CAPITOLO XIV

Le nozze non furono un grande avvenimento. Vennero celebrate in una chiesetta del quartiere che raggiunsero a piedi. Era il 19 novembre del 1928.

Frank, durante il rinfresco, si comportò come probabilmente aveva visto fare: stringeva mani, dava pacche sulle spalle e proponeva brindisi. Era felice e Benedetta non poteva fare a meno di invidiarlo un po’.

Lei sorrideva, ripetendo che era stanca ed emozionata, osservando quello che le accadeva intorno: era in quel luogo, con quelle persone, il giorno del suo matrimonio, ma non le importava. Per quanto le riguardava, sarebbe potuta essere ovunque se non fosse stato per quel ridicolo vestito bianco che la madre le aveva cucito. Non sentiva affanno, né emozione, ma neanche dolore.

Aveva un unico pensiero: che la sua ex compagna di classe venisse a sapere che si era sposata; era certa che quella non avesse ancora trovato qualcuno che se la prendesse. Ripensò ai suoi vestiti alla moda, ai capelli sistemati ma, questa volta, era Carolina che la doveva invidiare.

Benedetta camminava tra gli invitati mangiando una meringa quando le venne in mente quel pomeriggio nel parco. Sapeva che qualcosa da allora era cambiato e capiva che era in meglio: via tutto, sì, anche Maria; nella sua vita adesso c’era qualcosa che l’appagava senza sforzo, senza doverselo conquistare, qualcosa che le piaceva davvero tanto e che era arrivato improvviso come un colpo di fulmine.

Per il rinfresco sua madre e quella di Frank avevano preparato una infinità di cose per amici e parenti invitati nella casa dei neo sposi. La ragazza aveva lasciato fare tutto a loro e, con grande felicità della suocera, non si era intromessa neanche sull’arredamento dell’abitazione. Con il dolce appiccicoso mezzo sbriciolato tra le dita, si chiedeva distrattamente quanto tempo ci sarebbe voluto prima che quelle pareti e quei mobili le divenissero familiari.

Il marito l’aveva raggiunta e le aveva messo un braccio intorno alle spalle ossute.

«Fammi vedere la fede» le disse quasi commosso. Anche gli occhi di Benedetta ripresero vita mentre ammirava la sottile fascetta d’oro sulla sua mano bianca.

Sei mesi prima del matrimonio, Frank le aveva regalato l’anello di fidanzamento e lei l’aveva osservato a lungo: al dito, sul tavolo, nel palmo della mano, sotto la luce. Per ore. Vedendola, Lucia si era definitivamente convinta di aver scelto l’uomo giusto. Poi, prima delle nozze, il fidanzato le aveva portato una sottile collanina d’oro appartenuta alla nonna. E oggi, naturalmente, le aveva infilato la fede nuziale al dito.

Amici e parenti, notando la sua espressione durante la cerimonia, avevano commentato quanto fosse felice.

Ho due anelli e una collana.

Tutto quello a cui pensava era questo.

Il suo nuovo amore erano i gioielli: ne avrebbe voluti tanti, facevano diventare belli. Da quando aveva cominciato a guardarsi con regolarità allo specchio, tutto si era complicato: quello che vedeva riflesso non le piaceva; i gioielli, invece, sì.

Senza che quasi se ne rendesse conto, arrivò la sera. Benedetta baciò la madre sulle guance mentre, sull’uscio, le raccomandava di andare a trovarla il giorno dopo. La casa, che fino a un momento prima era stata piena di gente, si era svuotata e la suocera, prima d’andar via, era rimasta a lungo nella loro camera da letto.

Benedetta sapeva bene cosa sarebbe successo quella notte.

Quando si misero a letto lui le montò addosso e le tirò affannosamente fin sopra l’ombelico la pesante camicia da notte di lana. Dopo pochi secondi, fece dei versi molto simili a quelli che aveva sentito fare al fratello.

Che schifo, pensò.

Dopo qualche minuto, il marito ripeté gli stessi movimenti. E lo fece anche nei giorni successivi. Benedetta imparò a non pensarci. Che schifo, si diceva regolarmente e tirava avanti chiedendosi se sarebbe stato così tutte le notti. Poi, a distanza di un mese dal matrimonio, qualcosa cambiò.

