CAPITOLO XII

Mulberry Street era affollata di persone che si accalcavano sui marciapiedi e camion carichi di patate erano parcheggiati lungo tutto un lato della strada.

Michele procedeva fra i venditori che urlavano e la gente ammassata intorno. Dappertutto un frastuono assordante. Era tanto che non percorreva quella strada ma non era cambiato niente se non la temperatura: l’ultima volta che era stato lì il fiato si trasformava subito in vapore.

Erano trascorsi più di tre mesi dal suo ritorno e già da due settimane aveva ripreso il lavoro al porto. Era il maggio del 1929.

Aldo gli aveva detto che la famiglia di Violetta era stata subito informata del loro ritrovamento ma fino a quel momento Michele non aveva trovato il coraggio di ripresentarsi. Giunto di fronte alla loro casa, bussò alla porta. Sembrava fosse passato un secolo.

«Ah, sei tornato». Gli occhi della signora erano due sassi. «Ci hai messo un po’ per farti rivedere. Ti ho preparato il sacco con la tua roba. Sei fortunato che te l’ho tenuta. Aspetta che te lo vado a prendere. Ah, e c’è anche la tua cartolina». Si girò dirigendosi verso lo sgabuzzino in fondo al corridoio. Aveva i capelli tirati indietro e le guance non erano floride come le ricordava. Anche i fianchi si erano ridotti, la gonna nera le scivolava floscia sulle gambe.

«E Violetta?». La voce di Michele uscì bassa, ma lei lo udì ugualmente.

Si voltò con uno sguardo feroce sul viso. «Mi dispiace, ma mia figlia non vuole più vederti. Dimenticala».

La porta si richiuse alle spalle della donna e lui rimase lì, incapace di reagire, con la sacca aperta ai suoi piedi da cui era scivolata fuori una vecchia scarpa.

Sentiva il bisogno di rivederla ma non aveva la forza per insistere.

Si sforzò di ricordare i suoi occhi a mezzaluna ma il volto rotondo gli riapparve con contorni indefiniti. Guardò ancora per un po’ la porta chiusa poi, abbattuto, si girò per tornare nella sua nuova casa.

Si svegliò di soprassalto: il marinaio irlandese, nudo e ridotto a un mucchietto d’ossa, gli chiedeva di aiutarlo allungando le braccia verso di lui. L’avevano lasciato morire e lui si vendicava tornando nei suoi incubi. Non aveva il coraggio di chiedere al Capitano se visitasse anche le sue notti.

Si mise seduto passandosi le mani tra i capelli bagnati di sudore. Solo un lieve bagliore di luce proveniva dalla finestra aperta, non era neanche l’alba. Scese dal letto e infilò un paio di pantaloni e una camicia.

Quando uscì in strada aveva cominciato a rischiarare, il Capitano e Lidia si sarebbero svegliati a momenti. Aveva lasciato un biglietto in cucina dove avvisava che doveva fare una cosa e che non sarebbe andato a lavorare. Aldo non l’avrebbe presa bene.

Quando arrivò nella zona di Little Italy la trovò già in pieno movimento. Gente mattiniera. Giunto di fronte all’abitazione di Violetta, si mise sul lato opposto della strada, di fianco al fruttivendolo ancora chiuso dove Violetta andava spesso a fare la spesa.

Dopo mezz’ora ne uscì la proprietaria. «Tu sei il naufrago» lo appellò senza giri di parole. Non era neanche una domanda.

Conosceva quella donna. Nel quartiere la chiamavano la vedova anche se in realtà non era mai stata sposata. Aveva le gambe corte e tozze e il busto squadrato, ma si muoveva veloce tra le cassette che spostava con le mani brune e callose, sempre venate di terra. Possedeva occhi piccoli e attenti, nessuno avrebbe potuto sottrarre neanche un chicco d’uva senza che lei se ne accorgesse. Nel quartiere dicevano che era tirchia e che nascondeva tutti i soldi in casa.

