CAPITOLO IV
Michele scese dalla passerella fissando i grattacieli di New York. Si fermò un momento a bere l’acqua che una ragazza stava offrendo a coloro che sbarcavano e poi si avviò con il sacco in spalla verso la Capitaneria di porto. I capelli corvini, così unti da splendere sotto il sole, ondeggiavano sugli occhi azzurri.
Cime, nasse, gabbiani sgraziati, valigie gonfie, immigrati con lo sguardo perso: in mezzo alla confusione del porto, la figura geometrica, lineare, di Michele, spiccava su tutto. Aveva il naso dritto come la mascella, come le spalle; sembrava disegnato con il righello. Anche il passo e i gesti erano precisi, quasi matematici. Sapeva di non passare inosservato ma la curiosità delle persone lo lasciava indifferente; la soggezione no, la soggezione che intuiva negli occhi degli altri. Era come se lo temessero istintivamente, persino i suoi genitori. Quando aveva comunicato che sarebbe partito, non si erano opposti e non gli avevano chiesto quale fosse il motivo della sua decisione. Da quando aveva smesso di essere solo un ragazzino, sembravano sempre preoccupati di non contraddirlo. Quando gli parlavano, abbassavano la tesa, tutti e due un po’ imbarazzati.
«Se questa è la tua decisione...» aveva detto il padre rosso in viso, proprio lui che, fino a pochi anni prima, si era limitato a ignorarlo, quasi come se non esistesse.
La madre l’aveva guardato con gli occhi lucidi e gli aveva chiesto se, in futuro, sarebbe tornato.
Il giorno della partenza, il genitore l’aveva salutato con una stretta di mano e poi, con lo sguardo a terra, gli aveva finalmente svelato quello che voleva dirgli già da tempo ma di cui non era stato fino ad allora capace. Era la sua ultima occasione e lo sapeva.
La madre gli aveva preparato una forma di pane, dei pomodori secchi e del formaggio. L’aveva abbracciato fra le lacrime e Michele, per un momento, aveva vacillato; quasi aveva sperato che si disperasse così da avere una scusa per rinunciare a quella follia. Ma lei si era trattenuta ingoiando il dolore e il ragazzo era partito portandosi dentro il fardello della sua terra sassosa. Sapeva di non avere scelta, ed era proprio questa consapevolezza che lo obbligava a scappare. Doveva andarsene il più lontano possibile e ricominciare tutto da capo cercando solo di dimenticare.
Quando arrivò in America aveva solo vent’anni che gli pesavano come fossero cento.
«Sto cercando lavoro, avete bisogno di qualcuno qua?».
Michele era entrato senza incertezze nella direzione generale del porto. Si mostrò sicuro di sé perché funzionava sempre. Un lavoro, si ripeteva ossessivamente nella testa.
Cercava di tenere i pensieri inchiodati al cranio per non sentire il peso dell’immensità del mare che lo separava dalla sua casa, dalla famiglia, dalla sua terra. Irreversibile, aveva fatto una scelta irreversibile.
Nei primi giorni di viaggio era stato cento volte sul punto di buttarsi in acqua per cercare di guadagnare la costa a nuoto e solo la consapevolezza dell’impossibilità dell’impresa lo aveva trattenuto. Le prime notti non aveva fatto altro che sognare il piroscafo che tornava al porto di partenza e, ogni mattina, chiedeva a qualcuno se veramente avesse virato.
Dopo un po’ si rassegnò all’ineluttabilità del viaggio. La nave decideva per tutti.
«Avete bisogno di qualcuno?».
Ripeté la domanda senza cambiare tono di voce, visto che non aveva ricevuto risposta. Un uomo con una divisa bianca e gradi dorati era intento a indicare qualcosa su una cartina nautica a un gruppo di marinai che, dritti e con il cappello sotto il braccio, lo ascoltavano vigili.
Si era rivolto direttamente a lui e quello si fermò a guardarlo in silenzio, mentre i marinai presenti sghignazzavano piano, forse prevedendo la replica. Ammutolirono sentendo, invece, la sua voce calma.
«Che cosa sai fare?».
Michele sentì le viscere squagliarsi udendo che l’uomo era italiano. Si sforzò di parlare senza accento.
«Tutto, e quello che non so lo imparo in fretta».
Un attimo di silenzio.
«Presentati qui domani alle 5.30 di mattina. Io sono il Capitano».
«Mi chiamo Michele Rizzo, italiano».
Si rese subito conto della totale inutilità della sua affermazione. Si sentì a disagio e assunse un’espressione quasi ostile. La pancia gli faceva male da cani.
«Allora, italiaaano,» il Capitano calcò sulla parola «quello che ti offro non è un lavoro per perditempo o signorine, sia chiaro. Potrai mangiare alla mensa, ma per l’alloggio ti devi arrangiare da solo».
«Sì, signore».
«Verrai pagato a ore come tutto il personale che non fa parte della Marina, naturalmente».