Già da tempo aveva ricominciato a cucire con la madre, quando una sera Frank era tornato dall’orologeria con un sorriso tirato sulle labbra. Sembrava nervoso.

«Questo è per te» aveva detto con voce distorta dall’emozione e le aveva allungato un pacchetto.

Immediatamente Benedetta si era animata e aveva scartato il regalo con i palmi sudati. «Oh Frank, grazie, grazie. È bellissimo!». Fra le mani teneva un grande anello con incastrata una pietra rossa trasparente. Brillava.

«È stato un vero affare, devi credermi».

L’uomo la guardava eccitato dalla sua reazione e lei, in uno slancio, gli aveva buttato le braccia al collo. Lo stava ancora abbracciando quando aveva sentito in quel contatto qualcosa di nuovo: all’improvviso il suo corpo voleva qualcosa, lo pretendeva e, in quel momento, capì che nessuna volontà o ragione avrebbe potuto dissuaderlo. Spinse il marito in camera da letto: doveva placare quel fuoco il prima possibile, doveva obbedire a quei movimenti che le venivano da dentro.

Quando la sensazione agognata arrivò, così breve e intensa, capì a cosa servisse la carne: tutto per quegli attimi che avresti voluto non finissero mai. Dopo si sentì di nuovo libera e spinse Frank lontano da sé. Lui non se la prese e rimase steso sul letto con la faccia beata.

Benedetta lo osservò senza attenzione; il marito non c’entrava, quella era una cosa solo sua. Ma da quel momento Frank, nella sua logica semplice, si accorse che il coinvolgimento della moglie era provocato solo dai regali, e dai gioielli in particolare. Serenamente, applicò la legge del dare-avere alla sua vita coniugale: quando desiderava qualcosa da lei, sapeva che doveva offrirle qualcos’altro in cambio.

Erano già passati sei mesi dal giorno del matrimonio quando, un pomeriggio di maggio, Benedetta uscì presto dalla casa della madre. Quella sera i suoceri sarebbero andati a trovarli con un loro nipote, il cugino di Frank.

Il tempo era brutto e già da un po’ minacciava un temporale. Si strinse nel cappotto troppo corto e troppo stretto per difenderla dal freddo. Lungo la via si ripeteva mentalmente i piatti che avrebbe preparato, tutte ricette italiane. Camminava spedita nella via semideserta sentendo le frustate del vento sulla faccia, quando si trovò di fronte un ragazzo con la faccia assorta e bellissima. Camminava molto lentamente, totalmente perso nei suoi pensieri. Benedetta rallentò fino a fermarsi per poterlo osservare, tanto era evidente che l’altro non se ne sarebbe neanche accorto. Quello non era un viso che si poteva dimenticare: era più magro ma era il giovane del porto, quello che le aveva indicato il sangue sulla camicia, il ragazzo più bello che avesse mai visto.

Si voltò per guardarlo ancora: era alto, con le spalle larghe, i fianchi stretti. Cosa si prova a essere abbracciati da uno così, si domandò. Invidiò la fortunata che poteva farlo e invidiò quel mondo di bellezza e amore che le sarebbe stato per sempre precluso. Essere belli doveva essere magnifico, se fosse stata bella tutto sarebbe stato diverso. Poteva sognare, però. Poteva immaginare che quel giovane la fermasse per chiederle come si chiamava e poi le prendesse la mano per trattenerla e farle promettere che si sarebbero rivisti. Sorrise per quelle fantasticherie impossibili, ma era piacevole essere libera di farle. Tutto quello che non avrebbe mai potuto avere dalla vita, poteva prenderselo nella sua testa. Anche quel ragazzo.

Alcune gocce di pioggia cominciarono a tamburellarle sul cappotto, costringendola ad affrettare nuovamente il passo. A casa si mise subito al lavoro per la cena, avrebbe dimostrato di essere una brava moglie. Frank tornò dalla bottega in serata e, appena entrato, cercò di darle un bacio. «La mia mogliettina».

Lei piegò in giù la faccia e lo scostò con un gomito, ma lui non ci badò e cominciò ad assaggiare quello che aveva cucinato.

«Stasera conoscerai mio cugino Carlo, il figlio di zia Celeste. Fa il marinaio e passa la sua vita in giro per il mondo».

«In giro per il mondo... E quanti anni ha?».

«Ventiquattro o venticinque, non ricordo».