La storia della vedovanza se l’era inventata lei: aveva cominciato a vestirsi di nero e a riferirsi nostalgicamente a un felice passato lontano, probabilmente per giustificare la totale assenza di un qualunque spasimante.

«Buongiorno». Michele le si rivolse con cortesia sperando di intavolare una qualche conversazione con lei.

La donna fece un gesto con la testa mentre buttava una cesta di patate a terra fuori dalla porta d’ingresso. Il ragazzo si spostò per evitare che gli finisse sul piede. Lo stava allontanando dal suo territorio, l’aveva capito.

«Ha visto Violetta?». Considerata la situazione, decise di andare subito al sodo.

La vedova sbuffò alzando un contenitore pieno di foglie verdi. Non rispose subito e lasciò che il suo silenzio diventasse evidente. «Tu vuoi impicciarti di affari che non ti riguardano».

«Voglio solo vedere Violetta» affermò con voce seria e profonda.

«Io nun ne saccè niente. E ora vattene, che c’ho da lavorà» ribatté in dialetto sparendo all’interno della bottega.

Michele la seguì. «Ma lei l’ha vista?».

La donna si girò e lo guardò con espressione minacciosa. «Ti ho detto di andartene». Parlò scandendo le parole e puntandogli il dito tozzo contro.

Michele rimase talmente sorpreso che se ne andò senza fare più domande. Si spostò di qualche metro ma era deciso a rimanere. Cacciò le mani in tasca e fissò gli occhi sul portone di casa di Violetta. La madre della ragazza ne uscì alle sette e si infilò direttamente nel suo negozio. Non alzò neanche il capo da terra.

Verso le dieci del mattino Michele percorse più volte su e giù il marciapiede per sgranchire un po’ le gambe. La strada era affollata ma lui faceva attenzione a non perdere di vista il portone di Violetta. Fece lo stesso verso le undici e di nuovo un’ora dopo. Decise che avrebbe continuato così: una breve passeggiata ogni ora e attesa a oltranza.

Al tramonto la madre di Violetta chiuse la sua rivendita e si avviò verso l’ingresso di casa a pochi metri. Prima di rientrare si fermò e si voltò piano verso di lui. Si fissarono per qualche secondo, poi lei si rigirò di scatto.

Michele tornò alla villetta del Capitano quando l’ora di cena era già passata. Lidia gli aveva lasciato un piatto sul tavolo con qualcosa da mangiare.

Aldo lo raggiunse in cucina. «Dove sei stato?».

«Voglio parlare con Violetta» rispose Michele masticando. Si era accorto solo allora di non aver mangiato niente per tutto il giorno.

«E ci sei riuscito?».

«Ancora no. Domani voglio tornare lì,» proseguì «devo parlarle».

L’uomo annuì con un cenno della testa senza aggiungere altro.

Il mattino seguente Michele uscì di nuovo prima che spuntasse l’alba. Questa volta scelse un punto più distante dalla fruttivendola. La vide aprire la bottega e rivolgergli un’occhiataccia. Michele rispose stringendo gli occhi e indurendo i lineamenti.

Circa un’ora dopo uscì di casa anche la madre di Violetta. Quando si accorse che era ancora lì si fermò un attimo, poi distolse lo sguardo e proseguì nelle sue faccende apparentemente dimentica di lui.

Nel pomeriggio vide il padre di Violetta rientrare a piedi. Sembrava ancora più magro, stanco e vecchio. Portava una cartella di cuoio a mano che lo faceva pendere tutto da una parte. Si domandò da dove venisse dato che non l’aveva visto uscire.

Senza pensarci troppo, Michele attraversò la strada e lo fermò prima che arrivasse davanti al negozio della moglie. Si fissarono un istante senza dirsi niente. L’uomo sembrava sorpreso e quasi spaventato, sospirò e fece per superarlo ma Michele lo bloccò per un braccio. Sentì le sue dita affondare nella stoffa e arrivare al braccio scheletrico. Rabbrividì. L’anziano guardò la mano serrata sulla sua giacca sgualcita, con una mano scostò il braccio di Michele e proseguì verso casa. Michele rimase fermo senza trovare la forza di dire qualcosa o fare altro. Aveva avuto la sensazione di aver stretto qualcosa di morto.

