CAPITOLO XI

Appoggiato alla ringhiera della nave, Michele guardava davanti a sé passandosi la mano sulla barba dura. Da quando era partito non l’aveva mai tagliata e ora gli copriva tutta la parte inferiore del viso. Gli occhi azzurri erano ancora più evidenti e, le rare volte che sorrideva, i suoi denti bianchi sembravano perle indonesiane. Anche se era dimagrito e trascurato, per gli altri marinai era impossibile non sentirsi quasi in imbarazzo davanti a lui. Lo guardavano curiosi e stupiti ringraziando che non andasse mai con loro nei bar frequentati da donne.

Michele non ci badava e pensava unicamente che fra qualche giorno quel viaggio sarebbe finito. Quattro settimane in mare gli erano sembrati quattro anni. Aspettava stancamente solo l’arrivo al porto di New York.

«Ciao, Michele». Il Capitano si era avvicinato trascinando i piedi per annunciarsi. «Cosa stai facendo?». Non riusciva a comprendere cosa fosse successo, dove avesse sbagliato: era partito sicuro di fargli un favore, di offrirgli un’opportunità e ora si domandava in cosa avesse infilato entrambi. Aveva avuto la presunzione di sapere cosa fosse meglio per il ragazzo, pensò. Ora non riusciva neanche a capire come gli fosse venuto in mente. Certo che, sicuramente, aveva immaginato uno scenario completamente diverso.

Durante il viaggio aveva tentato di parlargli, di spiegare e ogni volta si era chiesto cosa cavolo avesse messo in piedi. Non poteva farsi semplicemente gli affari suoi? Aveva immaginato Michele che lo ringraziava per avergli aperto gli occhi e si era lasciato fregare da quell’idea. Si ripromise che mai più avrebbe commesso una simile sciocchezza, anche perché, in qualche modo, una volta a New York avrebbe dovuto trovare il modo di recuperare. Stupido, si disse.

«Allora, sei contento di tornare a casa?». Avrebbe voluto che la sua voce fosse più disinvolta.

Michele si girò ostile. Il Capitano voltò subito la testa. «Mancano solo quattro giorni». Ora il suo tono appariva rassegnato.

Appoggiati al parapetto, con le spalle che quasi si sfioravano, non desideravano altro che separarsi l’uno dall’altro ma il Capitano sentiva che non poteva andarsene e basta. «Senti, Michele, se dovessi aver bisogno di qualcosa una volta arrivati a terra, denaro o alloggio, chessò, fammelo sapere».

«Ho già una casa» sibilò il giovane.

«Sì, certo» rispose stanco l’uomo.

Non sapevano ancora che di lì a poco il destino li avrebbe uniti come mai avrebbero immaginato.

Stava sognando di lottare con il fratello più grande, quando uno scricchiolio stridente lo svegliò. Michele aprì gli occhi di colpo con la sensazione che la testa gli girasse. Nella penombra, si drizzò sulla brandina: non poteva credere ai suoi occhi; forse stava ancora sognando. Era la prima volta che vedeva una nave oscillare in quel modo. E poi i cigolii. Non era un sogno. Sentì tutto il corpo irrigidirsi dalla paura.

La fine del topo pensò.

Saltò giù dal letto e i suoi piedi finirono nell’acqua. Fu travolto da un brivido di panico che non aveva mai provato prima. Doveva scappare. Intorno a lui non c’era nessuno, non si erano preoccupati di svegliarlo.

La nave si muoveva come una giostra senza controllo. Tenendosi alle cuccette con tutte e due le mani, andò a piedi nudi verso la porta. Fece gli stretti scalini due a due mentre le spalle gli urtavano sulle pareti. Quando arrivò all’altezza del ponte, abbassò con forza la maniglia della porta per uscire e un muro d’acqua lo investì in pieno sbattendolo sulla porta aperta. Mentre defluiva, ebbe l’impressione che gli si fosse attaccata alle gambe per trascinarlo con sé. Rimase ancorato all’impugnatura che l’aveva salvato.

