CAPITOLO XV

Il tempo era cambiato di colpo, passando da un autunno mite a un gelido inverno. Così, senza preavviso. Benedetta iniziò la giornata come sempre: si svegliò presto, preparò la colazione, indossò i suoi insignificanti abiti e uscì di casa.

Ma quel 14 ottobre non andò da sua madre. Arrivò titubante nelle vicinanze, si dondolò un po’ all’angolo della strada ma poi imboccò la direzione opposta. Senza averlo deciso, si ritrovò a camminare spedita per strade che non aveva mai visto. Sentì il freddo sul viso e rabbrividì.

Ci aveva provato, ma non ce la poteva fare. Il solo fatto di aver intuito di avere ancora una possibilità per cambiare, l’aveva turbata così profondamente che non le era più possibile fingere. In quei mesi aveva solo soffocato un’irrequietezza che ora non le era più possibile frenare.

Con la bocca aperta, fece entrare l’aria fino a quando la gola fu talmente secca che la tosse quasi la strozzò. Imbucò vicoli scuri che prima avrebbe avuto timore solo a guardare. Con la testa svuotata da tutti i pensieri, camminò così tanto che, quando tornò a casa, le facevano male le gambe.

Quella sera, a casa con Frank, si comportò normalmente e non raccontò nulla. Quasi non pensò a quello che aveva fatto. Aveva un segreto, già bastava.

Il giorno dopo non andò al lavoro e neanche quello successivo. Proseguì nei suoi vagabondaggi senza meta e senza senso. La credevano in un luogo e lei era in un altro, pensava sorridendo mentre camminava spedita.

La sera del terzo giorno era in cucina a lavare i piatti. Aveva la testa leggera e si sentiva proprio bene. Poi udì bussare alla porta.

«Ciao Frank, scusa l’ora. Volevo vedere come sta Benedetta».

Si era dimenticata della madre! La precedente leggerezza sparì in un attimo e la paura le tirò le labbra. Come una furia si precipitò in salotto con le mani che le tremavano. «Ora sto bene, mamma, grazie».

Lucia e il marito la guardarono stupiti. «Non mi avevi detto di essere stata poco bene».

«Infatti era una sciocchezza. Davvero, va tutto bene. Oggi mi sentivo così e così ma ora è passato tutto. Sarà stata un po’ di stanchezza». Parlava con un po’ di affanno. Nella sua testa cominciarono ad affollarsi possibili scuse ma era tutto troppo precipitoso. Si chiese come fosse possibile che non avesse pensato a nulla prima, come avesse fatto a essere così idiota. Ora la madre era lì e la guardava con sospetto. Si rese conto che doveva apparire parecchio strana ai loro occhi.

Si bloccò, fermò i pensieri, le scuse, e guardò la faccia triste e rugosa della donna e quella giuliva di Frank. Le labbra si distesero e le mani smisero di tremare. Non era colpa sua se al timore si stava sostituendo qualcosa di nettamente diverso: era eccitata dalla situazione, non poteva farci niente.

«... Forse ultimamente ho lavorato troppo».

Le uscì così, l’aveva detta e basta. Per un momento pensò che sarebbe rimasta sconvolta dalla sua stessa audacia e invece sentì solo crescere l’adrenalina. Le venne quasi da ridere, era una sensazione bellissima. Guardò la madre che la fissava incredula. Stava giocando con la realtà e non riusciva a preoccuparsi delle conseguenze. Anzi, aveva una voglia irrefrenabile di andare avanti, di eccedere.

«Sai Frank, anche la mamma ha detto che non dovrei più lavorare così tanto. Non ho mai fatto una pausa ed è normale se poi mi vengono nausee e giramenti di testa». Era in balia della sua stessa eccitazione.

«Tesoro, ma certo! Io non voglio assolutamente che ti affatichi troppo! Anzi, d’ora in poi credo che dovresti lavorare solo mezza giornata e il resto del tempo dedicarlo alla casa e alla famiglia!».

