CAPITOLO XIII

Aldo ci tenne, il mattino successivo, ad accompagnarlo alla stazione. Prima che scendesse dalla macchina, gli allungò dei soldi e gli disse di non preoccuparsi per il lavoro. Stringendogli la mano, aggiunse che poteva prendersi tutto il tempo di cui aveva bisogno. Michele notò che aveva ancora la pelle delle dita screpolata e callosa e che la sua faccia era rimasta scarna quasi come quando erano alla deriva.

Il giovane italiano rimase fermo davanti all’ingresso per guardare l’auto che si allontanava in mezzo al fumo grigio proveniente dai tombini in strada. Dalla sacca che aveva sulla spalla usciva il profumo del pane ancora caldo che Lidia gli aveva preparato.

Anche se erano le cinque del mattino, la Grand Central Station era già affollata. Uomini con il cappello a falda e donne truccate come a una prima, circolavano nell’immenso salone neoclassico. Michele si diresse verso la biglietteria cercando di apparire disinvolto.

«Quand’è il prossimo treno per Boston?». Era arrivato il suo turno e il bigliettaio magro e con le dita macchiate di inchiostro blu lo stava guardando con aria interrogativa. L’uomo fece una smorfia quando sentì il suo classico accento da immigrato.

«Allora... vediamo... Ce n’è uno tra ventidue minuti. Le va bene?».

«Sì, grazie».

«Ecco qui. Binario quattro». L’impiegato già gli tendeva il biglietto impaziente di passare al prossimo cliente.

Boston l’accolse con un cielo grigio. Faceva più freddo rispetto a New York e Michele, che sarebbe partito in camicia, ringraziò mentalmente il Capitano di avergli dato il suo cappotto. Glielo aveva allungato quella mattina senza dire niente mentre, già tutto vestito, lo aspettava sulla porta per accompagnarlo.

La stazione era più piccola rispetto a quella di New York ma era comunque molto affollata. L’attraversò sentendo le gambe poco salde.

Durante il viaggio aveva deciso da dove sarebbe partita la sua ricerca, avere una meta lo tranquillizzava un po’. Arrivato sulla piazza, osservò la città. Fece scorrere lo sguardo intorno a sé stringendo gli occhi: cercava qualcosa di molto preciso mentre un sudore freddo gli saliva sulla pelle.

Era una follia e lo sapeva. Non l’avrebbe mai trovata.

Camminò lungo la via più ampia, macchine di lusso sfrecciavano ovunque senza curarsi troppo dei pedoni, proprio come a New York. Dopo qualche minuto individuò ciò che stava cercando, era stato facile. Accelerò il passo.

Il portone laterale era aperto. Spinse la pesante anta ed entrò nel buio della chiesa.

Si inoltrò per un breve tratto contando mentalmente le poche persone sedute in preghiera sulle panche. Scelse un punto defilato e si accomodò poggiando la sacca che teneva sulla spalla ai suoi piedi.

Rimase fermo una decina di minuti. Si chiese, giusto per temporeggiare, se quella gente aspettasse l’inizio della messa. Una donna anziana si alzò e, dopo essersi fatta il segno della croce, uscì camminando lentamente dall’ingresso laterale. Non erano lì per la funzione, allora. Michele abbandonò il suo posto e si diresse verso una porta con sopra la scritta SACRESTIA. I suoi passi risuonavano nel silenzio. Bussò piano. Dopo poco, la porta si aprì.

«Prego». Un uomo sui cinquant’anni, vestito di nero e con la fascetta bianca nel colletto, lo guardò con un sorriso ostentato. Aveva capelli candidi pettinati all’indietro e la pelle liscia come quella di una donna. «Ha bisogno?».

«Sì...» rispose Michele.

«Prego. Si accomodi». Con la mano gli indicava una sedia davanti a una scrivania.

«No, è una cosa veloce...».

«Ah, va bene. Mi dica».

Il giovane tossì per schiarirsi la voce e poi parlò tutto d’un fiato: «Sto cercando il convento delle suore benedettine di Boston».

«Lo sta cercando? Il convento?».

Michele stava fissando la punta dei suoi piedi. «Sì e non ho l’indirizzo». Rialzò la testa e fissò gli occhi chiari del prete. Nonostante le domande, non sembrava poi così sorpreso.

«... E sta cercando un conoscente che si trova lì?» proseguì il sacerdote.

L’italiano non sapeva se innervosirsi o essere felice che l’uomo sembrasse così interessato. «Sì, cerco qualcuno».

