CAPITOLO XVII

Da quando aveva ottenuto la possibilità di lavorare solo mezza giornata, la vita di Benedetta era veramente cambiata. Il tempo, prima, non era mai stato tra le sue disponibilità. Era una sensazione nuova e appagante.

La prima attività a cui si dedicò fu l’ozio. Passò interi pomeriggi stesa sul divano o sul letto. Si metteva prima su un fianco, poi sull’altro, poi a pancia in su. Camminava per casa strisciando i piedi e dondolando la testa e poi si ributtava sul divano. Sognava a occhi chiusi.

Dopo circa una settimana decise che doveva aggiungere qualcosa. E sapeva già cosa.

Eccitata, quella sera stessa disse al marito che era arrivato il momento di imparare seriamente a cucinare piatti italiani, disse che avrebbe domandato aiuto a sua madre. Con suo grande sollievo, la suocera rispose di essere già troppo impegnata con il negozio del fratello e con il marito, però conosceva una signora italiana che, dietro un modesto compenso, faceva lezioni di vario genere.

Dopo pochi giorni tornò da Benedetta e le comunicò di averle fissato un appuntamento per il pomeriggio seguente. Venne lei stessa a prenderla l’indomani all’ora prestabilita. L’abitazione dell’insegnante era a poche centinaia di metri.

Lungo il tragitto la suocera non fece che parlare di Frank come se lei non fosse la moglie ma una conoscente di passaggio. Disorientata, Benedetta seguitava ad annuire. Dopo aver lodato le doti di orologiaio di Frank, sottovoce le disse che, secondo lei, la giovane figlia del falegname si faceva vedere spesso in negozio perché se ne era innamorata. La risatina che le uscì spontanea a quella confidenza sembrava il verso di un suino sgozzato.

Quella donna la disgustava. La pelle liscia e bianca – stirata dai chili di troppo – era talmente sottile da farle temere che fosse possibile vedere gli organi interni in trasparenza. Provava orrore all’idea della sua nudità e bastava che scoprisse distrattamente un braccio per farle volgere lo sguardo dall’altra parte. Ma la donna amava tanto quella sua pelle così fine che la difendeva dagli agenti esterni e dall’invecchiamento con furia maniacale e soffriva per ogni piccolo cedimento del suo enorme, candido corpo bianco. Nutriva un autentico amore per se stessa e non lo nascondeva.

«Se vuoi avere una pelle bella come la mia è necessario che ti curi di più, mia cara. Usi l’olio dopo il bagno?». Ogni volta che la vedeva, ricominciava con quelle raccomandazioni e, gesticolando, metteva in evidenza ora un braccio, ora il collo o una caviglia. Benedetta socchiudeva gli occhi per evitare che la trasparenza di quella pelle impudica le mostrasse il sangue scorrere nelle vene. Avrebbe voluto dirle che lei sapeva cosa fosse la bellezza e che la bellezza non ha bisogno di essere raccontata, descritta, propinata. La bellezza è lì, davanti a noi, e non deve dimostrare niente perché può dimenticarsi di sé. Esiste senza sforzo.

«Bene, cara. Ecco dove abita la tua futura insegnante di cucina».

L’arrivo fu per la ragazza una liberazione. L’esterno del palazzo versava in un pesante stato di degrado e l’interno era perfino peggiore. Salirono le scale fra pianti di bambini e odori stagnanti di cucina mescolati a quello pungente della spazzatura rancida abbandonata negli angoli. I gradini erano sudici e scivolosi ma, quando giunsero al terzo piano, vennero accolte da un pianerottolo lustro e in ordine.

L’appartamento era quello.

Bussarono alla porta. Dopo pochi secondi si aprì ed entrarono in un vano arredato poveramente ma estremamente pulito. Due sedie di legno e un tavolo riempivano quasi tutto lo spazio, mentre le pareti spoglie erano occupate solo da due vecchi armadi.

Lo squallore deluse Benedetta ma ancora di più, la deluse l’insegnante: una vecchina con lo sguardo spento che indicava le due sedute chiedendo di attenderla un momento mentre andava a prenderne una terza.

Cercò con lo sguardo un segno di conforto dalla suocera che, invece, si accomodò senza battere ciglio. Pensò tristemente che passare i pomeriggi con quella donna sarebbe stato ancora peggio che cucire con la madre. La vecchia tornò trascinando a fatica la sedia che posizionò vicino alla madre di Frank. Dopo qualche secondo di silenzio, fissò Benedetta con occhi acquosi e indifferenti. «Mia figlia sarà qui a momenti».

Non l’aveva neanche sfiorata l’idea che l’insegnante non fosse lei. Ricominciò a sentirsi piena di speranza e quando, un attimo dopo, sentì aprire la porta, si girò piena di curiosità: una signora sui cinquant’anni varcò la soglia puntando immediatamente gli occhi duri su di lei.

Benedetta l’adorò dal primo momento. Non aveva mai visto uno sguardo così impietoso in una donna. Magra, con la faccia abbronzata e i capelli corti e bianchi, indossava con indifferenza un paio di pantaloni e una camicia; non era per niente femminile e sembrava che la cosa non le interessasse. Dura e nervosa, pareva l’antitesi della brava massaia. Si presentò educatamente prima alla suocera poi a lei. Si chiamava Gabriella.

La conversazione che seguì fu tutta incentrata sulle modalità e il costo delle lezioni. Raggiunsero un accordo senza che Benedetta dicesse una sola parola: avrebbero cominciato il lunedì successivo, due ore per tre volte alla settimana.

La ragazza si era limitata ad annuire per tutto il tempo. Guardava Gabriella, ascoltava il suono della sua voce, seguiva il percorso della sua mano tra i capelli ispidi.

La sua futura insegnante si alzò e aprì uno dei due armadi: gli scaffali erano pieni di libri ordinatamente sistemati. Tirò fuori un quaderno e una matita e, quando si rimise seduta, tracciò velocemente dei segni su una pagina bianca. Benedetta spalancò la bocca e i suoi occhi si fissarono su quel foglio: Gabriella sapeva scrivere.