Subito non capì. Le ci volle un attimo perché il cervello si snebbiasse e intuisse cosa intendeva il marito. Ma quando ci arrivò, il mostro che aveva dentro era già uscito. Il mio maritino ne ha dedotto che sono incinta, pensò cattiva e quasi stordita dalla beatitudine. Per un momento, si credette quasi onnipotente.

Inspirò profondamente, inebriata. «Grazie tesoro. Vedrai che non ti pentirai di questa decisione. Mamma, ti prego, ora scusaci ma siamo stanchi e vorremmo andare a dormire». Fece una lunga pausa, il sangue già saturo di adrenalina. «... Non vorrai mica che domani faccia tardi a lavoro?». Non riusciva più a fermarsi.

Lucia la guardò inorridita e riuscì a malapena a balbettare qualche parola di saluto in direzione di Frank. Si avviò verso l’uscita come se il pavimento bruciasse ma, prima di varcare la soglia, si fermò girandosi verso la figlia che l’aveva seguita fino alla porta. Le rivolse uno sguardo di profondo disprezzo. «Mi hai fatto vergognare di essere tua madre».

Benedetta traballò. L’adrenalina scomparve in un attimo e vide in quegli occhi il riflesso del suo comportamento. Era come aver ricevuto uno schiaffo. Tornò alla realtà in un attimo. Cosa le stava accadendo? Perché succedevano quelle cose? Guardò la madre e avrebbe voluto dirle che non era colpa sua, che era come se ci fosse un’altra persona dentro di lei che la spingeva a dire e a fare tutte quelle cose brutte.

Balbettò. «Ma io... non... non...».

Il volto della donna non cambiò espressione, rimase impietrito in una piega di disgusto. Si girò e cominciò a scendere le scale. Benedetta rimase appoggiata all’uscio fino a quando Lucia non sparì dalla sua vista. Sentiva il viso bruciarle.

Lentamente richiuse e si guardò intorno con gli occhi persi in cerca di Frank che, nel frattempo, era andato in camera. «Benedetta vieni qui, ho scaldato bene la tua parte del letto».

Lo trovò che aspettava sotto le coperte. Si spogliò degli abiti che aveva indosso e mise la camicia da notte con l’impressione che fosse di piombo. Le veniva da piangere ma non voleva che lui se ne accorgesse. Le lenzuola frusciarono quando si infilò al suo fianco. Un piacevole tepore l’avvolse e le braccia di Frank che la circondarono le diedero un brivido. Chiuse gli occhi e sentì le lacrime scivolarle sulla pelle.

Le dita ruvide del marito la ancoravano alla realtà. Lasciò che fosse solo la pelle a vivere e, senza smettere di piangere, dimenticò tutto.

Il mattino seguente si avviò verso la casa della madre con le gambe molli; temeva il confronto e pensava a una possibile giustificazione per il suo comportamento. Arrivò di fronte all’appartamentino al piano terra ed entrò.

La madre era seduta al tavolo, al solito posto, intenta a cucire. Sollevò appena gli occhi nella sua direzione per chinare subito dopo la testa. Silenziosamente, Benedetta occupò la sua sedia attendendo la sfuriata che era certa sarebbe arrivata da un momento all’altro. Passò un’ora, poi due, poi tre. La donna aveva deciso di non rivolgerle la parola.

All’ora di pranzo andò via salutando appena. Si avviò tra la gente e il caos del quartiere piena di sconforto. Non lo fece apposta, ma era talmente assorta che sbagliò strada. Proseguì senza riflettere. Si sentiva sola e incerta, in balìa di sensazioni nuove che la travolgevano. Le sue reazioni, che arrivavano così improvvise e dirompenti, la impaurivano. Reagiva alle emozioni in maniera del tutto incontrollata e averne la consapevolezza non la metteva al sicuro. Era diventata pericolosa, anche per se stessa. Scrutò le persone per strada e si chiese se anche per gli altri era così o era solo lei che stava impazzendo.

Ma la cosa preoccupante era che dentro di sé sapeva che non era finita lì. Avrebbe voluto prendersi a schiaffi, ma già avvertiva l’astinenza dall’adrenalina che aveva solo assaporato.