«Capisco...». L’uomo abbassò lo sguardo e portò una mano alla bocca come se cercasse un momento di concentrazione. «Ha un mezzo con cui muoversi?».

«No».

Senza aggiungere altro, girò intorno alla scrivania e si mise seduto. Prese un foglio bianco e scrisse qualcosa, poi si alzò allungandogli il foglio. «Ecco».

«Ma lei è proprio sicuro che si tratti di quello che sto cercando? È l’indirizzo?» chiese Michele, a disagio.

Il pastore sorrise con indulgenza. «Sì, è quello che sta cercando ma l’indirizzo che le ho scritto è quello di un signore che potrà accompagnarla. Per pochi dollari la porterà a destinazione con il suo calesse. Ha qualche soldo con sé?».

Sorpreso, Michele si irrigidì. Sembrava che quell’uomo sapesse più di quello che diceva. «Sì».

«Buon per lei. Le consiglio di muoversi, il convento è fuori città e rischia di arrivare tardi. Quando esce da qui, giri a destra e vada sempre dritto per un paio di chilometri, poi domandi. Lui si chiama Arthur, è un po’ burbero ma non si lasci impressionare... In bocca al lupo».

Michele si mise il foglio in tasca. Non riusciva a capire l’atteggiamento del prete, ma aveva una meta e questa era la cosa più importante. Ringraziò e uscì dalla sacrestia. Stringendo la sacca che aveva con sé, si avviò nella direzione indicatagli.

Percorse le ampie strade di Boston guardandosi intorno. Grandi palazzi in stile neoclassico si alternavano ad abitazioni e piccole botteghe. Le vie erano affollate e grigie. Mostrando l’indirizzo, chiese indicazioni per tre volte e, quando raggiunse la meta, era già ora di pranzo. Pensò al pane che aveva con sé.

Mr Arthur.

La casa era una fatiscente struttura in legno a un solo piano e con un piccolo patio davanti. Ubicata subito fuori dalla cerchia cittadina, era una delle ultime abitazioni prima della campagna. Vari attrezzi arrugginiti e coperti di rampicanti giacevano abbandonati nel cortile di fronte. Sembrava dimenticata più che disabitata. Avvicinandosi, si accorse che in un recinto sul retro pascolava un ronzino con, probabilmente, gli stessi anni della palazzina.

«Mr Arthur!». Il richiamo gli uscì strozzato, non si sentiva per niente a suo agio. «Mr Arthur!» ripeté dopo essersi schiarito la voce forzando un colpo di tosse. E se non ci fosse stato nessuno? Cosa avrebbe fatto? Non aveva alternativa. In un modo o nell’altro, doveva arrivare in fondo.

Udì dei rumori provenire dall’interno ma la porta si aprì solo diversi minuti dopo. Un uomo con la faccia chiazzata di rosso apparve sul patio. La faccia di un alcolista, un vecchio alcolista solitario.

«Sono io. E tu chi sei?».

«Michele Rizzo».

«E che vuoi?».

«Mi hanno detto che lei può portarmi dalle suore benedettine».

Dopo un momento di silenzio, il vecchio scoppiò in una risata sguaiata poggiando le mani sulla staccionata del cortile. Quando smise spostò tutta la sua attenzione sulla cintura dei pantaloni sbrindellati e la risistemò platealmente. «È ora di lavarli, eh?». Sembrava parlasse a qualche figura immaginaria al suo fianco.

Michele lo guardò completamente spiazzato mentre insultava mentalmente il prete.

L’uomo lo stava di nuovo fissando e agitava una mano davanti a sé come a voler cancellare la reazione di un attimo prima. «Sì, posso accompagnarti anche subito. Ci vogliono due ore, però. Quanto tempo pensi di fermarti?».

«Non saprei. Sinceramente, credevo ci si mettesse meno».

«Eh, meglio, invece!». Rise di nuovo. «Ok. Se torniamo prima del tramonto, ti costa cinque dollari; dopo il tramonto, dieci».

Michele aveva trenta dollari in tutto. Deglutì. «Va bene».

«Pagamento anticipato. Aspetta qui, faccio mangiare il cavallo. Partiamo tra mezz’ora».

Il ragazzo si sedette poggiando la schiena alla staccionata. Tirò fuori dalla sacca il pane avvolto in un panno bianco mentre un rumore sordo gorgheggiava dalla sua pancia. Preferì non dare peso alle parole del vecchio e pensò solo a mangiare.

Partirono esattamente trenta minuti dopo. Il calesse era piccolo e senza copertura e Arthur gli disse di mettersi dietro. Il ronzino si dimostrò subito meno acciaccato di quanto sembrasse a prima vista e imboccò di buona lena un sentiero sterrato che si allungava nella campagna. Il cielo era sempre più nuvolo.