«Aiuto!». Gridò senza pensare, come se sperasse che qualcuno potesse fare veramente qualcosa per lui. L’imbarcazione si impennò sotto i suoi piedi e lui mollò la presa mentre l’anta si richiudeva con uno schianto. Si attaccò al corrimano del ponte.

«Aiuto!» ripeté, ma piano, quasi solo a se stesso, mentre sentiva crescere la paura. Sarebbe morto così, pensò, avrebbe resistito fino a che poteva e poi avrebbe chiuso gli occhi e si sarebbe lasciato andare. Il mercantile si schiantò con un boato e di nuovo l’acqua lo investì. Si accorse che alcuni marinai con indosso dei salvagenti arancioni stavano tagliando le corde delle scialuppe mentre urlavano parole che, nel fragore, quasi non sentiva.

«Cosa devo fare?!» urlò Michele.

Un uomo lo sentì. «Buttati!» gli rispose mentre faceva scendere il coltello sulla fune che si spezzò lasciando crollare in mare una navicella bianca.

Buttarsi. Com’era possibile?

Guardò attonito il mare: nero, mostruoso. Non aveva mai visto niente di più terribile. Quell’acqua era peggio della morte stessa.

«Noo!» urlò ancora. Si girò, i marinai non c’erano più.

Perché non poteva morire lì, su quel ponte, perché? Non ce l’avrebbe mai fatta. Qualsiasi cosa fosse successa, non sarebbe riuscito a gettarsi in mare.

La nave stava di nuovo salendo, era quasi verticale. Michele urlava tenendosi con tutte e due le mani al corrimano. Il rumore del ferro era come un lamento straziante. Cominciò a piovere, con violenza. Lo schianto fu inimmaginabile. La prua del piroscafo rimase sott’acqua e, mano a mano, tutte le luci si spensero. Dalla sua posizione, vide alcuni uomini buttarsi nell’inferno sotto di loro.

Urlò senza mollare la presa. Sentì nettamente la nave che si inclinava in avanti sempre di più. Le orecchie gli rombavano. Voleva solo morire nel più breve tempo possibile, solo questo. Intorno a lui era tutto nero. Un lampo rischiarò per un momento l’apocalisse: la barca si stava inabissando. Non bastava chiudere gli occhi per morire, non poteva ordinare al suo corpo di arrendersi. Capì che quello che l’attendeva era qualcosa di violento e inaccettabile. La sua testa si svuotò, non pensò, non ordinò al suo corpo di muoversi, ma le sue braccia si staccarono e, dandosi una poderosa spinta, saltò fuori dall’imbarcazione.

Il contatto con l’acqua gelata lo risucchiò ancora di più in se stesso. Ormai era una minuscola essenza nascosta in un corpo divenuto un involucro esterno e quell’involucro rimaneva immobile mentre scendeva sempre di più verso l’abisso nel totale silenzio.

Fu l’essenza a ordinargli di muoversi e di riemergere. Ci volle, però, un po’ perché le braccia e le gambe obbedissero, fu necessario che riprendesse possesso di ogni muscolo, organo, arteria. L’aria stava per terminare. Michele cominciò a nuotare verso la superficie con tutte le sue forze. Stava per respirare l’acqua, non poteva più resistere senza ossigeno. Una volta riemerso si accorse che il silenzio era finito e al suo posto udiva solo il frastuono della tempesta. Aria. La testa sentì il freddo e i suoni e le frustate delle onde.

Avrebbe lottato, non si sarebbe arreso, voleva difendere la sua vita. Le luci della nave brillarono un’ultima volta prima che affondasse. Michele si mise a nuotare per allontanarsi il più possibile; il vortice lo trascinò verso il basso mentre l’acqua salata gli bruciava la trachea. E poi l’aria, nuovamente. Aveva vinto, per la seconda volta.