Accortasi della sua espressione, le rivolse il primo sorriso del pomeriggio. «Che c’è? Non hai mai visto una donna con una penna in mano? Non ti preoccupare, non è contagioso».

La sua durezza mista all’ironia ebbe l’effetto di una secchiata d’acqua fredda. Benedetta sentì la faccia avvampare e desiderò uscire dalla casa di quella persona così diversa da lei.

Prima di andare via, lasciarono un piccolo acconto con cui Gabriella avrebbe fatto la spesa per la prima lezione. La salutò stringendole la mano con indifferenza: era evidente che non aveva superato l’esame. Benedetta non se la prese: con un sorriso amaro pensò che, a esclusione di Frank, nessuno aveva mai avuto grande considerazione di lei.

La sera raccontò tutto al marito. Gli disse che avrebbe giudicato lui i suoi miglioramenti in cucina. Frank sorrise come un bambino. Comunicò la notizia anche a Lucia che però, fedele all’atteggiamento assunto nei suoi confronti, non commentò.

La mattina della prima lezione si svegliò elettrizzata, impaziente e spaventata dall’imminente incontro. Il volto di Gabriella le era tornato spesso in mente, quel suo sguardo cinico la faceva tremare di eccitazione.

Dopo il lavoro, tornò velocemente a casa. Si preparò con cura e, alle quattro in punto, era fuori dalla porta di casa di Gabriella. Questa volta fu lei ad aprire. Con un gesto, le indicò una sedia su cui poggiare la giacca. Deglutendo a fatica, Benedetta se la sfilò con mani tremanti.

«Allora, prima di iniziare vorrei verificare il tuo livello. Vieni, andiamo in cucina» le disse con voce piatta. Cercando di apparire disinvolta, Benedetta elencò una serie di pietanze che era in grado di preparare. Gabriella parve soddisfatta. Spiegò che, se lei era d’accordo, per il primo mese si sarebbero concentrate sui primi, per poi passare, quello successivo, ai secondi e poi, nel caso, ai dolci. Benedetta rispose che andava bene ma, in realtà, sarebbe stata d’accordo anche se le avesse detto che prima dovevano ridipingere la casa.

Gabriella possedeva una vastissima conoscenza della cucina italiana e aveva un grande libro in cui erano segnati ingredienti e dosi che sfogliava e leggeva con disinvoltura. Non esisteva approssimazione, tutto era scientificamente dosato e pesato.

Presto Benedetta dimenticò la paura e cominciò a immergersi sempre più nelle lezioni. Non aveva mai visto cucinare come faceva lei, in realtà non aveva mai conosciuto nessuno come lei.

«La cucina è un’arte a metà fra la matematica, la psicologia e la magia. Non bisogna mai abusare in nessun modo o il risultato sarà sempre approssimativo, magari buono, ma approssimativo. La matematica ti serve a capire che ci sono delle regole che, anche con le loro eccezioni, vanno rispettate; la psicologia per stabilire un contatto fra quello che si sta creando e il mondo circostante... e infine la magia. Non dimenticarti mai della magia perché solo con quella puoi raggiungere la perfezione, entrare in simbiosi con la pietanza e con chi la mangerà. Con il cibo puoi stregare, credimi. Ma ricorda che ognuna di queste abilità da sola non ti servirà a niente. Proprio come nella vita».

Durante quelle due ore, Benedetta sentì turbinare nella sua testa termini completamente sconosciuti, concetti in bilico fra il verosimile e l’inverosimile. Un semplice primo piatto era diventato il simbolo di una cultura di cui faceva parte senza esserne consapevole. Dimenticò ogni ansia: ora esistevano solo Gabriella e le sue parole. La sua regina.

Prepararono una portata a base di verdure bollite, lardo e pane raffermo, cui unirono piccole foglie profumate che la donna prese da alcuni vasi sul davanzale. «Devi mescolare sempre nello stesso senso... proprio come fa la terra intorno al sole».

«Questa è una verdura a cui devi fare sempre grande attenzione, non devi mai permetterle di prendere il sopravvento su quelle più deboli o le dominerà tutte. È prepotente ma tu puoi piegarla, puoi far sì che faccia solo quello che desideri».

«Con la cucina puoi amare o odiare, lo sai? Puoi anche togliere la vita, se vuoi. Perché tu sei il mago, sei l’artefice. Sappi, Benedetta, che in un piatto perfetto è racchiuso un grande potere e un grande mistero».

Il profumo della minestra impregnò così tanto la piccola cucina da darle l’impressione che, tutte e due sature degli stessi odori, potessero dimenticare le diversità e sentirsi unite. Alla fine, Gabriella sorrise e Benedetta si sentì morire. «Brava. Ci vediamo dopodomani».

Le consegnò un contenitore dove aveva versato quasi tutta la zuppa, lasciandone una parte per sé e la madre nella pentola. Nei suoi gesti asciutti non c’era nessun sentimentalismo o affettazione. Benedetta non poteva fare a meno di sentirsi in soggezione. Tornò a casa tenendo fra le mani il frutto di quella prima lezione, impaziente di mangiarlo per potersi appropriare un po’ della donna che l’aveva realizzato.

Quella sera preparò la tavola con cura, concentrandosi sulla ritualità dei gesti, con il desiderio di comunicare i suoi sentimenti. Non avrebbe mangiato una minestra: si sarebbe nutrita di natura, terra e storie ancestrali. A tavola condì ogni boccone con le parole di Gabriella e Frank si lasciò trasportare.

Servì il pasto pensando alle domeniche trascorse a messa, ai gesti del prete in piedi di fronte all’altare. Il rito era un linguaggio fatto di gesti ripetuti nei secoli e comprensibili a tutti. Gli uomini di chiesa hanno il compito di proseguire e trasmettere ciò che è stato iniziato consentendone la continuità. La Chiesa promette l’immortalità all’uomo e in questa promessa è racchiusa la sua eternità, e nel rito c’è la magia che avvolge tutto.