Sentì un rumore sopra la sua testa e alzò gli occhi: una persiana era stata chiusa rumorosamente. Era quella sopra l’appartamento di Violetta. Dalla sua pancia arrivò un rumore cavernoso. Guardò l’ora. Era ora di rientrare.

Il giorno successivo era nuovamente lì. E anche quello dopo. Di Violetta, però, neanche l’ombra. Non era possibile che non uscisse mai di casa.

Il quarto giorno si procurò una cassetta della frutta vuota e si mise seduto poggiando le spalle al muro. Qualcuno aveva preso l’abitudine di salutarlo con un cenno, come se si fosse abituato alla sua presenza e oramai la desse per scontata.

Era quasi l’imbrunire del quarto giorno e stava già pensando di tornare a casa quando accadde qualcosa.

Seduto sulla sua cassetta, aveva chiuso gli occhi poggiando la testa sul muro dietro di lui. Aveva caldo. Si era portato del pane che, però, aveva mangiato troppo presto e ora aveva fame. Posò le mani sullo stomaco pensando che era lì da giorni senza fare niente. Chissà cosa pensava di lui la gente.

Quando riaprì gli occhi non mosse la testa e il suo sguardo rimase rivolto verso l’alto, in direzione del palazzo di Violetta. Scattò in piedi e fece per muoversi ma subito dopo si fermò e si rimise giù come se stesse obbedendo a un ordine: una donna anziana gli aveva fatto cenno da una finestra dell’appartamento sopra quello della ragazza ma, appena lui era scattato, gli aveva intimato con una mano di fermarsi e di rimettersi seduto.

Dopo aver controllato per bene la via sotto di lei, la signora gli fece nuovamente segno di raggiungerla. Michele, simulando i quattro passi che faceva a ogni ora, si mosse lungo il marciapiede con le mani in tasca e la faccia annoiata. Sentiva il cuore battere accelerato. Camminò qualche metro, poi attraversò la strada. Con passo indifferente e ciondolante si avvicinò al portone d’ingresso del palazzo. Si fermò e si guardò intorno: era il momento. Entrò furtivo e percorse quasi correndo i due piani che lo separavano dalla donna. Lei era già sulla porta, con le gambe scoperte tutte spellate e le pantofole bucate sull’alluce. Aveva i capelli bianchi arruffati sulla testa e la pelle sembrava cera liquida. Michele le si arrestò davanti. Visto che quella non parlava, fece un passo indietro cominciando a pensare che forse si era illuso.

Invece lei gli disse: «Vieni» e lo invitò a entrare nel suo appartamento che era una specie di deposito di oggetti di ogni tipo. Sempre più perplesso, il ragazzo si fece largo fra scatole, mobili e cianfrusaglie, posati ovunque a casaccio, fino a una sedia vicino a un tavolo ingombro che la signora gli stava indicando. C’era un odore sgradevole di spazzatura.

«Ho una cosa per te». Fece una pausa e rimase ferma come se volesse fare mente locale su dove avesse messo questa cosa. Cominciò a rovistare un po’, ma così, alla cieca.

Michele si girò verso la porta di ingresso.

«Sai, non ero sicura che fossi proprio tu la persona giusta».

«In che senso?». Il giovane si era fatto di nuovo attento.

«Sì, che fossi tu quello a cui dovevo darlo».

«Dare cosa?».

Violetta, pensò pieno di speranza.

«È venuta una mattina...» la donna parlava seguitando a spostare oggetti e ad aprire cassetti «è venuta e mi ha detto che se un uomo veniva a chiedere di lei dovevo dargli questo. Io le ho domandato come avrei fatto a riconoscerlo e lei ha risposto è bellissimo». Si arrestò come se stesse rivedendo la scena nella sua testa, poi si girò verso di lui e proseguì: «Ho accettato perché ero curiosa, ma non mi sembri questa gran bellezza». Ridacchiò e poi ricominciò a frugare in giro. «Eccolo! Finalmente l’ho trovato».

