CAPITOLO I
1928
La prima volta si incontrarono sulla
banchina del porto di New York.
Il riflesso del sole sull’acqua gli impediva di guardare l’orizzonte costringendolo a socchiudere gli occhi; nella fessura sfocata si mescolavano sagome indistinte con il blu di cielo e mare. Non vedeva altro da un tempo che gli sembrava interminabile.
Un uomo sui cinquant’anni, con la pelle chiara e occhiali da vista rotondi, era morto proprio vicino a lui; sembrava addormentato, tanto che per un giorno intero nessuno se ne era accorto. Il corpo era stato gettato in mare senza lacrime; sul ponte di terza classe si sentiva l’odore della paura mischiato a quello dei vestiti sporchi.
Il sole era allo zenit il giorno in cui la parola America sbucò quasi dal nulla per poi dilagarsi in un attimo. Saltarono tutti in piedi, anche i più malconci, e incominciarono a sventolare fazzoletti e cappelli in direzione della statua della Libertà. Michele, invece, rimase seduto con le spalle poggiate a un fumaiolo arrugginito. Con gesti lenti, raccolse le poche cose che aveva con sé e attese che il mare davanti a lui si riducesse a una striscia innocua fra il piroscafo e la terraferma.
Arrivati alla foce del fiume Hudson, vennero fatti sbarcare sull’isola artificiale di Ellis Island. Uomini in divisa li indirizzarono verso un grande edificio in mattoncini rossi; divisi in file silenziose, entrarono in un immenso ambiente con il soffitto a volta. Un medico mezzo pelato, con un camice candido che lo faceva spiccare in mezzo alla folla maleodorante, gli controllò scrupolosamente le orecchie e i capelli. Lo guardò in faccia solo dopo aver battuto con un dito sbiancato dai disinfettanti i propri denti gialli nel segno di mostrargli i suoi. Un sorriso incredulo piegò le labbra del dottore che inclinò la testa rivolgendosi sottovoce al collega della fila a fianco per dirgli in inglese: «Ehi, oggi è sbarcato un cavallo di razza». Imitò il nitrito di un equino e rise mentre aggiungeva: «Diventerà un mulo nel giro di sei mesi».
L’uomo rise ancora, ma di risentimento: la Natura aveva regalato a un bifolco il viso più bello che avesse mai visto; se fosse stato una donna, l’avrebbe accolta al porto, si disse, e magari anche sposata, ma il bastardo che si trovava davanti agli occhi avrebbe solo voluto pestarlo di botte. Quasi lo spinse via.
Ad attendere quelli che ottenevano il visto c’era il traghetto per il New York Harbor e la città con i suoi grattacieli. Il cavallo di razza salpò stringendo il visto tra le mani.
Benedetta stava in piedi sulla banchina del porto. La ragazza, che stringeva fra le dita un mestolo di legno e un bicchiere di vetro, osservava l’imbarcazione immettersi nella baia con le spalle che sfioravano un container rosso; intorno a lei un grande fermento di marinai in divisa e di gabbiani famelici.
Poco distante, seduto su una lunga cima arrotolata, c’era suo fratello. Il giovane scrutava la scena con aria torva, facendo scorrere la vista dalla sorella al traghetto. Si accese una sigaretta senza filtro e aspirò con forza stringendo gli occhi fino a ridurli a due fessure; disse qualcosa tra sé e sé muovendo appena le labbra, ma Benedetta non gli prestò attenzione, inspirò l’odore del mare e ondeggiò fino a quando non sentì una scheggia di ferro ferirle la spalla e si spostò di un passo.
Il mare era illuminato dal tardo sole di ottobre e l’aria era ancora tiepida. I nuovi migranti, una volta posizionata la passerella, cominciarono a scendere. Procedevano tutti alternando lo sguardo dal corrimano ai grattacieli, la sorpresa li faceva rallentare e i marinai li sollecitavano a muoversi urlando in inglese.
Benedetta si piegò per prendere il secchio che aveva ai piedi e, con un grande sospiro, si avviò verso di loro. Cercò con gli occhi il fratello sapendo già che non l’avrebbe aiutata.