Guardò il marito che mangiava placido di fronte a lei. I suoi occhi azzurri brillavano di ingenuità. Un giorno lo farò soffrire. La certezza dell’ineluttabilità del loro futuro la scosse, già sapeva chi sarebbe stato l’agnello sacrificale.

Le venne la pelle d’oca e si alzò di scatto per sparecchiare.

Anche la seconda lezione ebbe effetti molto simili alla prima; lo stesso turbamento, lo stesso fascino. Prepararono un piatto a base di patate, verze e pancetta.

Benedetta le chiese come facesse a sapere tante cose.

«Tramite i libri» aveva risposto l’altra con indulgenza. «Nei libri puoi trovare tutto ciò che cerchi; puoi interrogare persone vissute duemila anni fa, oppure ancora in vita ma dall’altra parte del mondo. Loro ti daranno le risposte che vuoi ma, soprattutto, ti regaleranno nuove domande, quello che ancora non hai cercato e che neanche sai di voler cercare. Le domande sono il regalo più grande che una risposta possa darti».

Andarono avanti così lezione dopo lezione. Poi Gabriella fece qualcosa che avrebbe cambiato radicalmente la vita di Benedetta.

Era un mercoledì di novembre e la ragazza si recò dalla donna, come al solito, alle quattro del pomeriggio. Era sempre stata puntuale, quelle lezioni erano diventate il cardine delle sue giornate, Benedetta ne godeva come una assetata alla fonte.

Dal primo incontro era trascorso più di un mese e la ragazza era sempre più coinvolta e ascoltava tutto con grande attenzione. Gabriella la guardava e, a volte, sorrideva. Quel giorno, però, era diversa, sembrava arrabbiata. Parlò poco e i suoi gesti bruschi confusero talmente la ragazza da farle cadere un bicchiere che andò in frantumi ai loro piedi. Benedetta guardò le schegge sentendo il sangue ghiacciarsi nelle vene: deluderla era l’ultima cosa che avrebbe voluto.

«Sei una stupida».

Le parole le arrivarono dritte al cuore. Senza alzare la testa, sentì le lacrime bruciarle gli occhi. Ma Gabriella non aveva ancora finito: «Non per il bicchiere. Una ragazza che si accontenta di cucire e cucinare può essere solo una stupida. Ora va».

Quella sera, a casa, non mangiò e la notte non dormì. La sua testa era piena solo di Gabriella e di quello che le aveva detto.

Alla lezione successiva si presentò con le gambe che le tremavano. In un solo giorno, aveva perso tutta la disinvoltura che aveva guadagnato in quel mese e mezzo. Aveva di nuovo paura. Fu la donna ad aprirle la porta, come al solito. Benedetta entrò a testa bassa e subito si rese conto che c’era qualcosa di anomalo. Inspirò: ceci, patate, rosmarino. Gabriella doveva avere una nuova allieva che faceva lezione prima di lei. Tremò di gelosia.

Senza parlare, la maestra le fece segno di seguirla in cucina. Sul fuoco c’era una pentola in coccio. «Oggi abbiamo preparato una minestra di patate».

Benedetta la guardò senza capire.

«Sì, ho già fatto tutto io, perché ho deciso che ti insegnerò qualcosa di più importante di un miscuglio di ortaggi». La sua voce era insolitamente dolce. Non sembrava la donna glaciale che conosceva, era diversa. Il fremito appena percettibile del labbro e gli occhi lucidi avevano trasformato la sua fisionomia. Benedetta la guardava piena di meraviglia.

«Vuoi imparare a leggere?».

La domanda arrivò improvvisa nel silenzio sceso fra loro.

Non sono all’altezza.

Come l’avrebbe delusa? Provando o rinunciando subito? Perché, tanto, l’avrebbe fatto in ogni caso. La guardò piena di dubbi. Negli occhi di Gabriella trovò la risposta che doveva darle. Quella era l’ultima possibilità che concedeva a se stessa: avrebbe fatto tutto quello che poteva, l’avrebbe fatto anche per quella donna. Rispose piano, anche se avrebbe voluto che la sua voce fosse più alta; Gabriella si meritava che fosse più alta.

«Sì, mi piacerebbe molto. Grazie».

Da quel giorno la vita di Benedetta cambiò.

Nel novembre del 1929 in città si parlava della grave crisi che aveva già portato al licenziamento di tanti operai; si diceva che ancora molte altre fabbriche avrebbero chiuso da lì a poco se il presidente Hoover non avesse fatto qualcosa. Si diceva che si prospettava un inverno durissimo per tutti.

Era passato un mese dall’avventura al porto sotto il nome di Maria, dall’inizio del mutismo della madre e dalla convinzione – sempre più radicata ed esplicita di Frank – di essere in procinto di diventare padre. Ma tutto questo non le interessava più.

Benedetta divenne improvvisamente indifferente a tutto. Da quel pomeriggio a casa di Gabriella, l’unica cosa che le interessava erano i segni neri sulla carta che, lentamente e con fatica, cominciavano ad acquisire un senso ai suoi occhi. Da quel mercoledì le lezioni di cucina vennero sostituite da quelle di grammatica e sintassi ma, ogni volta, Gabriella le faceva trovare un piatto diverso già pronto sul fuoco in modo da farla tornare a casa con la prova tangibile del suo impegno gastronomico. Senza che se lo dicessero esplicitamente, sapevano entrambe che era meglio non dire niente a nessuno.

A casa Benedetta seguitava a pensare alle parole che aveva imparato, le tracciava con la forchetta sulla tovaglia o con il dito sul vetro. Per la prima volta nella sua vita capì che non sarebbe stata mai più sola, capì che le parole non l’avrebbero mai abbandonata.