«Siediti comodo, io e il mio amico ti porteremo a destinazione. Però ti avviso: se all’ultimo ci ripensi, ci paghi comunque, eh!». Rise facendo schioccare le redini.

Michele non rispose ma quella situazione e quell’uomo non gli piacevano. Arthur pareva provocarlo palesemente e non ne capiva il motivo. Già il prete era stato enigmatico, ma il vecchio era addirittura irritante.

Il calesse era scomodo e rigido e Michele si appoggiò sulla sua sacca. La schiena continuava a battere sul legno su cui poggiava.

«C’è un cuscino... Lì, in quella borsa... C’è un cuscino, prendilo».

Michele si allungò verso la tela sformata che Arthur, ruotando su sé stesso, gli stava indicando. Il guanciale era sporco e bucato, ma la sua schiena ringraziò.

Riecheggiò un tuono in lontananza.

Dopo un’ora si fermarono di fronte a una cascina circondata da terra arida. Arthur scese dalla cassetta e si stirò. «Faccio bere il cavallo. Ci fermiamo una decina di minuti. Se vuoi, dentro ti vendono da bere o da mangiare».

L’italiano scese con un salto e guardò la fattoria realizzata con assi di legno scuri e sconnessi; a lato notò un grande capannone, da cui proveniva il muggire delle mucche, e varie balle di fieno accatastate.

Con le mani in tasca, camminò in tondo per dissipare l’indolenzimento alle gambe. Scosse i piedi che gli formicolavano. Una folata di vento alzò una nuvola di polvere che gli finì negli occhi. Arthur aveva staccato il cavallo dal carretto e lo stavo portando verso un abbeveratoio in marmo.

«Ehi, Arthur!». Una donna magra e con la pelle seccata dal sole era apparsa sulla soglia; con una mano proteggeva gli occhi dalla polvere.

«Donna!». Arthur rispose con un ampio gesto di saluto.

«Guarda che viene a piovere» disse lei indicando il cielo sempre più scuro.

Michele si era fermato a guardarli e, anche lui, alzò la testa verso l’alto: le nuvole nere si ammassavano sempre più densamente sopra di loro.

«Eeeeh...» aggiunse il vecchio scuotendo la testa. «Si sta preparando con i fiocchi» proseguì.

Michele si inserì muovendo qualche passo nella direzione dell’uomo. «Andiamo comunque».

Donna scese i tre gradini di legno consumato che la separavano dallo spiazzo sterrato e andò anche lei verso l’abbeveratoio. «Vi conviene fermarvi, ragazzo». Parlò con un tono indulgente, quasi materno.

«Potete sistemarvi nella stalla per questa notte».

Aveva ancora il braccio alzato nella direzione del capannone quando un lampo all’orizzonte sembrò darle ragione.

«Eeeeh...» ripeté Arthur «non ha tutti i torti». Si era rivolto direttamente a Michele che lo guardava severamente.

«Non pioverà. Andiamo».

Il vecchio batté una mano sul collo del cavallo. «L’hai sentito, no?! Ci tocca proseguire». Poi si rivolse alla donna: «Ci vediamo al ritorno».

Si scambiarono uno sguardo complice e compassionevole che innervosì Michele. Il ragazzo si avviò deciso e a passi larghi verso il calesse.

«Buon viaggio» rispose quella alzando una mano in segno di saluto.

Viaggiarono ancora per circa un’ora lasciando la pianura per salire in collina. La pioggia, effettivamente, arrivò leggera quando erano già in vista del monastero. La grande struttura in mattoncini rossi, annessa a una chiesa con il portale in marmo bianco, apparve all’improvviso triste e maestosa. Intorno c’erano delle vecchie querce sempreverdi circondate da un’erbetta stentata. Un edificio maestoso ma lugubre. Michele sentì il cuore accelerare man mano che si avvicinavano. Arthur rimase, invece, del tutto indifferente.

L’avrebbe rivista, pensava, ma più che emozionato era spaventato.

Il carrozzino si stava inoltrando sul sentiero battuto che portava allo spiazzo di fronte all’ingresso. Il ragazzo si teneva con ambedue le mani fissando la facciata. Aveva le nocche completamente sbiancate. Era pallido e serio.

«Ooooh». Arthur tirò le redini proprio di fronte al portone in legno e poi scese. «Eccoci arrivati». Il sorriso gli si cancellò quando vide l’espressione sul viso di Michele. «... Ragazzo...». Sembrava gli mancassero le parole ma, tanto, era evidente che l’altro non lo stava ascoltando.