Seguitava a camminare con le gambe che andavano da sole. Girando così, senza meta, imboccò un vicolo semi deserto e poi una strada da dove arrivava diretto il vento del mare. Si inoltrò incurante del freddo. Gli edifici erano attaccati l’uno all’altro e incombevano su di lei. Da un portone uscì di corsa un ragazzino con i capelli biondi che per poco non le venne addosso. Riuscì a schivarlo facendo un balzo indietro e lui, sempre correndo, si girò gridando che doveva guardare dove camminava. Ebbe voglia di inseguirlo e picchiarlo, ma si strinse nella giacca e proseguì fra i pezzi di carta che le svolazzavano attorno alzati dal vento. Il ragazzino doveva aver girato da qualche parte perché la strada era nuovamente deserta. In fondo, la fine dei palazzi annunciava il mare.

Affrettò il passo dopo essersi liberata di un volantino che le si era appiccicato alla gonna lunga fino ai piedi. I suoi abiti avevano gli stessi colori smorti degli stabili e della strada; se si fosse poggiata a un muro scrostato avrebbero notato solo la sua pelle bianca.

Uno spruzzo spumoso si alzò davanti a lei, era arrivata al mare. Si avvicinò all’argine fermandosi a guardare le onde che caricavano all’orizzonte per poi rompersi sotto i suoi piedi alzando nell’aria una nebbiolina di appiccicosa acqua salmastra. Inspirò a fondo.

Rimase ferma lì a pensare senza convinzione che sarebbe stato bello concludere così, finire tutto in un attimo.

Nel cielo grandi nuvole bianche si muovevano cambiando continuamente forma e il vento le scompigliava i capelli. Ripensò alla casa della sua infanzia dove niente era mai cambiato, dove tutto era sempre nello stesso posto. Invidiò la bambina ignara del mondo che era stata, avrebbe dato tutto per poter tornare indietro nel tempo fino a quegli anni.

Sospirò rumorosamente.

Quella zona di lungomare era molto isolata ma si accorse che i pochi passanti la osservavano. Un uomo alto con cappello e soprabito marrone si fermò in un angolo a guardarla. Forse crede che sia sul punto di buttarmi fra le onde, pensò.

A malincuore, riprese a camminare seguitando a costeggiare il mare. In fondo intravedeva le grandi navi attraccate alla banchina. Sbirciò dietro di sé per vedere se anche il signore con la bombetta si fosse mosso e rimase stupita non vedendolo più. Si fermò per voltarsi completamente. Le venne un tuffo al cuore accorgendosi che ora quell’individuo si trovava esattamente dietro alle sue spalle. L’uomo si piegò in un leggero inchino portandosi un dito alla falda del copricapo.

Il cuore cominciò a batterle velocemente. Affrettò il passo ma le gambe le si erano fatte molli. Il vento la spinse lateralmente e gli spruzzi del mare le offuscarono la vista, vedeva solo i grigi palazzi che si affacciavano sul mare con le finestre chiuse. Non c’era nessun altro oltre loro due.

Era terrorizzata.

L’uomo, sempre dietro di lei, le fece un cenno con la testa. Non poteva farcela, la paura le toglieva le forze. Si sentiva in trappola. Una banda di ragazzini uscì improvvisamente da una strada correndo e schiamazzando. Riconobbe il biondino di poco prima che le fece un cenno di saluto senza smettere di correre. Rispose agitando con foga la mano ma dopo pochi secondi erano nuovamente scomparsi dalla sua vista.

Pregò che quell’incontro avesse scoraggiato il tizio con il cappello. Si voltò ma lui con la testa le fece cenno di cambiare strada. Aveva la faccia seria.

Due figure scure che camminavano una dietro l’altra a non più di due passi di distanza. Tremò di spavento. Guardò avanti: il porto era sempre più vicino. Ancora un po’ e sarebbe stata salva. Quell’evidenza fu chiara anche al suo inseguitore che, improvvisamente, l’afferrò per un braccio e cominciò a trascinarla nella direzione opposta. Benedetta, impietrita dal terrore, per qualche metro non riuscì a opporre resistenza, fissava la pelle liscia della mano che le stringeva il braccio lasciandosi trasportare. Una mano da ricco, si disse.