La cosa più sorprendente fu rendersi conto che non stava deludendo la sua insegnante: lo leggeva nei suoi occhi, nei suoi gesti. La regina era felice di lei.

Il suo entusiasmo spinse la maestra a dare sempre di più, a procedere sempre più rapidamente e Benedetta imparava tutto in fretta, meravigliandosi lei stessa di cosa fosse capace. Le leggeva testi di filosofi greci e latini, autori francesi, russi. Lei ascoltava attenta e poi, a casa, ripeteva e si esercitava senza sbadigliare, senza distrarsi e farsi sconti.

Gli occhi di Gabriella brillavano. «Sono felice, Benedetta. Non avrei mai creduto che tu fossi così...».

«Sei brava, molto brava. Credo che, se andrai avanti così, fra poco non avrò più nulla da insegnarti».

Presto fu in grado, anche se lentamente, di leggere brevi testi anche di una certa complessità. Mentre l’ascoltava, gli occhi della maestra si inumidivano. Più di una volta, alla fine di una pagina particolarmente complessa, le strinse le mani con forza. La donna dura del loro primo incontro era scomparsa.

Un pomeriggio, alla fine di una lezione, Gabriella si alzò dal tavolo e aprì l’armadio alle sue spalle. Ne trasse un libro che posò di fronte a lei. «Questo è per te. Te lo regalo».

Benedetta rimase ferma a guardarlo per qualche secondo, poi lo prese cautamente fra le mani. Lo sfiorò dolcemente prima di leggere il titolo ad alta voce. «Don Giovanni di George Gordon Byron».

Si trattava di un volumetto sottile e ingiallito dal tempo. Lo sfogliò con il cuore che le batteva forte dall’emozione. Un libro tutto suo, il suo primo libro.

«L’avventura, Benedetta. Con i libri possiamo vivere tutte le avventure che desideriamo».

«Grazie, Gabriella. È il più bel regalo che abbia mai ricevuto».

E Benedetta fece qualcosa di inaspettato che sorprese anche lei stessa: abbracciò la sua maestra, e Gabriella rimase rigida e ferma, ma noncurante della sua reazione, l’allieva non lasciò la presa e si concentrò su quelle ossa spigolose che le facevano tanta tenerezza. Quando la liberò la guardò negli occhi tenendole ancora le mani. «Grazie».

“Sto cer... cando un eroe. Questo può sembrare... bizzarro... in... un’epoca in cui ogni anno, ogni mese, ogni giorno ci... offre un eroe nuovo... sino al momento in cui, avendo il suo ciarla... tanismo... ciarlatanismo riempito i giornali, il secolo si... accorge ch’era un eroe di cartapesta...”.

Lo lesse faticando e sforzandosi fino alle lacrime sulle parole più difficili, cercando di intuire il significato di quelle più ermetiche. Faticò e si entusiasmò, fremendo di rabbia e disprezzo, d’amore e d’odio. Non aveva mai provato tante sensazioni diverse tutte insieme: era quella la magia delle parole, si sentiva come se si fosse liberata dalla sua realtà per vivere in un’altra.

Tornò dalla sua insegnante quasi euforica. Parlarono del libro, Gabriella le fece tante domande e le spiegò il significato dei termini che aveva sottolineato. Aveva scelto il Romantico inglese per farle provare il piacere dell’avventura e del viaggio, le spiegò. Benedetta rispose che non si capacitava di come un libro potesse fare quell’effetto.

Ascoltandola, si accorse improvvisamente che non pensava più a Maria da tanto tempo. Il ricordo di lei l’investì senza una ragione apparente. Le parve quasi di udire il fruscio della stoffa mentre, una vicina all’altra, erano intente a cucire.

Chissà cosa avrebbe detto dei cambiamenti nella sua vita.

Quel pomeriggio si salutarono a malincuore e Benedetta portò a casa un piatto che non aveva idea di come fosse stato preparato. La sera a tavola non ascoltò neanche una parola dei lunghi discorsi di Frank. Poi arrivò la notte e nel buio capì, finalmente, che tutto era possibile: se non poteva averla, poteva essere lei stessa Maria.

La mattina dopo era il 10 febbraio del ’30. Lucia, dopo giorni e giorni di mutismo, le comunicò che la fabbrica tessile per cui lavoravano le aveva licenziate. La recessione, avevano detto. Avevano addirittura ritirato la stoffa che dovevano ancora finire di cucire pagando solo il lavoro già svolto. Non avevano più bisogno di loro.

Benedetta scoppiò a piangere anche se non sapeva bene perché: per i soldi, per la madre, oppure per la fine di qualcosa che aveva influenzato così profondamente la sua vita.

Guardò la madre fra le lacrime sperando che, almeno nel dolore comune, avrebbero potuto ritrovarsi ma il suo volto non tradiva alcuna emozione. Il suo unico compito era stato quello di comunicare la notizia e ora se ne stava seduta sulla sedia, con lo sguardo fisso e un po’ vuoto di fronte a lei.

Benedetta si chiese con un brivido come avrebbe riempito ora le sue giornate quella donna triste e sola. La madre, che aveva fatto tanti sacrifici per crescerla, per darle da mangiare, da vestire e pure un marito, stava per essere abbandonata alla sua solitudine. Per quanto terribile fosse, per quanto si sforzasse di convincersi del contrario, Benedetta già sapeva che l’avrebbe lasciata anche lei, che l’avrebbe liquidata proprio come avevano fatto quelli della fabbrica.

Asciugò gli occhi dalle lacrime che avevano già smesso di scendere. Si guardò intorno con una certa solennità, soffermandosi sullo specchio, sulle sedie e, naturalmente, su quel tavolaccio scuro. Infine, osservò la madre, i suoi capelli scompigliati e gli occhi velati, inespressivi e rassegnati. Si sforzò di ricordarla giovane e sorridente, ma l’immagine che la mente le riportava era quella di una donna da sempre vecchia. Passò la mano sulla superficie levigata del piano da lavoro sentendo che lo odiava, come odiava quell’appartamento e tutto quello che conteneva.

