dei loro pari di religione pagana e dei loro antenati67. Come abbiamo visto, per Sulpicio Severo era stato naturale pensare che l’anima di san Martino sarebbe svanita tra le stelle.

In ambiente cristiano, questa immagine del cosmo aveva già cominciato a indebolirsi nel III secolo. Per quanti sforzi facessero i poeti che componevano le epigrafi per le lapidi dei grandi cristiani, il paradiso – una sorta di giardino orientale traboccante della grazia di Dio – mai avrebbe potuto coincidere esattamente con la Via Lattea. Verso il 200 d.C., Tertulliano lo aveva già capito: «Dovremo dunque riposare lassú, nell’etere, con Platone e i suoi discepoli amanti di fanciulli?»68. Tertulliano aveva colto nel segno. La Via Lattea non era per i cristiani anonimi, ma per i personaggi piú nobili e degni. I suoi pesanti ammassi stellari convalidavano la fama conseguita sulla terra dalle figure piú illustri acclamate dalla società. Come Cumont ci rammenta, in una tale visione del mondo agli esseri umani era concessa solo quella parte di immortalità per cui avevano lottato – o che era stata loro riconosciuta – sulla terra:

L’immortalità, come noi [moderni] la concepiamo, è diretta conseguenza della natura stessa dell’anima […] E si suppone in generale che essa sia assoluta, eterna, universale. Per gli antichi, d’altro canto, l’immortalità era sottoposta a precise condizioni: poteva non essere eterna e non appartenere a tutti gli uomini69.

Solo i grandi rimanevano grandi per sempre. In base alla diffusa credenza della metempsicosi, i grandi potevano perfino fare ritorno in questo mondo, dopo secoli e secoli, e assumere il ruolo di governanti della terra. Come abbiamo visto nel capitolo III, tale concezione della trasmigrazione delle anime era sostenuta dalla famosa descrizione – nel libro VI dell’Eneide – dell’incontro di Enea con le anime di grandi Romani prossime a immergersi nuovamente in corpi mortali70. Come Agostino aveva precisato in un sermone, quell’episodio della discesa agli inferi era ampiamente conosciuto dai libri ma soprattutto dalle rappresentazioni teatrali, fino a diventare parte di un classicismo folclorico diffuso ben oltre l’ambiente dei letterati71. I grandi tornavano dall’oltretomba per essere ancora una volta grandi sulla terra. Tale visione presupponeva una connessione intrinseca tra il cosmo e la stratificazione sociale.

È quest’immagine del cosmo intensamente gerarchica che lentamente, ma inesorabilmente, iniziò a indebolirsi sempre piú nelle menti cristiane. Non dobbiamo fare altro che seguire la penna di Agostino, intento a rispondere a tali e tante domande riguardanti la morte e l’aldilà, per renderci conto della misura in cui nell’immaginazione del vescovo di Ippona si era aperta, consciamente o inconsciamente, un’autentica voragine tra il suo Io e l’antica maestosità del cosmo. Agostino volse le spalle all’ordine cosmico che aveva perfino classificato la natura delle anime. Per Agostino, tutte le anime erano uguali, poiché tutte erano immortali. Tutte le anime, inoltre, appartenevano a potenziali santi o peccatori e procedevano di conseguenza nel loro cammino verso il paradiso o l’inferno.

A noi moderni, il concetto di supplizio eterno, proposto da Agostino e altri, potrebbe sembrare lugubre e spietato, ma, se non altro, riconosceva come postulato in ogni essere umano qualcosa di indistruttibile da punire. L’immortalità non era «precaria e condizionata»72. Nessuna anima svaniva nel nulla per unirsi alla grande maggioranza degli spiriti senza gloria che non avevano un posto nella Via Lattea. Agostino sostenne una democrazia delle anime fino ad arrivare a difendere le tradizionali pratiche commemorative dei defunti e contrapporsi cosí alla nouvelle vague delle classi alte che puntavano alle sepolture accanto alle tombe dei santi. Il carattere senza pretese di tante tombe trovate sui pavimenti delle basiliche della provincia d’Africa e d’Italia dimostra che erano in molti a pensarla come il vescovo di Ippona. Era sufficiente essere stato un fidelis, un cristiano battezzato, per avere il privilegio di godere della vicinanza dell’Eucaristia sia in questa vita sia nella prossima (grazie alle offerte dei propri cari).