Il fischio improvviso di una nave la scosse dalla rassegnazione. Sentì tornare le forze e si divincolò dalla stretta. Cominciò a correre nella direzione da cui proveniva quella sirena. La gonna le impediva i movimenti infilandosi fra le gambe a ogni falcata, ma ugualmente non rallentò. Corse come non avevo mai fatto in vita sua e andò avanti anche quando il cuore cominciò a battere tanto forte da farle male e l’aria non riusciva più ad arrivarle ai polmoni. Il rumore sordo dei piedi che battevano sull’asfalto pareva più forte di quello del mare. Gli occhi le lacrimavano per il vento e le vecchie scarpe che indossava stavano per cedere, ma si fermò solo quando raggiunse l’ingresso del porto.

Si fermò ansimando e finalmente si voltò indietro: nessun uomo con il cappello l’aveva seguita. Le gambe le tremavano ancora e grondava sudore. Si sentì svenire. Traballando raggiunse una cassa in un angolo dove si sedette cercando di recuperare il fiato. Le sembrava che il batticuore e il sudore non si sarebbero mai più arrestati.

Al porto erano attraccate grandi imbarcazioni scure e, più in fondo, piccoli pescherecci. Una miriade di gabbiani punteggiava il cielo. Dai comignoli di alcune navi si levava un fumo denso che impregnava l’aria con l’odore di bruciato.

Il grande spiazzo di fronte a lei pullulava di gente in corsa da una parte all’altra ed era ingombro di grandi casse di legno. Rimase ferma per parecchio tempo, anche quando il suo cuore riprese a battere regolarmente e, non solo smise di sudare, ma cominciò ad avere anche freddo.

Aveva paura di lasciare il suo rifugio. Tornare a casa le appariva un’impresa titanica, qualcosa, in quel momento, completamente al di là delle sue forze. Piuttosto che provarci, sarebbe morta lì. Doveva trovare una soluzione.

Carlo.

Le venne in mente solo lui. Sicuramente non era ancora ripartito. Si alzò sentendosi già meglio. «Mi scusi, sto cercando una persona... un marinaio, si chiama Carlo». Senza riflettere, aveva fermato il primo tizio in divisa che le era passato davanti.

«Carlo come?».

Si rese conto di non conoscere il suo cognome. Carlo, il figlio di una sorella della madre di Frank. «Non... non so... È alto, con gli occhi neri».

Il sorriso ironico dell’uomo la fece arrossire. Di fronte a quella che considerò la conquista di una notte, il suo atteggiamento cambiò. «Carina, non so proprio come aiutarti: ce ne saranno dieci di Carlo qua dentro e non so quale sia il tuo... quello con gli occhi neri». Scoppiò a ridere imitando la sua voce.

Benedetta diventò paonazza, ma doveva tornare a casa. Si concentrò.

«... Allora saprebbe dirmi dove posso trovare il Capitano?».

Il tipo quasi scattò sull’attenti e le indicò una baracca bianca in lontananza mentre già scappava via. Benedetta riuscì a malapena a ringraziarlo. Lui portò la mano al cappello e sparì.

Incerta, si avviò verso la costruzione che le aveva indicato. Per farsi forza pensava al lungo tragitto che la separava da casa e al sole che stava ormai per calare: era necessario che trovasse qualcuno disposto a riaccompagnarla.

Bruciò l’ultimo scampolo di determinazione entrando nella Capitaneria. Sei paia di occhi si voltarono verso di lei annichilendola. Ferma sulla soglia non riuscì a dire neanche una parola, era completamente ammutolita e avvampò di nuovo.

Uno dei tre uomini, quello più anziano, si alzò dalla sedia per andarle incontro. La guardò con aria preoccupata.

«Prego, signorina, si accomodi. Posso esserle utile in qualcosa?».

Benedetta si sentì subito meglio. Lasciò che la conducesse verso la sedia su cui si abbandonò con un profondo sospiro. L’uomo sorrise.

Sul lato opposto all’ingresso c’erano una scrivania e alcune sedie; vicino alla porta un attaccapanni carico di cappotti blu e un alto mobile in legno. Alcune cartine erano appese alle pareti.