Si girò su se stesso: c’erano due scialuppe che andavano alla deriva in mezzo alle onde; non riuscì a vedere se ci fosse qualcuno dentro. Scorse tre marinai che galleggiavano nei salvagenti. Cominciò a dirigersi verso la barca che si allontanava sempre di più ma a ogni bracciata si rendeva conto che non l’avrebbe mai raggiunta: la sagoma bianca era più veloce di lui e stava sparendo nel buio della notte.

Seguitò a nuotare. Qualcosa gli sfiorò una gamba: una cima. Ci si attaccò e cominciò a tirare, era legata alla scialuppa. L’acqua gli entrava nelle narici e nella bocca ma lui seguitò a tirare finché non la raggiunse. Quando riuscì a entrare, vide che sul fondo c’era un ragazzo che lo guardò con gli occhi dilatati. Lo riconobbe: era il gigante irlandese che l’aveva avvisato del suo prossimo imbarco.

«Hai visto qualcun altro?» gli urlò l’italiano. L’altro non smise di fissarlo ma non rispose. Michele girò la testa verso il punto in cui la nave era affondata, strinse gli occhi per difenderli dalla pioggia e dalle onde. Un lampo illuminò la superficie del mare. Raccolse la cima e cominciò a urlare verso una testa che emergeva fra le onde.

«Prendila!» gridò prima di lanciarla nella sua direzione. Quando toccò l’acqua, però, non c’era più nessuno. La recuperò veloce girandosi in tutte le direzioni. Un’altra testa. Tirò di nuovo, una volta, due, tre e alla fine due mani l’afferrarono. Lo riconobbe quasi subito. Di tutti, proprio lui. In quel momento capì che lo stava cercando, fra tutti quegli uomini, era lui che voleva salvare.

Quando riaprì gli occhi la tempesta era passata e un volto incorniciato dalla tenue luce dell’alba lo stava guardando.

«Mi hai salvato».

Senza rispondere, Michele si drizzò sulla schiena. Sentì male a un polso: la mano era ancora annodata alla cima. La liberò sfiorando con le dita i lividi violacei.

«L’altra scialuppa?» chiese.

Il Capitano sospirò. «Non lo so».

Il mare era quasi calmo e intorno a loro solo cielo e acqua senza soluzione di continuità. Il ragazzo irlandese giaceva in un angolo dandogli le spalle.

«Non vuole parlare» disse piano il Capitano. «È sotto shock». Poi proseguì a voce più alta: «Abbiamo cioccolata, lattine d’acqua, un coltello, lenze e lanciarazzi. Non eravamo troppo distanti dalla costa, anche se adesso stiamo andando alla deriva in direzione nord-est da diverse ore. Prima di affondare abbiamo lanciato il may-day con la nostra posizione. I soccorsi saranno già partiti».

Michele annuì.

Quando il sole cominciò a picchiare, tagliarono tre lembi dall’incerata per ricavarne dei cappelli. L’irlandese non volle indossarlo, così come rifiutò il pezzo di cioccolato, e si limitò ad accettare un sorso d’acqua. «Moriremo» disse tra i denti dopo aver bevuto. Poi si raggomitolò nuovamente nel suo angolo e non proferì più parola.

Rimasero quasi sempre in silenzio. Solo Michele e il Capitano si scambiarono qualche idea su come razionare l’acqua e la cioccolata. Conclusero che potevano sopravvivere per due settimane.

Al tramonto arrivò il freddo e coprirono metà scialuppa con il telo cerato invitando il ragazzo a spostarsi lì sotto con loro. Passarono la notte attaccati l’uno all’altro cercando di trattenere il calore dei corpi.

Il giorno successivo trascorse uguale al primo. La sagoma di uno squalo passò sotto lo scafo urtandolo leggermente. Verso sera, il marinaio cominciò a farfugliare frasi incomprensibili.

«Michele,» il Capitano si era avvicinato e gli stringeva un braccio «il corpo può resistere, è la mente che dobbiamo salvare. Altrimenti non si sopravvive».

«Non ha mangiato niente?» chiese lui avvertendo la secchezza delle fauci.

«No, niente».

Bevvero un sorso d’acqua e poi si rintanarono sotto l’incerata.