Uscì senza neanche far finta di salutare e, una volta in strada, si allontanò rapidamente, quasi correndo. L’aria era pregna del lezzo delle case e degli uomini: effluvi di cucina, sporcizia e urina. Conosceva bene quel tanfo per averlo respirato con disgusto ogni giorno della sua vita, era un odore talmente reale che non poteva pensare bastasse tapparsi il naso per non sentirlo. Quel fetore la stava mettendo in guardia: l’avvisava che dietro alla puzza d’urina e di sporcizia non si nasconde nient’altro che urina e sporcizia.

Corse sempre più veloce verso casa immettendosi nel flusso di persone indifferenti che scorreva sulla strada. Poco prima del suo isolato, si fermò nella bottega di un’anziana signora che vendeva gran gnocchi di patate preparati freschi tutte le mattine. Se ne fece incartare quattro, poi comprò una bustina di cannella e una di zucchero grezzo per il condimento; a Frank avrebbe detto che era stata lei a prepararli e, naturalmente, non gli avrebbe parlato del licenziamento.

La totale assuefazione alla bugia era iniziata.

La sera mangiarono il suo acquisto. Frank era di buon umore perché, nonostante la crisi generale, i piccoli artigiani seguitavano a lavorare. E poi, naturalmente, perché sarebbe diventato presto padre. «Benedetta, devi mangiare di più altrimenti come fa la tua pancia a crescere? Appena si vedrà, potremmo annunciarlo a tutti».

L’ingenuità della domanda la lasciò impietrita. Il suo ventre era piatto, piatto com’era sempre stato e come sarebbe rimasto. Aveva trascurato proprio il particolare più importante. Lo guardò pensando che la madre le avesse fatto un grande regalo trovandole un uomo così ma, purtroppo, anche un tipo come Frank si rendeva conto che a una donna incinta doveva ingrossarsi la pancia.

La lentezza di riflessi del marito le diede il tempo di pensare una risposta. «Certo caro, stai tranquillo che mangio abbastanza, ma per la pancia devi avere pazienza: non viene mica fuori così dall’oggi al domani! Senti però, a parte questo, è già qualche giorno che vorrei chiederti una cosa importante». Le venne in mente mentre parlava.

«Dimmi».

«Vedi, questo è un momento bellissimo per noi: stiamo aspettando un figlio, un figlio tutto nostro. È ciò che ho sempre sognato, fin da piccola, e l’ho sempre immaginato come una gioia da condividere con mio marito...».

«Certo, anche io sono felicissimo se è questo che ti preoccupa».

«No, quello che voglio chiederti è un’altra cosa... una cosa che temo ti costerà un po’ di fatica...».

«Dimmi Benedetta, non farmi stare sulle spine».

«Vorrei che, almeno per ora, la gioia di questo bambino rimanesse solo fra noi due. La voglio assaporare solo con te. Poi, fra qualche tempo, daremo l’annuncio ufficiale a tutta la famiglia, così potremo condividere la nostra felicità anche con loro. Ma per ora ti giuro che voglio stare solo con te, senza avere intorno altre persone che possano distrarmi da mio marito, dal padre di mio figlio». Si stava divertendo, un tempo non si sarebbe neanche sognata di parlare così. Lo guardò con occhi imploranti. Sapeva per esperienza quanta presa facessero su di lui certi discorsi e ne aveva abusato impunemente.

«Ma tua madre già lo sa!».

«Per quello non ti preoccupare perché le ho assicurato che era un falso allarme».

La guardò stupito. «Come? Le hai detto che era un falso allarme?».

«Tesoro, sono stata costretta. Si sarebbe trasferita qui da noi, non avremmo più avuto neanche un momento d’intimità. Saresti stato contento così?... E io che l’ho fatto soprattutto per te!». Pronunciò le ultime parole in tono piagnucoloso.

«Ma no, scusami. Hai ragione tu». Si avvicinò per abbracciarla. «Lo so che pensi sempre al meglio».

La moglie rispose al suo abbraccio. «Allora me lo prometti che non dirai niente a nessuno? Neanche a tua madre?». Lo guardò con occhi carezzevoli.

«Certo che te lo prometto».

E anche questa era a posto.

Il mattino dopo, quando Frank fu uscito di casa, si rese conto di avere a disposizione l’intera giornata e che lo stesso sarebbe stato per il giorno seguente e per quello dopo ancora. Era libera! E lo era in quasi completa clandestinità. Il suo unico impegno ufficiale, che tra l’altro seguitava a essere fonte di grande piacere, erano le lezioni con Gabriella. Dopo Byron, le aveva dato altri libri, soprattutto di scrittori francesi. Quella mattina decise di stendersi sul divano e di cominciare con il primo. Prese quello con il titolo che l’incuriosiva di più: Madame Bovary.

Lesse per giorni, in pratica non fece altro. E, parola dopo parola, paragrafo dopo paragrafo, la sua mente cambiava. Sottolineava i termini sconosciuti che appuntava in un quaderno e, uno alla volta, Gabriella glieli spiegava. Scoprì di amare gli autori francesi e Gabriella ne fu entusiasta perché erano i suoi artisti preferiti e seguitò a darle volumi uno dietro l’altro con gioia; certo senza rendersi conto di quali reazioni provocassero: senza volerlo, la stava caricando a orologeria.

Per più di un mese Benedetta si limitò a uscire di casa lo stretto indispensabile, Gabriella e la spesa erano gli unici motivi per i quali accettava di abbandonare le sue letture.