«Vuole bere un po’ d’acqua?».

Si rese conto di avere la bocca asciutta fino all’inverosimile. Fece segno di sì con la testa.

L’uomo le diede un bicchiere che lei mandò giù chiedendone subito un secondo. Bevendo si disse che era il momento di concentrarsi su ciò che avrebbe detto. La verità non andava bene, doveva inventare subito una storia plausibile. Era assolutamente necessario.

«Io... io ero uscita per andare a trovare un lontano parente che non sta bene. Ma mi sono persa, sì, mi sono persa. Ho girato così tanto per trovare la strada giusta che si è fatto tardi... e ormai la zia sarà in pensiero. È molto anziana e sola... Ha solo me». Parlando sorseggiava ancora il secondo bicchiere d’acqua. Prendeva tempo.

«Mi dispiace... Io sono il Capitano di questo porto». Benedetta sentì un tuffo al cuore. «E può stare tranquilla perché non lascerò che una giovane donna si perda di notte in una città come questa. Dove abita?».

Piena di gratitudine per quell’uomo che le aveva creduto subito senza fare domande, indicò genericamente il suo quartiere.

«Ne ha fatta parecchia di strada. Troveremo qualcuno che possa accompagnarla, stia tranquilla. Come si chiama, signorina?».

«Maria. Mi chiamo Maria».

Quel nome le uscì spontaneo, come la storia della vecchia zia e del parente malato, ma il solo pronunciarlo, il poter essere per quelle persone, anche se per pochi minuti, Maria, le diede una scossa di adrenalina.

Dal più totale sconforto, era passata in un attimo all’estasi.

Improvvisamente Carlo, che fino a pochi minuti prima aveva rappresentato la sua salvezza, divenne un nemico in grado di smascherarla e toglierle il piacere di essere per quegli uomini non la “Benedetta sposata con un ritardato” ma la favolosa Maria. Finalmente non c’erano né madri né mariti a farla sentire colpevole. E Carlo, adesso, era l’ultima persona che voleva vedere.

Doveva andare via alla svelta.

«Sul lungomare... un uomo... Un uomo mi ha seguita. Ho avuto paura».

Il Capitano la fissò e la sua faccia era diventata in un attimo seria e accigliata. Scosse la testa.

«Signorina Maria, se me lo permette, vorrei riaccompagnarla io. Direi che per oggi ne ha viste abbastanza. Marinaio, fai preparare la mia vettura».

Benedetta ringraziò sinceramente grata a quell’uomo. Dopo pochi minuti, uscirono dalla Capitaneria. Benedetta, fingendo di sistemare i vestiti, si guardava intorno con circospezione. Odiava Carlo, come se già l’avesse riconosciuta e resa ridicola di fronte a quella gente. L’odiava come se avesse detto che solo lui poteva inventare la realtà.

«Prego, salga pure». Il Capitano aveva aperto lo sportello della sua Ford modello T nera. Non era mai salita su una macchina e ne fu impaurita. Esitò.

«Non si preoccupi, è un mezzo sicurissimo; poi con me alla guida potrebbe anche mettersi tranquillamente a dormire».

«Grazie, Capitano». Si issò sul sedile chiedendosi dove potesse tenersi. Era molto nervosa.

«Guardi, metta le mani qui e si tenga forte. E non abbia timore, può fidarsi di me».

«Sì, certo. Certo, mi fido». Ormai doveva andare fino in fondo a quella giornata che pareva non finire mai.

Fu bellissimo: la vettura partì adagio e, subito fuori dal porto, imboccò la strada in direzione della zona che aveva indicato. Dopo un breve tratto a scossoni, ebbe l’impressione che scivolassero sull’olio. Era elettrizzata. Al Capitano nominò una via nei pressi della sua, per evitare di essere notata insieme a lui. Già non sapeva come giustificare la sua assenza, non poteva anche essere vista in macchina con uno sconosciuto.

«Sua zia è molto anziana?».

«Chi?». L’eccitazione l’aveva confusa.