Il terzo giorno il sole picchiava implacabile sulle loro teste. La vista gli si era annebbiata e sui loro corpi cominciavano a essere visibili i segni della disidratazione.

«Ti ho mai parlato di mia moglie?».

Era circa mezzogiorno. Michele scosse la testa lasciando gli occhi chiusi.

«Si chiama Lidia. È inglese. È un naso, crea profumi. Ci siamo conosciuti nel Surrey, nella tenuta della sua famiglia; allora ero ufficiale e la Marina Mercantile Americana voleva trovare nuovi sbocchi commerciali in Inghilterra. In una settimana abbiamo scambiato pochissime parole ma ci siamo scritti decine di biglietti. Decine. Ci siamo innamorati così. Al momento di ripartire le ho chiesto di sposarmi e lei ha risposto di sì. Quando l’ha detto ai genitori, però... Non si erano accorti di niente. Le hanno chiesto se non fosse impazzita e lei, la sera stessa, è scappata con me. Ha lasciato una lettera e ha abbandonato la sua famiglia per seguirmi. Non l’ha più visti.

«... Abbiamo tentato per anni di avere figli e non sai quante volte mi sono chiesto cosa avrei fatto se mia figlia si fosse comportata con noi come lei aveva fatto con i suoi. Forse è per questo che non ne abbiamo avuti, è la nostra punizione».

Il Capitano voltò la testa e vide che Michele lo stava guardando, la pelle livida sotto l’abbronzatura. «Michele, perché hai lasciato l’Italia?».

Il ragazzo aprì la bocca e le labbra gonfie e spaccate gli fecero fare una smorfia di dolore. «Perché mi ha fatto imbarcare, Capitano?».

«Sì...» l’uomo scosse la testa, dolente. «Mi dispiace, è tutta colpa mia. Mi dispiace».

Il giovane italiano poggiò la testa sul bordo della scialuppa. «Lei crede veramente che ci troveranno?».

«Non lo so» fece una pausa. «Tra qualche giorno interromperanno le ricerche».

«Sì...». Michele chiuse di nuovo gli occhi.

Il quarto giorno vennero svegliati da un suono, quasi una nenia. L’irlandese era steso sul fondo dell’imbarcazione, completamente nudo. Dei suoi vestiti non c’era traccia, doveva averli buttati in mare. Era grigio dal freddo e stava delirando. Con i movimenti rallentati dalla disidratazione, Michele e il Capitano presero l’incerata e ce lo avvolsero dentro. Il ragazzo non reagì. Il Capitano gli aprì la bocca e l’obbligò a bere, poi gli mise un quadretto di cioccolata sulla lingua ma l’altro la sputò seguitando a biascicare.

Ogni movimento costava una fatica eccezionale e ben presto Michele e il Capitano furono esausti. Si lasciarono andare anche loro sul fondo della scialuppa e si addormentarono. Quando si svegliarono non c’era più traccia del telo. Si guardarono con sgomento. Il marinaio tremava e aveva la bava alla bocca.

Il quinto giorno tentarono nuovamente di nutrire il marinaio che sembrava quasi essersi ridotto nelle dimensioni. Non era più il ragazzone energico che conoscevano: ora era piccolo e magro, pareva un’altra persona. Sprecarono molte delle loro energie per fargli bere un sorso d’acqua.

«Quello che mi è mancato più di tutto in America è la cucina di mia madre». Michele aveva parlato lasciando lo sguardo dritto davanti a sé. Il sole stava quasi per tramontare, il mare seguitava a essere calmo. «La sua pasta con le melanzane... Lei non può neanche immaginare la bontà della pasta con le melanzane di mia madre. Bastava che gliela chiedessi e lei la preparava. Quando entravo in cucina e sentivo il profumo del sugo...» si interruppe. «Perché qui non ci sono odori? Anche noi, non abbiamo nessun odore. Eppure dovremmo puzzare». Poi guardò l’irlandese e aggiunse: «Anche lui, sta morendo, no? Dovrebbe puzzare invece io non sento niente».