«Quanto tempo è che non lo vedi?».

«Due anni, credo. Mia zia ci racconta tutto quello che fa perché lui le scrive molte lettere. Ha rischiato anche di affogare ma un altro marinaio lo ha salvato. Una volta ho ascoltato di nascosto la mamma e la zia che parlavano di un figlio che avrebbe avuto da una indigena molto giovane che poi non ha voluto sposare, ma a me sembra molto strano».

«Perché?».

«Be’, non so».

Frank, sollecitato dalle domande, continuò ancora un po’ nei suoi racconti approssimativi. Disse che il cugino era bello, che aveva studiato e che diventare marinaio era stata una scelta di vita. Benedetta lo ascoltava con molta attenzione ma quando lui se ne accorse, si seccò.

«Ma perché fai tante domande? Gli altri uomini non ti devono interessare».

La sua gelosia la colse di sorpresa e le procurò un piacere cattivo: in fondo, c’era qualcuno che stava peggio di lei.

Frank si stese sul divano e chiuse gli occhi mettendo fine a ogni conversazione. Apparecchiando la tavola, Benedetta si voltò ancora verso il marito: alla fin fine, lui era tutto quello che poteva permettersi. Sarebbe stato bello se uno come quel ragazzo del porto avesse potuto vederla senza fermarsi all’apparenza del suo corpo; avrebbe potuto scoprire tutto quello che nessuno conosceva. Ma se fosse stata come Maria quel tipo per strada l’avrebbe guardata di certo... Rabbrividì, un’ingiustificata scarica di adrenalina la percorse al solo immaginare di avere le fattezze di Maria.

«Tu sei mio marito e io farò sempre tutto quello che vorrai». Gli si era inginocchiata vicino e recitava uno sguardo d’amore.

Povero stupido Frank.

Lui tentò di abbracciarla ma la ragazza si divincolò. «È tardi. Vado a finire di preparare la tavola». Si alzò fingendo un languore che era ben lungi dal provare.

Frank sorrise compiaciuto.

Poco dopo bussarono. «Frank, puoi aprire tu, per favore?» chiese dalla cucina.

Li sentì entrare e chiedere di lei ma, volutamente, non si mosse. Sapeva che se avesse trascorso ancora un minuto in cucina li avrebbe messi in imbarazzo. Ne fece passare due. Avvertiva il sangue scorrerle nelle vene e credeva quasi di poter controllare il battito cardiaco; in mente aveva ancora il viso dello sconosciuto e quello di Maria.

Era pronta per uscire. Avanzò nella stanza lentamente. Non sapeva neanche lei il perché, ma solo fingere di poter essere come Maria, la faceva sentire bella.

Salutò con un bacio i genitori di Frank, non alzando ostentatamente lo sguardo sul terzo ospite, dopodiché si girò verso di lui sorridente e con la mano tesa.

«Tu sei il famoso cugino Carlo, mi fa molto piacere conoscerti. Io sono Benedetta». Gli strinse la mano con civetteria.

«Il piacere è mio, cara cugina».

Carlo aveva gli occhi neri come le pupille, il suo corpo era perfetto e la pelle scurita dal sole. Benedetta traballò un momento quando sorrise, non aveva mai conosciuto un uomo così disinvolto e sicuro di sé. Le baciò la mano con galanteria e lei rabbrividì. Il colpo, però, arrivò quando si accorse dell’espressione del parente: lo sguardo che quell’uomo affascinante le rivolgeva era annoiato e pietoso; vi lesse la pena per una ragazzina insignificante sposata con un ritardato di mente e la noia di chi ha accettato un invito solo perché lo considerava un dovere.

Le vennero in mente i suoi miseri gioielli, il ventre piatto, la sua faccia scialba e infine suo marito. Era vero, era penosa.

Cercando inutilmente di apparire disinvolta, servì le portate avendo l’impressione di non essere veramente in quella stanza, con quelle persone, ma di osservare la scena dall’esterno. La spavalderia con cui aveva iniziato la cena era sparita del tutto. Con gesti minimi fece le porzioni, sedendosi poi a fianco di Frank. Stava contando i minuti che la separavano dalla fine della serata quando si rese conto che, dopo il suo invito a cominciare, era calato un silenzio imbarazzante.