Michele balzò in piedi calciando una scatola per cercare di raggiungerla. La donna aveva un foglio stropicciato tra le mani e glielo consegnò borbottando qualcosa sul fatto che lui non l’aveva ancora ringraziata.

Suore benedettine di Boston

La calligrafia era incerta e frettolosa. Era di Violetta, ne era sicuro.

«Quando gliel’ha dato?». Michele quasi urlò.

«Un grazie potrebbe andare bene». L’anziana aveva incrociato le braccia sul petto girando la faccia in una posa da ragazzina offesa che strideva con l’abito grigio scolorito e i suoi capelli bianchi e scomposti.

«Grazie, grazie mille. Potrebbe essere così cortese da dirmi quando le ha dato questo biglietto? È stata Violetta, vero?». Michele combatteva contro l’impulso di scrollarla per le spalle.

«Mmmm... Mi viene voglia di non dirti proprio niente».

Si sentì gelare: quella vecchia pazza era la sua unica possibilità. «Ha ragione, scusi. Sono stato sgarbato e me ne dispiace. Lei è molto gentile, davvero, a fare tutto questo. Io vorrei solo sapere quando gliel’ha dato. Eh? Quando?».

La donna finse di pensarci. «Be’, non ricordo benissimo...».

Michele giunse le mani in segno di preghiera. Lei lo guardò compiaciuta dal suo servilismo e si grattò la testa come se volesse concentrarsi meglio. «Sì, ora rammento. Me l’ha portato una mattina di quattro mesi fa. Andava di fretta come una furia e mi ha solo detto quello che ti ho riferito prima: che arrivava uno bello e che non dovevo dire niente ai suoi genitori».

«Nient’altro?».

«No. Mi ha chiesto di promettere, questo sì. E io mantengo le promesse».

«Certo che le mantiene ed è una bravissima donna. La ringrazio con tutto il cuore e, se me lo concede, vorrei tornare a trovarla».

L’anziana cambiò faccia e si strinse nelle braccia in modo puerile. Sorrise scoprendo i denti anneriti. «Torneresti da una vecchia come me?».

«Certo» mentì lui.

Lei trattenne una risatina compiaciuta. «Be’, io di giorno sono libera...».

«Benissimo. Ora però si è fatto tardi e devo andare. Ci rivedremo presto». Si avviò verso l’uscita.

«Senti...».

Michele si bloccò sulla porta voltandosi verso di lei.

«Certo che Violetta era proprio grassa e i suoi denti, poi...».

«Sì sì... arrivederci». Il ragazzo, oramai, tratteneva a fatica l’insofferenza. Era arrivato il momento di uscire e cercare di capirci qualcosa.

Quando tornò a casa la trovò vuota. C’era un piatto coperto in cucina.

Suore benedettine di Boston.

Il biglietto risaliva a quattro mesi prima. Perché Violetta sarebbe dovuta andare dalle monache? E, soprattutto, era ancora lì?

Michele decise che sarebbe andato a cercarla a Boston ma non aveva idea di come si raggiungesse. Non ce la faceva ad aspettare che Aldo e la moglie tornassero. Sapeva leggere, avrebbe cercato informazioni in qualche libro di Lidia.

Ignorando il cibo, fece velocemente le scale che lo separavano dal primo piano e si avviò lungo il corridoio. Proseguì fino in fondo. Guardò la porta per quasi un minuto, poi mise la mano sulla maniglia e, visto che non era chiusa a chiave, entrò. Lo studiolo era in penombra e per qualche secondo non riuscì a vedere niente. Una volta abituatosi all’oscurità, si inoltrò titubante. L’eccitazione lo confondeva, era la prima volta che varcava da solo quella soglia. Avanzò con il piacere di profanare un luogo sacro.

Le pareti della stanza erano interamente occupate da librerie ricolme di libri accatastati alla rinfusa, l’uno sull’altro. Si alternavano testi di geografia a volumi d’arte, resoconti di viaggi e romanzi d’amore, saggi di storia e di filosofia. C’era anche qualche titolo di fisica. Michele li sfiorò con le mani, leggendo rapidamente i dorsi, come un ladro.