La recessione stava toccando il suo picco e le fabbriche licenziavano senza sosta. Si chiese come facesse sua madre ad andare avanti e presa dal rimorso, decise infine di andare a trovarla. Arrivò davanti alla sua casa intirizzita dal freddo, la pioggia della notte aveva lasciato una serie di pozzanghere che, lungo il tragitto, le avevano inzuppate le scarpe. Si fermò di fronte all’ingresso, indecisa se bussare o meno. Ci aveva già ripensato. Si disse che doveva essere il caso a decidere: se la madre avesse aperto o se avesse sentito un rumore dall’interno, sarebbe entrata. Rimase ferma con gli occhi fissi sulle nervature del legno e le orecchie tese. Il tempo trascorreva lento rimanendole attaccato alla pelle come miele. Non successe nulla, aveva aspettato abbastanza e la porta non si era aperta. Girò su se stessa con sollievo.

A eccezione di questo episodio, le sue uscite furono molto limitate ma Frank continuò a credere che si recasse al lavoro tutte le mattine subito dopo di lui.

Benedetta era felice delle sue letture e della sua libertà come non mai; presto però si presentò un nuovo, fastidioso, problema. L’accordo con il marito era che con il suo stipendio settimanale da sartina avrebbe acquistato il necessario per mangiare, mentre a tutte le altre spese avrebbe pensato lui. Negli anni era riuscita a risparmiare una piccola somma ma, non lavorando, la vedeva assottigliarsi giorno dopo giorno.

In casa avevano anche un discreto fondo creato dalla parsimonia di Frank, che però lui custodiva “per le emergenze”. Si trattava di una cifra ragguardevole, ma sarebbe stato impossibile sottrarre anche un solo centesimo senza che lui se ne accorgesse, quindi era inavvicinabile.

Si adattò a comprare con il suo piccolo gruzzolo solo lo stretto indispensabile, orientandosi verso piatti poverissimi che riusciva a rendere gustosi grazie alle indicazioni di Gabriella. Nelle prime settimane se la cavò bene e Frank non si lamentò, dopo un po’, però, si rese conto che, per quanto tirasse, i suoi soldi a un certo punto sarebbero finiti. Cercò disperatamente una soluzione, qualcosa che le permettesse di mantenere la libertà conquistata.

Per una settimana non pensò ad altro anche se era evidente che non esistevano scappatoie: doveva parlare con il marito e spiegargli quanto era successo, non aveva via d’uscita. Il periodo più bello della sua vita stava per finire ma, peggio ancora, presto avrebbe pagato le conseguenze di tutte le sue bugie.

Era un venerdì quando, al contrario, la sorte la convinse ancora di più che la fortuna sostiene chi osa. Andando da Gabriella per la lezione, rimuginava che quello sarebbe stato probabilmente il loro ultimo incontro. Salì le scale lerce guardando con indulgenza la sporcizia a cui si era quasi affezionata e poi si soffermò un momento nell’atrio lindo dell’insegnante. Bussò piano e lei aprì con un sorriso che le strinse il cuore. Stava ingannando anche Gabriella come tutti gli altri. «Allora, hai finito Il rosso e il nero?».

L’accolse con l’ormai abituale entusiasmo. Benedetta fece segno di sì con il capo.

«E allora?». Non aspettò che rispondesse. «Vieni, mettiti seduta che è pronto il tè».

La ragazza si sistemò al solito posto avvertendo tutto il disagio della situazione. Dopo qualche secondo, la padrona di casa riapparve tenendo fra le mani un vassoio con una teiera e due tazze. Dispose tutto sul tavolo, poi riempì le coppe con l’infuso fumante. In quella di Benedetta aggiunse due cucchiaini di zucchero grezzo: conosceva bene i suoi gusti e quella familiarità diede alla ragazza un piacere capace di farle dimenticare, per qualche secondo, tutti i suoi problemi. Cominciò a sorseggiare il tè ma presto rinunciò perché era ancora troppo caldo. Benedetta si lasciò cullare dal silenzio che era calato tra loro, avrebbe voluto dilatare quel momento all’infinito.

Fu a quel punto che la buona sorte armò il braccio di Gabriella. «Senti Benedetta, ci ho riflettuto molto e ho deciso che dobbiamo fare dei cambiamenti».

Lei la guardò con faccia interrogativa.

«Parliamoci chiaramente, oramai ho ben poco da insegnarti, quello che ti manca è solo l’esercizio... L’unica cosa che faccio è spiegarti qualche parola, prepararti la cena e prestarti dei libri...».

Benedetta capì che aveva, prima di lei e per altri motivi, deciso di interrompere i loro incontri. Sospirò sentendo tutta la tristezza del dopo, della solitudine, delle urla di fronte alle sue incredibili bugie. Era stato tutto molto bello. Ma, del resto, sapeva bene che non sarebbe potuto durare. La sua pelle divenne ancora più bianca e fece fatica a trattenere le lacrime. Ma si sbagliava.

«Ho deciso che quanto mi dai è troppo, quindi, da oggi, voglio essere pagata solo la metà, che è ciò che mi serve per fare la spesa, il resto puoi tenerlo tu».

La ragazza spalancò la bocca e il sangue le riaffluì istantaneamente nelle guance scarne. Non poteva credere a quanto aveva sentito, non poteva essere vero. Era un miracolo. A stento trattenne la gioia affrettandosi ad accettare l’offerta senza neanche far finta di volerla rifiutare; anzi la pregò di dare direttamente a lei i soldi dopo che la suocera l’aveva pagata. Lo disse in modo sfacciato ma, per sua fortuna, Gabriella si limitò a stringere un po’ gli occhi senza fare domande sul doppio passaggio di denaro. Non erano molti, ma sufficienti a far sì che Frank non si accorgesse di nulla.

Benedetta era tornata di nuovo in stato di grazia. Riprese con entusiasmo le passeggiate per la città, anche se non si allontanava mai più di alcuni isolati. Si sentiva inquieta. Un pensiero, in particolare, aveva preso a tormentarla, frullandole continuamente in testa. Decise di ignorarlo anche se, in realtà, attendeva solo il pretesto giusto. E il pretesto lo attendeva, naturalmente, da suo marito.