Il sesto giorno Michele si accorse quanto il volto del Capitano fosse cambiato: le guance gli rientravano sotto gli zigomi creando due fosse e aveva le labbra sempre più gonfie e spaccate.

«Mamma mia quanto è diventato brutto!». Michele rise sentendo le labbra tirare e fargli male.

Il Capitano lo guardò e rise a sua volta. «Perché non hai visto la tua faccia! Ora non ti vorrebbe neanche la figlia della droghiera!».

Il ragazzo s’incupì e il volto dell’uomo tornò subito serio. Fu solo un attimo perché poi Michele si mise a ridere piano tenendo una mano sulla bocca per il dolore.

Rise anche il Capitano, sentendo il corpo dolergli ovunque per lo sforzo.

«Capitano,» proseguì il ragazzo «Violetta è stata la prima donna che è riuscita a svegliarlo» e con un dito si indicava in mezzo alle gambe. «Non voglio morire senza che nessuno lo sappia».

Rimasero in silenzio diversi minuti. Dieci o quindici, forse.

«È per questo che me ne sono andato dall’Italia».

«Dici sul serio? Hai lasciato l’Italia per questo?».

«Sì».

Il Capitano sogghignò. «Allora sei più stupido di quanto credessi». L’uomo allungò il braccio e prese un barattolo. «Con la nostra penultima lattina, direi di brindare alla stupidità» disse.

Le notti, senza l’incerata, erano diventate un incubo.

Ogni mattina controllavano se l’irlandese fosse morto ma quello resisteva. Gli davano un po’ d’acqua, gli cacciavano in bocca un pezzo di cioccolata, e poi lo ignoravano per il resto della giornata. Michele e il Capitano, oramai ridotti a pelle e ossa, passavano le ore dormendo oppure parlando di cibo.

Trascorsero nove giorni, nove lunghi giorni di bonaccia. L’acqua e il cioccolato erano finiti. Poi, una sera, arrivò la tempesta. Il mare era ancora liscio come una tavola quando delle nubi nere si ammassarono all’orizzonte. Si alzò il vento. Cominciarono a tremare dal freddo. Il marinaio, incredibilmente, era ancora vivo anche se respirava appena. Il suo corpo scheletrico, esposto al sole di giorno e al freddo la notte, aveva assunto un colore grigio scuro raccapricciante.

Le nubi li raggiunsero in pochi minuti, e in pochi minuti il mare si trasformò in un inferno dantesco. La pioggia arrivava di traverso e loro, tenendosi forte alle cinghie della scialuppa, spalancarono la bocca cercando di incamerarne più possibile.

Il buio scese rapidissimo. Sembrava che il mare avesse deciso di dispiegare tutte le sue forze per distruggere la piccola imbarcazione. Saltavano e oscillavano. Poco dopo, non c’era più traccia dell’irlandese. Si era come smaterializzato, era scomparso in un attimo. Michele e il Capitano si guardarono per una frazione di secondo.

Fu lunga, la burrasca. E tragica. Quello che videro dentro di loro non lo avrebbero dimenticato mai più.

Solo in seguito scoprirono che un’altra imbarcazione li aveva ritrovati due giorni dopo l’inizio della tempesta. Michele e il Capitano, che avevano perso del tutto la cognizione del tempo e la speranza, erano rimasti sul fondo della scialuppa senza muoversi e lottare. In tutto, erano andati alla deriva per undici giorni e si erano salvati solo grazie alla bufera che li aveva spinti verso le rotte commerciali. L’uomo che li aveva raccolti per trasferirli sulla sua barca disse che erano senza peso, leggeri come uccelli. Vennero ricoverati a Boston e rimasero una settimana in ospedale. Lidia arrivò il giorno stesso.

Era mattina presto e l’aria fredda di febbraio lo fece rabbrividire. Il porto era sempre lo stesso, con la stessa gente e lo stesso sudiciume. Michele chiuse gli occhi, poi li riaprì; di nuovo li chiuse e ancora li riaprì.