«Poi, per un mese, basta». Non lo pensò solamente, lo sussurrò sottovoce. La madre voleva che andassero tutti e due a offrire dell’acqua all’arrivo del piroscafo mensile dall’Italia: non aveva mai dimenticato i due ragazzini che l’avevano accolta così il giorno in cui era sbarcata tanti anni prima.
«Chi vuole dell’acqua?».
Lo disse in italiano anche se sapeva che la sua voce era troppo bassa perché qualcuno la sentisse. Le sue guance erano già diventate bordò. Appena quella maledetta acqua fosse finita, sarebbe potuta tornare a casa... Senza guardare nessuno in faccia, seguitava a riempire il bicchiere che le persone si passavano di mano in mano.
Un dito bussò sulla sua spalla. Alzò gli occhi.
«Hai del sangue... Lì, hai del sangue».
Qualcuno stava indicando un punto dietro di lei. Benedetta non mosse un muscolo. Gli occhi azzurri sì li aveva visti, e anche i capelli lunghi e neri. Dopo, quasi involontariamente, osservò rapidamente le spalle, la mascella marcata, la pelle liscia e scura, le labbra definite. Distolse lo sguardo come se stesse fissando qualcosa di illecito; non riuscì a rispondere. L’uomo fece ancora un vago segno con la mano verso la spalla dove il vestito si era tinto di rosso, poi proseguì via.
Benedetta rimase a capo chino fino a quando non fu sicura che fosse lontano, poi lo rialzò per cercarlo fra la gente. Era talmente alto che non le fu difficile individuarlo: si faceva largo fra le persone e le montagne di bagagli impilati un po’ ovunque, i capelli unti che splendevano al sole. Aveva con sé solo un grande sacco di tela sformato, indossava un paio di pantaloni marroni e una camicia che, forse un tempo bianca, portava i segni del viaggio, quasi fossero le tacche che i carcerati incidono sui muri delle prigioni. Lo seguì con gli occhi, sperando si girasse per poter rivedere il suo viso, fino a quando lo perse di vista.
Non aveva mai incontrato un uomo così. Si chiese cosa mai si potesse provare a essere guardate da uno come lui e subito dopo si vergognò del suo stesso pensiero.
«Allora? Finita?».
Giovanni si era avvicinato con le mani nelle tasche e la sigaretta fra le labbra.
«Sì».
«Andiamo».
Si avviò prendendo il secchio vuoto e Benedetta gli si accodò verso l’uscita del porto. La strada per tornare a casa era piuttosto lunga e, mentre si affrettava dietro di lui, non sapeva già più se avesse voglia o timore di rivedere quel ragazzo. Se fosse stata bella come Maria non avrebbe avuto paura. Sembrava che la vita si divertisse a ricordarle ogni momento quanto insignificante fosse.
Abitavano con la madre nella zona industriale di South Sea Port, un dormitorio per immigrati cresciuto rapidamente a causa dell’espansione industriale che in quegli anni aveva reso la città la più popolata del mondo. Le vie erano tutte un brulicare di persone, macchine, calessi, ambulanti e palazzi in costruzione; ovunque odore di cibo, cavalli e ferro rovente.
Roaring Twenties, i ruggenti anni Venti.
«Mi aspetti?» Benedetta gridò al fratello che era un paio di metri davanti a lei.
Lui sbuffò. Erano quasi arrivati quando la ragazza sentì delle voci alle sue spalle; non aveva bisogno di girarsi per sapere da chi provenissero. Erano suoni alti e striduli, per niente piacevoli, di quelli che vogliono attirare l’attenzione.
Si piegò fingendo di avere qualcosa nella scarpa, voleva che la superassero. Quattro paia di gambe lisce le passarono vicine.
«Ciao, Benedetta».
Carolina era stata sua compagna di banco per due anni. Da sempre grassa e famelica, ora che la moda voleva le ragazze magre e androgine, faceva una fatica enorme nel tentativo di camuffare le sue forme. Il nuovo Flapper Style non si addiceva a tutte.