Su un lato c’era una scrivania con una lampada. Era ingombra di libri e sassi; c’era pure un grosso pezzo di lava solidificata. Lidia era una donna molto ordinata, non si sarebbe mai aspettato un simile caos nella sua camera. Aggirò il tavolo e si mise seduto sulla sedia di legno. Era scomoda. Accese la lampada e passò con piacere le mani sul legno. Aprì il cassetto senza neanche pensarci e ne tirò fuori un quaderno con la copertina nera chiuso da un elastico rosso. Lo aprì e lesse velocemente, come un ladro, scoprendo che si trattava di una specie di diario.

Lidia descriveva il dolore che aveva provato abbandonando la famiglia, in Inghilterra e il viaggio fino in America. C’erano fiori secchi ovunque. Su decine di pagine aveva incollato dei biglietti scritti a mano: i suoi e quelli del Capitano. Girò qualche pagina, saltando rapidamente da una parola all’altra, temendo che i due potessero tornare. I foglietti erano intervallati da episodi della loro storia, la storia che Aldo gli aveva raccontato.

Andò avanti fino alla descrizione del loro primo incontro. Si erano conosciuti durante una missione della Marina Americana, quando “ancora gli Usa non avevano inaugurato l’era dell’isolazionismo” c’era scritto in rosso e di sbieco su un lato. Il Capitano allora era un giovane ufficiale scelto per accompagnare un generale in una trattativa d’affari presso un importante proprietario terriero inglese. L’impresa era durata una settimana e in quei sette giorni i due giovani si erano scritti decine e decine di biglietti.

Chiuse il quaderno di botto e lo rimise nel cassetto: non era lì per frugare nella vita di Aldo e Lidia e si era già pentito del suo gesto. Si alzò in piedi e spense la luce.

Proprio in quel momento, udì il suono ovattato di voci provenienti dal basso. Si irrigidì. Piano e al buio, scivolò verso la porta: doveva andarsene prima che salissero le scale. Mise la mano sudata sulla maniglia e guardò da uno spiraglio. Uscì veloce ma se qualcuno avesse toccato il pomello in quel momento avrebbe capito.

In punta di piedi entrò nella sua stanza. Si buttò sul letto cercando di far tornare normali le pulsazioni del cuore.

Qualche secondo dopo, Lidia bussò alla sua porta. Ci mise qualche secondo a rispondere ma le sorrise sperando di apparire disinvolto.

Lei lo guardò. «Ciao Michele».

Si sedette sul letto. «Ti senti male? Sei pallido».

«No, sto bene».

«Hai saputo qualcosa?». Glielo chiese come fosse un argomento per loro abituale ma, in realtà, era la prima volta che parlavano apertamente di Violetta.

«Forse è a Boston. Vorrei andarci».

«A Boston? Come mai?».

«Non lo so. E non sono neanche sicuro che sia lì».

«E vuoi andare comunque fino a Boston?» ripeté ancora calcando il nome della città.

«Sì. Sai dirmi come fare?».

«Certo... Puoi prendere il treno. Ma poi lì cosa farai? Hai un indirizzo?».

«Dovrebbe essere dalle suore benedettine. Non so altro».

La donna rimase pensierosa per un lungo momento, come se volesse essere sicura di usare le parole giuste. «... Michele, non ti chiederemo quale siano le tue intenzioni con questa ragazza. È una decisione solo tua, ma sappi che qualunque cosa tu voglia fare, noi ti appoggeremo».

Il ragazzo annuì abbassando lo sguardo. «Grazie, Lidia».

«Non devi ringraziarmi. Ho visto che ancora non hai mangiato, scendi?».

Lidia si era alzata dal letto e Michele la imitò seguendola verso la porta.

Scendendo le scale ripensò a lei, a Violetta, ai suoi occhi a mezza luna, ai denti irregolari, alla sua quieta disponibilità. L’avrebbe trovata.