Cento volte aveva sognato il momento in cui sarebbero tornati e ogni volta era stato diverso. Ora vedeva il porto avvicinarsi e, man mano, sentiva la testa svuotarsi sempre di più. Il molo, la baracca bianca della Capitaneria, le grandi cime arrotolate lungo la banchina, i gabbiani: gli parve di vivere di nuovo il primo sbarco, quello dell’arrivo dall’Italia, quello dopo il viaggio che – allora – aveva creduto il più duro della sua vita. Aveva già recuperato parte del peso perduto ma si sentiva ancora stanco. Una spossatezza invincibile lo costrinse a sedersi in terra. Sfregò la faccia con le mani ruvide mentre i gabbiani urlavano sopra la sua testa. Lo stridio dei loro versi gli pareva una ninna nanna; si ricordò delle canzoni in dialetto che la madre gli cantava per farlo addormentare quando era piccolo.

Quando le operazioni di sbarco furono finite, il Capitano lo avvicinò e si lasciò cadere al suo fianco. «Verrai con noi, vero?».

Michele fece segno di sì con la testa senza parlare. Rimasero immobili. Il sole stava calando e, ambedue, sentirono di non avere alcuna impazienza di scendere. Fu Michele il primo ad alzarsi. Fece qualche passo lasciando scorrere la mano sulla ringhiera incrostata di sale. Si fermò a fissare la scaletta che avrebbe dovuto percorrere per andare a terra. Si girò e tornò indietro. «Andiamo» disse al Capitano allungandogli una mano.

In macchina, arrivarono in una zona residenziale molto curata. L’area di Houston Street era un insieme di casette basse con piccoli giardini davanti, villini allineati lungo le vie come linde educande. Quello del Capitano aveva il portoncino marrone.

Scendendo dall’auto Michele respirò profondamente, a occhi chiusi, lasciando che l’aria gli ripulisse la faccia. Lidia si avviò con le chiavi di casa in mano.

Una donna con una bambina per mano cambiò marciapiede per non passare di fianco a loro. Anche se aveva fatto la barba, aveva ancora un aspetto malconcio, le guance ancora scavate. Un senso di angoscia gli venne su come un conato di vomito. Gli avevano detto che era normale, che dopo un’esperienza simile ci voleva parecchio tempo per riabituarsi alla realtà. Il Capitano gli mise una mano sulla spalla. Michele non se ne era accorto, ma era rimasto fermo dietro di lui.

Si avviarono insieme alla porta. Entrando, il giovane passò tutte e due le mani sui capelli e sistemò il colletto della camicia che gli avevano dato in ospedale. Non sapeva perché fosse lì ma non riusciva a pensare a niente di diverso. Si mise una mano sul petto senza accorgersene, non riusciva proprio a pensare.

«Prego». La voce della donna arrivò dritta dalla realtà: gli stava indicando il divano nel soggiorno.

Si mise a sedere con le spalle curve e Lidia stette in piedi davanti a lui. «Aldo...» chiamò piano la moglie.

«Sì» disse il Capitano.

Michele deglutì a fatica e la fissò come la vedesse per la prima volta: Lidia aveva i capelli biondi raccolti sulla nuca e la pelle liscia, gli occhi grandi e chiari. Lei si voltò e si diresse verso la cucina per prendergli un bicchiere d’acqua.

«Vuoi vedere la tua camera?». La voce del marinaio era impastata come se stesse per piangere.

«Grazie» rispose Michele prendendo il bicchiere che Lidia gli porgeva. Bevve prima un piccolo sorso e poi l’intero contenuto. L’acqua, fortunatamente, prese la strada giusta. Si girò verso la finestra chiedendosi se ci fosse qualcosa di giusto da dire ma non gli venne in mente nulla.

«Vieni, allora» si inserì la moglie. «Ti faccio vedere la tua stanza».

Dal soggiorno partivano le scale che portavano al piano di sopra. Michele camminava dietro alla donna e i suoi occhi si soffermarono sul suo sedere, sui fianchi morbidi che ondeggiavano davanti a lui mentre salivano.