Il giovane scese con lentezza. Si fermò un momento dando le spalle al monastero e poi inspirò profondamente.

Lei... Cosa gli avrebbe detto lei?

Aveva paura.

Arthur guardò il cielo stringendo gli occhi e poi si diresse verso una catenella che pendeva a fianco del portone. La tirò e subito il tintinnio di una campana si mescolò al morbido ticchettio della pioggerella. Nell’aria c’era ancora il bagliore del tramonto ma il buio incombeva. Un forte odore di terra bagnata impregnava tutto e i pochi capelli del vecchio gli si erano incollati al cranio mentre qualche goccia già gli scivolava sulle tempie. Un lampo sferzò il cielo e poi, lontano, un tuono.

«... Ragazzo...» ripeté piano Arthur mentre il suo viso perdeva qualsiasi traccia di ironia.

Il rumore della porta che si apriva lo fece voltare di nuovo. Da uno spiraglio apparve la sagoma di una suora con la testa coperta dal velo. Quando riconobbe il vecchio, si accigliò. «Buonasera» li salutò la monaca. «Come posso esservi utile?».

Il vecchio si girò verso Michele, che li guardava a qualche passo di distanza, e lo invitò con un segno della testa a rispondere. Il ragazzo si fece avanti. «Sto cercando un’amica. Credo sia ospite qui da voi».

La religiosa lo guardò riducendo gli occhi a due fessure. «E lei sa che la cerca?».

Michele arrossì. «Eh... è stata lei a dirmi che sarebbe venuta qui... Però non so... non so se mi stia aspettando...». Balbettava.

La donna non proseguì subito. «Come si chiama?» chiese poi secca.

«Violetta. Violetta Santi».

C’era poca luce ma ebbe comunque l’impressione che la suora trasalisse. «Non è qui» si affrettò a dirgli. «Ha fatto un viaggio inutile. Arrivederci».

«Come, inutile?». Michele aveva raggiunto l’ingresso ad ampi passi.

«Lei non è qui» scandì severamente l’altra. «Quindi, avete fatto un viaggio inutile».

Il ragazzo aveva poggiato una mano sul portone pronto a impedire che la monaca lo richiudesse. «Ci sono altri conventi di benedettine?».

«No» aveva risposto di malavoglia: era evidente che volesse mettere fine a quella conversazione.

Michele le lanciò uno sguardo furibondo che, però, non la intimorì. «Allora deve essere qui per forza... Oppure è stata qui ed è andata via».

La donna rimase un momento in silenzio prima di rispondere. «Aspettate qui. Vado a chiamare la superiora». Lanciò un’occhiata polemica verso la mano di Michele che bloccava il portone. Quando lui la tolse, lo richiuse.

L’italiano sentiva le orecchie bruciare. Alzò la faccia al cielo lasciando che la pioggia gli bagnasse la pelle. Cercò Arthur e vide che aveva portato cavallo e calesse verso la stalla posta sul fianco del lato più corto della struttura. Era solo. Rimase sotto l’acqua come fosse una punizione.

Quando l’uscio fu riaperto, si trovò davanti una corpulenta suora sui sessant’anni con gli occhi chiari e vigili, le vesti inamidate e candide. Lo osservò mostrando volutamente benevolenza con le mani lisce giunte.

«Mi dispiace» esordì subito «ma Violetta non si trova più qui. È andata via e non sappiamo dove. Vorrei aiutarla, ma non posso, mi creda».

Michele la stava fissando. «Quindi è stata qui?».

«Sì, ha trascorso un periodo con noi, ma poi se n’è andata».

«Perché?».

«Questo non posso dirglielo».

Lui abbassò lo sguardo a terra incurvandosi su se stesso.

«... Mi dispiace» ripeté la donna di fronte al suo silenzio.

Il giovane si ridestò sollevando la testa e fissandola con gli occhi lucidi. «E ha lasciato qualcosa per me? Il mio nome è Michele Rizzo».

La religiosa si irrigidì visibilmente. «No, no,» rispose frettolosamente «è ripartita senza lasciare niente». Aveva ancora il sorriso in volto ma appariva sempre più tirato e finto. «Ora devo salutarla. Arrivederci». Richiuse il portone senza aspettare una risposta.

Michele rimase a lungo impalato davanti al legno scuro della soglia. Si mosse solo quando sentì sulla spalla la mano di Arthur.

«Andiamo» lo esortò l’uomo a voce bassa.