Michele annuì.
«Bene, allora siamo d’accordo, mi sembra. Domani vedremo i dettagli, ora ho da fare. Direi che puoi andare».
Il Capitano si sedette alla scrivania e cominciò a leggere un documento senza più alzare gli occhi dal foglio, lasciando i presenti incerti se uscire o attendere che tornasse alla cartina.
Michele ringraziò secco e, una volta fuori, si assicurò che non ci fosse nessuno in giro. Quando si piegò in avanti, si rese conto che non ce la faceva più. Schiacciò forte lo stomaco con tutte e due le braccia, aveva bisogno subito di una latrina. E poi di un posto dove passare la notte.
L’indomani si presentò alle 5.30 in punto, non prima. Aveva aspettato l’ultimo rintocco delle campane per entrare anche se aveva dormito su alcuni sacchi di granturco accatastati a pochi metri di distanza.
Il Capitano era lì ad attenderlo, non c’era nessun altro. Lo osservò qualche secondo con aria neutra.
«Devi lavare tutti gli uffici della Capitaneria. Spero farai un buon lavoro. Troverai ciò che ti serve nello sgabuzzino».
Michele annuì inclinando il capo e, volutamente, non domandò altro. Si avviò sentendosi leggero, quasi felice. Camminando, girò la testa verso l’ufficio. Si chiese quanti anni avesse l’uomo: i capelli erano completamente neri – nemmeno un filo bianco era riuscito a insinuarsi nella folta capigliatura – ma stridevano con la faccia tagliata da mille solchi che, a ogni espressione, curvavano e impennavano sul viso abbronzato. Forse sessanta, oppure cinquanta ma passati tutti in nave.
Raccolti gli stracci trovati nel ripostiglio, pulì tutto il giorno senza risparmiarsi e il successivo si occupò dell’esterno, senza mai lamentarsi né fare domande.
Il Capitano era un uomo silenzioso e molti marinai lo evitavano ostentatamente perché era italiano, così Michele passò il primo mese scambiando poche parole con tutti e dormendo su cataste di sacchi. Il trentesimo giorno ricevette il suo primo stipendio e decise che era giunto il momento di trovarsi una sistemazione. Per la prima volta, si allontanò dal porto; in un mese non aveva ancora visto altro. Si avventurò senza curiosità per le strade della metropoli chiedendosi dove trovare una camera in affitto. Le vie brulicavano di persone e c’erano tanti palazzi in costruzione. Camminava lentamente con la mano premuta sulla tasca dove teneva i soldi, girando continuamente la testa a destra e a sinistra. New York era talmente grande che i forestieri non venivano neanche notati. Ne fu quasi scioccato, non pensava esistessero città così. Sentì la paura ma anche il piacere di poggiare i piedi su quel selciato.
Dopo qualche tentativo, venne indirizzato verso un piccolo spaccio di Mulberry Street, la via principale di Little Italy.
La donnona italiana bassa e grassa che lo gestiva lo guardò a lungo con i suoi piccoli occhi porcini prima di rispondergli.
«Hai un lavoro?» domandò con voce quasi inquisitoria.
«Sì, giù al porto».
«Sei sposato?». Gli occhi le si trasformarono in due fessure.
«No».
«Quanti anni hai?».
«Venti».
«Di dove sei?».
«Vengo dalla Sicilia».
Ci fu una lunga pausa.
«Va bene, ti affitterò una camera, ma ricorda che ci sono delle regole da rispettare: la prima è che non voglio donne in casa per nessun motivo, le altre te le dirò questa sera insieme a mia figlia e a mio marito».
La sua voce sembrava quasi astiosa, ma Michele preferì non farci troppo caso. Incredulo per aver trovato così presto una sistemazione e felice di non doversi avventurare oltre, tornò di buon passo al porto; era tutto troppo diverso dalla sua terra e solo quel posto gli era divenuto familiare. Vedendo il Capitano, gli andò incontro eccitato, dimenticando la prudenza.
«Ho trovato un alloggio, e anche a buon mercato».
«Dove?». Il Capitano non cambiò espressione.
«Dalla proprietaria dello spaccio in fondo alla via principale di Little Italy».
Il volto dell’uomo si trasformò impercettibilmente e una specie di sorrisetto storto gli apparve sulla bocca.
«E hai già conosciuto la figlia?».
«No, perché?».
«Niente, solo per sapere».
Michele si concentrò sulla metamorfosi che quel semplice sorriso aveva operato sul volto del Capitano, le mille rughe che avevano preso vita soffocando gli occhi scuri. Un’emozione lo invase, se si fosse abbandonato all’impulso gli avrebbe baciato la mano nodosa.
Si piegò in un breve inchino di saluto e poi, senza dire nulla, si avviò verso il ripostiglio dove aveva lasciato il suo sacco.
Il Capitano rimase fermo a guardarlo con le labbra ancora piegate in quel mezzo sorriso.