L’occasione arrivò una sera a cena, quando Frank cominciò a fare calcoli sullo stato della gravidanza. Era marzo e lui decretò che, di conseguenza, doveva essere già nel quinto mese. Benedetta non commentò facendo finta di niente. La notte stessa, a letto, l’uomo le poggiò una mano sul ventre e chiese secco: «Dov’è la pancia?».

Benedetta non rispose e si disse con rabbia che l’unico suo vero problema era proprio lui. Aveva scelto bene Maria, che non doveva rendere conto a nessuno. Si voltò dall’altra parte rimanendo in silenzio mentre una rabbia feroce le montava dentro.

Giustificata dal desiderio di vendetta contro chi si aspettava che la pancia crescesse, il giorno dopo diede vita al suo tormento. Era martedì e quindi non doveva andare da Gabriella. Si svegliò presto come al solito e, dopo aver atteso che Frank uscisse di casa, si vestì con cura, pettinò i capelli, mise uno scialle sulle spalle e finalmente varcò anche lei l’uscio di casa.

Conosceva bene il percorso che stava seguendo. Camminò a passo rapido senza guardare le persone che incrociava per le vie trafficate e, dopo circa mezz’ora, avvertì lo stridio dei gabbiani che annunciava il mare. Era arrivata, o meglio, Maria era arrivata. Entrò dal grande cancello di ferro nero che era ancora molto presto ma, nonostante l’ora, il porto era già in piena attività.

Un gran numero di uomini si muoveva velocemente in tutte le direzioni e nessuno sembrò mostrarle attenzione. Si inoltrò con cautela in direzione della Capitaneria temendo a ogni passo che qualcuno potesse fermarla e chiederle dove stesse andando. Procedeva guardando dritta davanti, così non notò il pescatore che sbucò improvvisamente da dietro un cumulo di vecchie cime portando sulle spalle una grossa rete. La urtò facendola barcollare. «Ehi, guarda dove metti i piedi!» urlò in inglese senza neppure diminuire l’andatura sotto il suo pesante fardello.

Si bloccò confusa. Stava esagerando, stava correndo dei rischi inutili, si disse. Per un momento fu tentata di fare dietro-front e tornare a casa. Benedetta tornerebbe indietro, pensò. Benedetta sarebbe tornata da dove è venuta, impaurita e piena di vergogna. Una gioia profonda le ammorbidì le pareti dello stomaco: in quel momento la timida Benedetta non c’era e lei guardò la vita di quella ragazza dal di fuori, come se non le appartenesse, e ne provò pena. Si concentrò sui modi disinvolti di Maria. Sorrise, deglutì e si riavviò. Arrivò di fronte alla porta della costruzione bianca con le gambe che le tremavano dall’emozione. Bussò e, dopo qualche secondo, fece leva sulla maniglia entrando nell’ambiente che già conosceva.

Nella stanza c’era solo un uomo che, dalla scrivania, la scrutò con curiosità. La giovane riconobbe subito il Capitano e si avvicinò sorridendo. Era incredula della sua stessa disinvoltura. «Buongiorno, Capitano, si ricorda di me? Sono Maria, sono stata qui qualche mese fa». Brivido di piacere.

«Dunque... ora così...». Aldo seguitò a guardarla, visibilmente concentrato nello sforzo di ricordare chi fosse. «Ma sì, certo! La ragazza che si era persa! Prego si accomodi, mi fa molto piacere che sia tornata a trovarci. Posso esserle utile in qualcosa?».

«In realtà sono solo passata a salutarla come le avevo promesso la volta scorsa. Sa, quell’anziano parente purtroppo è morto, così sono venuta per raccogliere le sue poche cose prima che la casa venga affittata».

«Mi dispiace molto... Accetti le mie condoglianze, signorina Maria, e se posso fare qualcosa per lei non esiti a domandare».

«Grazie, ma non si preoccupi. È tutto a posto. Del resto era talmente anziano, e io lo conoscevo appena...». Non voleva che l’invenzione del lutto rendesse triste la conversazione, così si affrettò a cambiare discorso: «È così bello il porto, dall’ultima volta che sono stata qui non ho fatto altro che sognare di tornarci. Deve essere molto interessante il suo lavoro».

Compiaciuto, il Capitano cominciò a raccontare come si svolgeva la vita del posto e in cosa consistessero le sue mansioni. Intervallava la sua chiacchierata con brevi domande sulla sua vita e la sua famiglia, cui Benedetta rispondeva secondo ciò che aveva già inventato al primo incontro ma colorendolo, in più, con accenni a degli studi fatti grazie a una zia. Man mano che la conversazione procedeva, Benedetta notò un crescente interesse da parte dell’uomo, le sue domande si facevano sempre più mirate. Gratificata, rese il suo personaggio più interessante, attingendo ispirazione ora da un romanzo ora dall’altro. Era vero: se il Capitano la vedeva in un modo, allora lei lo era realmente. Lui faceva sì che esistesse davvero. Ripensò alla serata con Carlo.

«Le fa onore signorina, brava. Saper leggere e scrivere è molto importante. È stata fortunata ad avere una zia così premurosa. Anche mia moglie e mio nipote amano molto la lettura, sarebbe bello se venisse a trovarci. Dove abita lei che non ricordo?».

Perplessa, Benedetta si chiese se ci fosse qualcosa di insano in quell’attenzione. Gli occhi dell’ufficiale sembravano quasi soffocati dalle rughe profonde ma un sorriso buono gli increspava gli angoli della bocca e no, si rispose, era solo lei che non era abituata a suscitare interesse, e lui era interessato a Maria. Andò avanti senza rimorsi, quello era il giorno più bello della sua vita e avrebbe voluto che non finisse mai.

Un marinaio entrò nell’ufficio per chiamare il Capitano. Era ora che Benedetta rincasasse da suo marito, pensò tristemente. Ma, ancora, il Capitano la sorprese: le chiese di tornare l’indomani per pranzare con lui e altre persone.