Il ragazzo si voltò avviandosi mogio verso il calesse. Dai suoi capelli cadevano copiose gocce di pioggia.

«Ci fermeremo a dormire alla fattoria di Donna».

Arthur aveva un tono fermo anche se era evidente che Michele non aveva intenzione di obbiettare. A testa bassa, salì rimettendosi allo stesso posto che aveva occupato per tutto il viaggio di andata. La sua faccia era inespressiva, le braccia molli. Arthur lo guardò sorpreso: era certo che avrebbe protestato, che avrebbe insistito per rimanere, invece no; se ne tornava a casa senza una parola.

Arrivarono alla fattoria di Donna sotto la pioggia battente. Il vecchio aveva messo un cappello a falda da cui scendeva acqua come da una grondaia, mentre Michele era rimasto per tutto il tragitto inerme sotto l’attacco dell’acqua.

«Siamo arrivati, forza». L’uomo lo sollecitò a scendere indicandogli la casa, da cui era apparsa Donna con un lume a petrolio in mano, e poi portò cavallo e calesse nella stalla.

«Sei tutto bagnato» esordì Donna indicandogli due sedie già sistemate vicino al camino acceso. Michele ringraziò togliendosi il cappotto fradicio.

«Dallo a me» disse togliendoglielo dalle mani per sistemarlo con cura su uno sgabello vicino al fuoco.

La stanza, con un bel pavimento in legno, era calda. C’erano pochi mobili e un tavolo grande e vecchio, posto in centro e circondato da diverse sedie, occupava quasi tutto lo spazio. L’attività di Donna era principalmente quella della ristorazione, visto che la sua cascina si trovava all’inizio della strada fra Boston e New York, ed erano in tanti a fermarsi volentieri per la sua cucina. Aveva galline, mucche e un orto.

Viveva sola e per questo teneva sempre una pistola carica a portata di mano. Il marito se ne era andato tanti anni prima e non aveva più fatto avere sue notizie, ma non le mancava. Quello che le mancava erano i figli: ne avrebbe voluti tanti, tutti maschi, e invece non ne aveva neanche uno. Osservò Michele floscio sulla sedia: pendeva tutto verso il basso come se in quel punto fosse aumentata la gravità terrestre.

«Hai fame?».

«No».

La conversazione si fermò lì. Le sarebbe piaciuto parlare un po’ ma non insistette. Rimasero in silenzio fino a quando non arrivò Arthur. «Era fradicio, povero cavallo» disse entrando rumorosamente in casa. «E io sto morendo di fame».

Donna sorrise felice di poter scambiare qualche parola. «Siediti. Ti servo subito».

Guardarono Michele che non si era mosso dalla sedia.

«Cosa hai preparato di buono?». La confidenza tra i due era tangibile.

Ci vollero un paio d’ore prima che i loro vestiti si asciugassero. Alla fine Michele aveva accettato un piatto di carne stracotta che Donna gli aveva portato davanti al camino. Aveva mangiato sulla sedia e quando era finita ne aveva chiesta ancora. «Bravo, ragazzo» aveva detto lei riempiendogli il piatto per la seconda volta.

Quando uscirono per preparare un giaciglio nella stalla, aveva smesso di piovere e si cominciavano a vedere stelle brillanti fra le nuvole che si diradavano rapidamente.

«Ti raggiungo più tardi» gli comunicò il vecchio, come se avesse bisogno di giustificarsi nel lasciarlo solo, e tornò con Donna in casa. Il giovane rispose con un segno di assenso e si stese sulla coperta sistemata sulla paglia in un angolo caldo della stalla. L’odore forte delle mucche impregnava l’aria ancora umida ma a Michele piaceva. Chiuse gli occhi lasciando che la testa si svuotasse da tutti i pensieri per riempirla solo di quell’olezzo acre.

Nel torpore del sonno udì appena Arthur tornare. Si chiese quanto tempo fosse passato ma si riaddormentò profondamente prima di darsi una risposta.

Si svegliò perché qualcuno gli stava scuotendo una spalla. Aprì gli occhi e non ebbe l’impressione che fosse già giorno. Sbatté più volte le palpebre: era ancora buio e non filtrava alcuna luce dall’esterno. Si girò verso chi cercava di svegliarlo e vide Arthur inginocchiato vicino a lui. Aveva gli occhi lucidi e sulla faccia i segni profondi lasciati dalla paglia.

«Senti,» disse l’uomo a bassa voce come se le mucche potessero origliare «lo so che non sono fatti miei, ma io so dove si trova la persona che stai cercando, però dobbiamo muoverci ora, prima che faccia giorno».