La camera aveva una finestra che dava sul giardino nel retro. Michele percorse lentamente lo spazio fino a raggiungerla e guardò fuori. Sentiva le gambe pesanti e ogni movimento gli costava fatica ma osservò con piacere un rettangolo di prato attraversato da piccoli viottoli e circondato da rose bianche.

Sulla parete di fronte c’era un letto matrimoniale con una sopraccoperta rossa. Lidia si mise a sedere. «Ti piace?».

«Sì, grazie».

«Ti lascio solo così puoi riposarti. Il bagno è dopo la tua camera. Scendi pure quando vuoi. Fa’ come se fossi a casa tua, Michele». Senza aspettare risposta, richiuse la porta alle sue spalle.

Al tramonto, Michele scese le scale per andare al piano di sotto. Aveva passato tutto il tempo steso sul letto. Arrivò in cucina e trovò il Capitano seduto su una sedia. Era ancora molto magro. Lidia cucinava. Al suo ingresso si voltarono. Gli occhi dell’uomo si inumidirono guardandolo.

«Siamo a casa, Michele».

«Non voglio essere di disturbo, Capitano».

«Non potresti mai esserlo».

La donna passò una mano leggera sulla spalla curva di Michele. «Vieni, è pronta la cena».

Michele si trasferì in quella casa e, nonostante i rapporti con ambedue si facessero di giorno in giorno più intimi, non fece mai più accenno a Violetta dopo quello che aveva confidato sulla scialuppa al Capitano.

Quando Aldo non era in casa, il ragazzo si fermava a parlare con Lidia. Discorrevano per ore, quella donna gli piaceva.

Lidia era la proprietaria di una profumeria dove creava profumi molto ricercati in quegli anni. Lavorava fino a sfinirsi ma non cercava aiuti, non voleva che qualcuno venisse a conoscenza delle sue formule. Aveva imparato a utilizzare le aldeidi, spiegò a Michele, atomi di carbonio che rendono le essenze persistenti e quasi metalliche.

In particolare, c’era un profumo che, da solo, ripagava tutte le spese dell’attività. Si chiamava Habanita e lo aveva realizzato partendo da una sostanza utilizzata per aromatizzare le sigarette. Era un processo lungo e non sempre facile ma, alla fine, aveva realizzato un profumo che faceva impazzire le donne.

Avrebbe preferito morire piuttosto che farsi rubare i segreti delle sue creazioni. L’unica persona con cui avrebbe condiviso tutto era Coco Chanel: la adorava e sosteneva che il suo Chanel N 5, uscito nel 1921, tre anni prima di Habanita, fosse il miglior profumo mai creato. Presentandolo, Coco aveva dichiarato che le signore dovevano profumare come donne e non come rose. Chanel era la sua icona e il suo riferimento di stile anche se, essendo di forme più morbide, non poteva seguirla nell’abbigliamento. Allo stile alla garçonne, o flapper style, come lo chiamavano in America, aveva rinunciato ma solo perché si sentiva troppo vecchia per le diete. Michele non aveva avuto il coraggio di chiederle quanti anni avesse.

Lidia faceva il pane in casa la domenica e cucinava una minestra tutte le sere.

Michele imparò presto a muoversi in quella villetta esattamente come faceva Aldo: girando anche lui come un satellite intorno a lei.

In casa la donna aveva uno studio dove si portava il lavoro dal laboratorio e vi trascorreva parecchie ore al giorno. Una volta ne uscì fuori con un libro per Michele, gli chiese se sapeva leggere e lui rispose di sì.

«Si intitola Pinocchio, l’ha scritto un italiano. È la storia di un pezzo di legno che si trasforma in bambino. Un uomo in Italia ha detto che il legno in cui è intagliato Pinocchio è l’umanità e io sono d’accordo con lui. Leggilo. Sono sicura che ti piacerà».

Michele non si separò mai più da quel volume. Pinocchio, più di qualsiasi altra cosa, gli diede il senso di tutto quello che gli era successo.