«Ciao!» rispose fingendosi sorpresa. Ambedue rimasero un attimo in silenzio. I capelli di Carolina erano ondulati e lucenti, gli occhi truccati di nero. La fissava con una mano poggiata sul fianco tondo e Benedetta si accorse che in quel punto il vestito era stato leggermente allargato perché tirava.
La ragazza spostò la mano dalla vita e le fece un segno di saluto.
«Ci vediamo».
Insieme alle altre tre, la superò facendo tacchettare le scarpe al suo fianco. L’orlo di una sottana quasi le sfiorò la testa. Benedetta stava arrossendo e rimase con la faccia rivolta al suolo perché non lo vedessero. Quando furono oltre, le osservò ridacchiare coprendosi la bocca con la mano mentre lanciavano occhiate a suo fratello che le fissava apertamente con un mezzo sorriso.
Quelle ragazze non lavoravano tutto il giorno, non indossavano vestiti cuciti con le stoffe d’avanzo. Vagavano senza meta per la città come se fosse di loro proprietà con l’unico impegno di essere belle e trovarsi un marito. Benedetta le guardò allontanarsi con l’impressione che lo spazio curvasse intorno a loro. Il confronto con se stessa le venne spontaneo come respirare. Si drizzò lisciando la gonna con la mano che le tremava appena.
«Ho fatto».
Riprese a camminare più velocemente di prima.
L’appartamento in affitto di South Street Sea Port era piccolo e buio esattamente come quello di tutti gli altri operai. In cucina, proprio al centro, c’era un vecchio tavolo rettangolare di legno scuro intorno al quale si svolgevano le loro giornate. Buona parte dei suoi diciassette anni, Benedetta li aveva trascorsi lì.
La madre dormiva su una brandina in cucina mentre lei e il fratello condividevano l’unica stanza della casa. Nella loro camera c’erano due letti: uno di dimensioni regolari e un altro, più piccolo, a formare una “elle” con il primo. Il resto dello spazio era occupato da un armadio a due ante che conteneva i vestiti di tutta la famiglia. Anche volendo, sarebbe stato impossibile aggiungere o sostituire qualcosa. Aveva tredici anni quando si era domandata dove avrebbe dormito una volta che fosse cresciuta; se avesse potuto, sarebbe rimasta per sempre la ragazzina magra, pallida e senza forme, che era allora.
La madre manteneva i figli lavorando per lo stabilimento tessile di Triangle Shirtwaist Factory al Greenwich Village. Nel 1911 c’era stato un bruttissimo incendio in cui tante operaie avevano perso la vita; da allora lei e altre svolgevano le loro mansioni da casa e avevano continuato così anche quando era stato ricostruito un nuovo edificio dichiarato molto più sicuro del primo.
Veniva pagata in base a quanto prodotto perciò, da quando aveva smesso di giocare in strada, Benedetta l’aiutava. Per qualche anno aveva alternato il lavoro alla scuola ma poi, visto che il fratello non riusciva a trovare un impiego, era stata costretta a ritirarsi. Benedetta aveva dimenticato presto ciò che aveva imparato per scoprire invece cosa significasse lavorare a cottimo: quando non produci stai buttando del denaro perché più cuci e più guadagni; quando mangi, quando dormi e quando ti lavi, in realtà stai solo rubando del tempo all’attività che è diventata la padrona della tua vita, dei tuoi pensieri e della tua libertà. E per sua madre anche di qualcos’altro.
Portare acqua da bere al porto e la messa domenicale erano, per Benedetta, le principali occasioni per uscire di casa. Il fratello, invece, passava tutto il giorno in strada e c’era sempre qualcuno che veniva a cercarlo. Quando Benedetta sentiva bussare alla porta, arrossiva regolarmente. Andava ad aprire immaginando d’essere trasparente, sperando che Giovanni uscisse subito ed evitare lo sguardo estraneo su di sé; quando la porta si richiudeva alle loro spalle, ringraziava di avere una casa in cui poter fingere di non esistere.