In questo modo, il dibattito cristiano sulla cura dei morti veniva ad appiattire impercettibilmente l’immagine antica del cosmo. L’immensa e solenne intelaiatura dell’universo non conosceva spazi privilegiati, segnati in base a una qualche topografia spirituale. Le anime non erano piú distribuite in tutto il cosmo secondo un asse verticale – in alto e in basso – nel rispetto di una qualche legge di «fisica morale», bensí secondo la loro conformità con la volontà di Dio. La sola gerarchia che manteneva importanza non era piú la grandiosa scalinata che saliva maestosamente dalla terra fino alla gloria delle stelle. Era, piuttosto, la gerarchia tripartita creata esclusivamente dall’uomo, la gerarchia costituita dai valde boni e dai valde mali, insieme con la sempre interessante «Via di Mezzo» dei non valde – coloro che non erano né «del tutto buoni» né «del tutto cattivi» – sui quali tanta energia intellettuale e azione rituale veniva profusa negli ambienti cristiani.

Si trattò di una rivoluzione silenziosa. Nessun pensatore ne fu responsabile in toto. La mutata visione immaginativa dell’universo portava tuttavia con sé un profondo spostamento di placche tettoniche nell’antica concezione del mondo. Con il VII secolo, le implicazioni di questa rivoluzione dell’immaginario furono chiare. Le visioni di Fursa e Baronto appartenevano ormai a un mondo che nessuno in tempi antichi – almeno nessuna persona che nell’antichità riconoscesse la rappresentazione collettiva e consensuale dell’universo diffusa negli ambienti colti – avrebbe riconosciuto. Non c’erano stelle. Al contrario, il viaggio di ciascuna anima era determinato unicamente dai suoi peccati e dai suoi meriti – due categorie che non comprendevano tuttavia (come spesso avveniva nel mondo antico) né orrendi misfatti né grandiosi atti di gloria. Le due categorie rientravano nell’umile conglomerato di una vita intera, costruita come una barriera corallina dai successivi depositi di pensieri e azioni, cosí complessi, cosí profondi e radicati negli eventi specifici di una determinata vita, che (come nel caso del povero Baronto) sfuggivano alla piena coscienza perfino di coloro che li avevano commessi. Tutto ciò implicava una visione della persona umana di straordinario «spessore», una visione promossa attraverso l’abbondanza di particolari associata alle nuove pratiche della confessione. Secondo le parole di Claude Carozzi, la Visio Baronti era «un primo abbozzo della consapevolezza dell’Io da parte dell’individuo dell’Europa occidentale»73.

A quell’epoca, le visioni del viaggio dell’anima si attribuivano principalmente a coloro che erano dediti alla vita protetta di monasteri e conventi. Per comprendere il lento declino della visione cosmica in un ambiente meno specializzato (benché comunque privilegiato), dovremmo rivolgerci alle nostre lapidi cristiane. Fino alla metà del VI secolo (e anche oltre, nel caso del Nord Italia), le epigrafi tombali della Gallia meridionale, della Spagna e dell’Italia del Mediterraneo conservarono un fiero linguaggio cosmico con cui esaltare le qualità dei buoni e dei grandi della terra. I vivi parlavano attraverso fiorite iscrizioni commemorative in cui si ribadiva che i morti riposavano al sicuro in un firmamento pieno di stelle, cosí come era stato per qualsiasi personaggio illustre della Roma pagana. Vescovi, sacerdoti, monaci, monache e laici: tutti avevano compiuto il loro viaggio verso l’empireo stellato. Rispetto alle raffinate iscrizioni del IV secolo, quelle lapidi di marmo erano spesso iscritte di frasi in un latino alquanto goffo, ma i loro messaggi evidenziavano un mondo ancora immerso nella tarda luce crepuscolare di una antichissima visione del mondo74.

Poi, nel corso di una generazione decisiva, le antiche lapidi caddero nel silenzio. Per un momento scomparvero gli epitaffi incisi. Allorché ripresero vita, offrivano una voce molto diversa. Non sentiamo piú la voce dei vivi che tesse lodi dei morti. Quella che invece sentiamo è una voce proveniente dalla tomba. A poco a poco, regione per regione (dall’Irlanda a Roma), cominciamo a sentire i morti che chiedono ai vivi di pregare per loro: oroit do, «una preghiera per» in irlandese; orate pro in latino75. Uno dei primi esempi appartiene al VII secolo e proviene dalla Settimania Gotica (su quello che oggi è il versante francese dei Pirenei). Rozzamente scolpito lungo la cornice di una grande pietra, decorata con tre grandi croci di protezione, è il morto stesso che ci parla: «In nome di Cristo, tutti gli uomini preghino per l’anima di Trasemir»76. Allorché il legame tra i vivi e i morti, costantemente cementato dai riti della Chiesa, divenne un cosmo a sé stante – causa di profonda inquietudine, argomento di visioni e oggetto di regolari preghiere e donazioni milionarie –, possiamo dire allora che nell’Europa occidentale, verso il 650 d.C., il mondo antico era veramente morto.