«Sua zia, ha detto di vivere con una zia».

«Certo! Sì, ormai è vecchia, ma è l’ultima parente che mi è rimasta. I miei genitori sono morti».

«Mi dispiace».

«È successo molto tempo fa, li ricordo appena».

«Capisco. E non è fidanzata?».

«No».

«Capisco».

«Pensavo che facesse più paura andare in macchina! È divertente! La gente sembra stranissima da qua!». Guardava fuori dal finestrino e aveva l’impressione che corressero come il vento. Ogni tanto incrociavano altre vetture – in quegli anni l’auto era diventata già un mezzo di trasporto comune – ma le sembrò che nessuna fosse bella come quella del Capitano.

L’emozione che provava nello stare seduta su quel sedile era forse anche più forte della paura per l’uomo con il cappello marrone.

«Si vede che lei è una ragazza coraggiosa; anche inoltrarsi da sola per la città per andare a trovare un parente... A proposito, spero non sia grave».

«Be’, purtroppo si tratta di una persona molto anziana. Comunque non è proprio un parente, diciamo più un amico di famiglia». Ci teneva, senza sapere bene il perché, a sottolineare di essere quasi sola al mondo. Voleva che, per quell’uomo, lei fosse una ragazza che doveva rendere conto della sua vita solo a un’anziana signora. Le sarebbe piaciuto fosse stato veramente così.

«Siamo quasi arrivati. Ora mi indichi la sua traversa».

«Sì. È un po’ più avanti... eccola, è quella!». Indicò una via a un paio di isolati da casa.

Il Capitano accostò e l’aiutò a scendere. «Signorina Maria, è stato un piacere conoscerla ed esserle d’aiuto. Spero che la prossima volta che andrà a trovare l’amico di famiglia passerà al porto per salutarmi. Ma mi raccomando, venga di mattina!».

«Volentieri. La ringrazio tanto di avermi accompagnato. Era la prima volta che salivo su una macchina. Lei è una persona veramente gentile».

«È stato un piacere. Arrivederci».

«Arrivederci». Si voltò inoltrandosi per la stretta via.

Camminava lentamente con lo stomaco scombussolato, attendendo che il rumore dell’auto fosse lontano. Quando fu sicura di non essere più in vista, girò e tornò indietro di corsa, cercando di arrivare il più velocemente possibile.

Nonostante fosse tardi, la fortuna volle che Frank non fosse ancora tornato. Imbastì rapidamente qualcosa per la cena. Era andato tutto bene. Era euforica.

Il mattino successivo, di buon’ora, si trovava nei pressi della casa della madre. Si strinse nel cappotto scuro e rimase per qualche secondo ferma di fronte l’abitazione osservando gli uomini infagottati nelle pesanti tute grigie da lavoro che si affrettavano in direzione della fabbrica. Com’era lontano il porto...

Senza entusiasmo, varcò la soglia salutando a mezza bocca. Lucia non rispose. Benedetta occupò il suo posto e rimase in silenzio anche lei. Si chiese cosa avesse deciso di fare e cucì spiandola di sottecchi. Niente. Anche quella giornata passò senza che la madre le dicesse una sola parola.

Quando Benedetta uscì, non la salutò neanche. Ma lei si sentiva sollevata: non aveva mai discusso con la madre e non sapeva neanche come si facesse. Sapeva di non poterle spiegare quello che le stava accadendo; non poteva parlarne con nessuno perché nessuno avrebbe capito, sarebbe stata giudicata e basta. Era bastato quel primo scontro per sconvolgere il loro rapporto, la sentiva sempre più un’estranea e anche Lucia doveva provare la stessa sensazione nei suoi confronti.

Nel pomeriggio non fece alcuna passeggiata; il cielo era coperto e l’aria fredda e appiccicosa. Dopo aver fatto la spesa si dedicò alla casa.

Si sentiva irrequieta, attorno c’era troppo silenzio. Dimenticò la madre e ripensò alle emozioni del giorno precedente. Essere Maria per qualcuno, anche se per poche ore, era stato bellissimo. Non si era limitata a immaginarsi di essere lei, questa volta lo era stata realmente. Frank, naturalmente, non si accorse di niente.