Carlo cominciò a parlare e lei tirò un sospiro di sollievo. Raccontò che due anni prima il suo Capitano, dopo un terribile naufragio, aveva preso a vivere con sé il marinaio che era sopravvissuto insieme a lui e che lo aveva salvato. Erano rimasti alla deriva per nove giorni mangiando solo cioccolato. Disse che era un uomo fuori dal comune.

Le sue parole catalizzarono l’attenzione dei convitati. Benedetta ringraziò mentalmente di poter rimanere in disparte.

«Il mio è un lavoro interessante. Ho visitato veramente tanti posti... Se volete vi spiego perché mi piace». Fece una pausa. «Vi interessa?».

Annuirono tutti.

«Forse avrei dovuto recitare... Interpreto dei ruoli: quando arrivo in un posto nuovo, mi invento un nuovo personaggio e lo porto avanti finché non riparto».

«Eh?» intervenne la suocera. «In che senso?».

«Non prendermi per matto, zia».

La donna scosse la testa.

«Non faccio niente di male, se è questo che ti preoccupa. Mi diverto a impersonare ruoli diversi. I miei colleghi lo sanno e mi tengono il gioco; fanno addirittura scommesse su chi andrò a interpretare».

«... Non ti seguo, non capisco. Come fai? Cambi abiti o cosa?».

«No, è meno complicato. Scelgo un tipo, come il timido o l’intellettuale o lo spaccone. Voglio vedere fino a che punto la gente sia disposta a credere a uno sconosciuto. E i soggetti, di solito, li prendo dai libri».

«Tu e i tuoi libri!» esclamò la donna.

Carlo sorrise. «Chiaro che non posso rimanere troppo a lungo in un posto. Ho un diario in cui prendo nota di tutto. Una volta ho detto perfino di essere un assassino». Rise nel silenzio dei commensali. «No, lo sapevo! Vi ho scioccato!».

«No, no...» rispose incerta la zia scambiando uno sguardo con il marito.

«Dai, non preoccuparti, adesso». Le stava stringendo affettuosamente la mano.

«Come si può essere diversi da quelli che si è?!». Benedetta non riusciva a credere di averlo veramente detto. La domanda ora aleggiava sul tavolo e tutti gli occhi erano puntati su di lei. «Ognuno è quello che è...» biascicò imbarazzata non sapendo cos’altro fare.

Carlo la guardò un po’ sorpreso ma poi sorrise. «Perché? Non pensi che in ognuno di noi convivano tanti aspetti diversi? La famiglia, le amicizie, la classe sociale, fanno l’individuo. Siamo il frutto della casualità». Sorrise scoprendo il bianco dei denti. «Non credi? Non sei d’accordo?».

«Stai dicendo che potremmo essere persone completamente diverse?» insisté lei. Sentiva l’elettricità che le davano quei discorsi, il materializzarsi delle sue più segrete fantasie che la spingevano a parlare.

Il cugino annuì con indulgenza. «Sì. E tu potresti essere una ladra o una scrittrice o qualcos’altro». Rise. «Sto scherzando, naturalmente». Per un attimo la guardò come se non l’avesse mai vista prima. Benedetta arrossì violentemente.

«Ti piace leggere, Benedetta?».

Lei scosse la testa sapendo che non avrebbe dovuto farlo, che avrebbe spento quel briciolo di interesse che le veniva mostrato. Ma la ragazza non sapeva leggere.

Frank sbadigliò rumorosamente. «Mamma,» chiese «quanti anni avevi quando sono nato?».

Il discorso cambiò direzione e sua suocera ne approfittò per indagare sul presunto figlio del nipote. Benedetta si sentì impotente.

«Purtroppo si è fatto tardi, devo lasciarvi. Domani mattina sarò al porto all’alba».

Già stava facendo il gesto di alzarsi quando Benedetta sbottò: «No!». Poi con voce un po’ più bassa: «Non avete ancora mangiato il dolce... L’ho fatto io».

Non poteva permettere che se ne andasse via così e corse in cucina prima che avesse il tempo di rifiutare. Le rimaneva poco tempo e non sapeva come fare per non sprecarlo. Era affascinata dai suoi discorsi e voleva ascoltarlo ancora.

Quando rientrò in salotto la conversazione era ripresa intorno al lavoro al porto. Carlo stava rispondendo a una domanda di Frank.

«... È faticoso, questo sì, ma quando si lavora bene e con gente in gamba tutto è più semplice. Te l’ho detto: ho la fortuna di avere per capitano un uomo che stimo molto».

L’occasione era sfumata. Abbattuta, si mise nuovamente a sedere e lasciò che Frank continuasse a fare domande su questo Capitano.

«... Nooo. La moglie ha un negozio di profumi dalle parti del teatro degli italiani. È una donna molto delicata, non potrebbe mai lavorare nelle cucine di una nave. Quella è una mansione da uomini».

Non poteva insistere oltre, doveva permettergli di liberarsi.

«Sei fortunato, Frank, tua moglie è un’ottima cuoca. Complimenti, Benedetta, anche il dolce era veramente buono. Però ora vi devo proprio lasciare. Zia, voi che fate? Uscite con me o vi trattenete ancora?».

A Benedetta sfuggì un profondo sospiro. Era ancora turbata dai discorsi del cugino.

Si salutarono sulla soglia.

«A me Carlo sta proprio antipatico. Parla come se sapesse tutto lui. “E io ho fatto di qua e io ho fatto di là”... non si è azzittito mai!».

Non avevano fatto in tempo a chiudere la porta che la voce astiosa del marito la investì. Lo guardò con rabbia e la sua faccia si piegò in una espressione di disgusto. Non avrebbe dovuto rovinare quel momento. La voce le uscì cattiva: «E tu che ne sai, Frank? Forse credi di essere tu a sapere tutto? Non ti sei ancora accorto di non avere tutte le rotelle a posto? Ah, non te lo ha detto la mammina? Non ti ha detto che sei scemo?!».

La parola scemo rimbalzò sulle pareti della stanza. Benedetta si sentì stordita dalla sua stessa violenza. Frank rimase fermo e in silenzio di fronte a lei, i suoi occhi avevano perso qualsiasi espressione. La guardava immobile.

Cosa aveva fatto? Che cosa aveva detto?

Erano in piedi l’uno di fronte all’altra; sul viso dell’uomo stava formandosi un’espressione smarrita che le fece salire le lacrime agli occhi. Gli buttò le braccia al collo. «Ma che fai?». Il pianto le striava il volto. «Che cos’è quella faccia? Era uno scherzo! Non l’hai capito? Stavo scherzando! E poi hai proprio ragione, quel Carlo non piace neanche a me. Non invitiamolo più. Eh, Frank? Me lo prometti che non gli dirai più di venire a casa nostra? Me lo prometti?».

Titubante, ancora perso, le disse di sì, che glielo prometteva.

Benedetta avrebbe fatto di tutto e detto di tutto, ma già sapeva che quel dolore non poteva più essere cancellato.

Nei giorni successivi, si accorse di tornare continuamente sui discorsi di quella sera. Sentiva che qualcosa dentro di lei era cambiato. Le parole di Carlo avevano lasciato un segno.

Cominciò a non dormire, passava le notti seduta su una sedia di fronte alla finestra aperta. Ripensò alla sua adorazione per Maria e per la prima volta si chiese se in lei non ci fosse qualcosa di sbagliato. Si ricordò della frustrazione del fratello quando, da bambino, tornava a casa con il labbro spaccato. E anche dell’amore della madre per Mr Penn. E poi ancora pensò alla sua brama per Maria.

Ripensò anche a se stessa e alla poca cura che aveva avuto di sé: non si era mai interessata a niente, non sapeva leggere, non aveva mai coltivato un’amicizia. Si disse che era cresciuta come avrebbe potuto fare una pianta; non aveva aggiunto e non aveva tolto, si era solo adeguata.

Ma la domanda che più le premeva era: cosa avrebbe potuto fare per migliorarsi? Più la questione rimaneva senza risposta e più sentiva crescere l’abbattimento. Lei non poteva girare il mondo né conoscere persone nuove. A cosa le serviva, allora, tutto questo? Decise che era meglio lasciar perdere, tanto era tutto inutile.

Si buttò sul lavoro. Cominciò a cucire con la stessa foga della madre che, una mattina, la elogiò facendole notare che il suo punto non era mai stato così preciso. La sua casa era sempre pulita e la cena pronta alla stessa ora.

Passò così tutta l’estate e oltre. Poi arrivò il 14 ottobre 1929.