Quella sera preparò una minestra di fagioli e patate che le aveva insegnato la madre e apparecchiò la tavola con una certa cura. Cambiò abito, togliendo la gonna marrone che indossava di solito e mise, nonostante il gelo, un vestitino più leggero. Si sentiva in colpa nei confronti di Frank e cercava di compensare in qualche modo la sua falsità.

«Brava Bennina, questa minestra è proprio buona».

Poveraccio pensò.

«Grazie. È una ricetta della mamma, una vecchia ricetta italiana». Le venne in mente la faccia spenta di Lucia.

«E tuo padre?» chiese Frank. «Non mi hai mai parlato di lui».

Benedetta gli lanciò un’occhiataccia, non le piaceva toccare quell’argomento. «Non so niente di lui» tagliò corto sperando che la finisse lì, ma il marito si dimostrò molto interessato.

«Qualcosa saprai».

Benedetta sbuffò seccata. «Non sappiamo neanche se sia ancora vivo».

Frank la incalzò: «Ma quando l’hai visto l’ultima volta?».

Rassegnata, la moglie sospirò. «Qualche anno fa, una vicina di casa che aveva procurato parecchi lavoretti a mia madre ci disse di averlo visto insieme a una donna e due bambini, ma comunque... da noi non si è fatto mai più vedere».

«Vi ha abbandonato...» borbottò lui.

«Sai, le donne della mia famiglia hanno fatto sempre questo mestiere. Cucivano tutte, proprio come mia madre e me».

Benedetta aveva cambiato argomento con disinvoltura. Il padre le era mancato quando era una bambina e oramai non ci pensava più, ma parlando di lui le erano venuti in mente storie ben più interessanti, come quelle sulla famiglia di origine di sua mamma. Quando Lucia le raccontava della madre, di sua nonna, delle zie, si animava e diventava loquace. Erano donne favolose che cucivano e cucinavano divinamente. C’era anche una sua lontana zia che aveva fatto gli studi ed era diventata medico; probabilmente l’unico dottore donna di tutta l’Italia meridionale.

Ascoltando quelle storie, Benedetta si era sempre chiesta come avesse fatto il padre a convincere Lucia ad andarsene dal suo paese per seguirlo in quel viaggio infinito, abbandonare quei parenti meravigliosi per ritrovarsi lì da sola. Doveva essere bello avere una grande famiglia, pensava.

«Una famiglia di sarte...» aggiunse guardando nel vuoto.

La voce di Frank la riportò alla realtà. «Così, se sarà femmina, cucirà anche lei».

Lo guardò attonita: aveva dimenticato che pensava fosse incinta. In un lampo capì che doveva nascondergli il ciclo che le era arrivato proprio il giorno prima... Si agitò sulla sedia. «Certo...». Avvertì il pallore sbiancarle la pelle.

«Cosa c’è? Mi sembri stanca, va’ a stenderti sul sofà. Ci penso io a sparecchiare».

Era premuroso, come sempre. Le vennero le lacrime agli occhi. Per tentare di nasconderle, si stese subito sul divano e poggiò le mani sulla sua pancia. Frank si avvicinò e ci posò sopra la sua. Per fortuna aveva gli occhi chiusi, pensò nella disperazione. Cosa poteva fare? Tentare di rimanere incinta sul serio o fingere un aborto spontaneo?

Sapeva bene come funzionavano queste cose, la madre le aveva spiegato tutto. Lucia era partita dall’Italia troppo giovane e non aveva avuto nessuno al fianco che la aiutasse nelle sue decisioni; una volta le disse che se avesse conosciuto un sistema per abortire, non l’avrebbe mai partorita. Desiderava che, almeno la figlia, fosse pronta.

«Hai ragione, non mi sento molto bene. Se non ti dispiace, andrei subito a dormire». Aveva bisogno di tempo, doveva riflettere per prendere una decisione sensata senza dimenticare che la madre sapeva bene che si trattava solo di una buffonata.

«Ma certo! Mettiti subito a letto e cerca di dormire. Hai bisogno del massimo riposo».