Confusa, rispose che visto che doveva sbrigare le ultime faccende...

Tornò a casa senza sentire né il freddo né la fatica, era eccitata e sopra le righe come non mai. Doveva disdire subito l’appuntamento per il giorno successivo con Gabriella così sarebbe stata libera. Euforica, andò da lei senza preavviso. La trovò impegnata in uno strano rituale: una serie di barattoli di varie dimensioni erano disposti ordinatamente sul tavolo e lei ne verificava il contenuto uno a uno.

«Che cosa stai facendo?» le domandò curiosa.

«Sto controllando che nessuna delle mie radici e polveri sia ammuffita. Periodicamente devo fargli prendere aria e girarle altrimenti andrebbero a male».

«Ma a cosa ti servono?».

«Be’, qualcuna la uso per cucinare, come questa».

Indicò altri contenitori e spiegò: «Questa la uso per fare delle tisane rilassanti, questa per l’emicrania e quest’altra per l’influenza». Poi aggiunse: «E questa, ad esempio,» le mostrò un barattolo con il vetro molto scuro «è un veleno potente, la utilizzo per uccidere i topi senza farli soffrire... quest’altra, invece, è ottima per scacciare le tarme...».

«Scusa Gabriella,» la interruppe senza tante cerimonie «non voglio farti perdere tempo, volevo solo avvisarti che domani non potrò esserci così, se per te è lo stesso, verrei dopodomani, mercoledì».

«Sì, sì certo...» rispose l’altra senza prestarle grande attenzione «ci vediamo dopodomani».

Benedetta si sentì quasi offesa per lo scarso interesse dimostratole. «Allora, ciao».

«Ciao...». Non aveva neanche alzato gli occhi dai suoi maledetti barattoli.

Benedetta si incamminò piena di stizza ma presto si concentrò sull’appuntamento del giorno dopo: Maria era stata invitata a pranzo dal Capitano. Non era mai stata in un ristorante e ne ebbe quasi paura. Quel pomeriggio si lavò con attenzione e pettinò i capelli a lungo. Essere Maria era bellissimo.

Si guardò allo specchio: il suo corpo non somigliava a quello di Maria. Al posto delle curve c’erano ossa e ventre piatto... La pancia! La pancia era completamente piana e per Frank lei era ormai nel quinto mese. Non sapeva cosa fare, ogni giorno si ripresentava lo stesso problema. E pensare che se non fosse stato per lui sarebbe stata libera da ogni obbligo; oltre ad averlo come marito, doveva anche preoccuparsi di lasciargli la convinzione che fosse incinta per poter mantenere la propria libertà. Non era giusto.

Rimuginò una soluzione, infastidita dall’esistenza stessa di quell’uomo e dall’amore che nutriva per lei. Andò in cucina e si guardò intorno. La sua attenzione si concentrò sul sacco della farina. Ecco, quella poteva essere una soluzione temporanea. Ne prese una grossa quantità e cominciò a mischiarla con acqua e lievito. Fatto l’impasto, attese che crescesse e poi lo divise in due grandi forme che infilò nel forno. Una volta che il pane fu pronto lo lasciò sul tavolo a raffreddare, dopodiché prese un coltello e affettò sottili porzioni, tutte della stessa misura. Quel pomeriggio affettò e mangiò, affettò e mangiò, oltre le sue possibilità, oltre ogni capacità del suo corpo. Mangiò fingendo di non essere lei a farlo, masticando come un automa.

Seguitò fino a quando non avvertì i primi conati di vomito. Ecco ora poteva finalmente fermarsi. Andò allo specchio e tirò su il vestito: uno stomaco prominente svettava in modo assolutamente indipendente rispetto al resto del corpo, sembrava una montagna in mezzo al mare. Le venne da ridere: chissà se suo marito sapeva che doveva essere la pancia a gonfiarsi e non lo stomaco, quel deficiente.

La sera si era già quasi completamente sgonfiato, mentre la pancia, con sua grande soddisfazione, si era leggermente riempita e ammorbidita. Bene! Adesso avrebbe avuto qualcosa da mostrare. Nonostante l’abbuffata pomeridiana, a cena mangiò insieme a Frank. Lo osservò: era insolitamente avvilito. Sapeva perfettamente come avrebbe potuto renderlo felice, ma decise di attendere fino a quando non fossero andati a letto. Lavò i piatti e li asciugò con calma, con crudeltà; poi infilò la camicia da notte e si distese al suo fianco nel letto. «Caro, senti la pancia come cresce». Non aveva alcuna remora, condì la frase con voce mielosa.

Il marito posò una mano su di lei o, meglio, sul pane ormai digerito. Al buio, senza vederlo, Benedetta sentì il sorriso spuntato sul suo volto. «Oh Benni, che bello!».

Che tristezza la sua felicità. Quando avrebbe saputo che non c’era nessun bambino sarebbe morto di dolore. Quella notte dormì agitata e non certo per il cibo trasformato in feto. Era talmente emozionata all’idea dell’incontro del giorno seguente, che accolse l’arrivo delle prime luci dell’alba come una liberazione.

Arrivò al porto con largo anticipo, così individuò un posto piuttosto defilato dove potersi sistemare e osservare indisturbata le persone al lavoro. Naturalmente fra le sue preoccupazioni c’era sempre quella di incontrare il cugino di Frank, Carlo, che avrebbe rovinato tutto. Rimase seduta sulla cassa di legno per quasi un’ora, scrutando l’orizzonte poi, visto che non c’era alcun pericolo in vista, si avviò verso il luogo dell’incontro. Riconobbe subito il Capitano che, nella sua uniforme bianca, attendeva fuori dal suo ufficio. Le andò incontro con un sorriso confortante. «Buongiorno signorina, è un piacere vederla. Come sta?».

«Molto bene, grazie. E lei?».

«Benissimo. Saremo in tre oggi a pranzo, ho invitato anche mio... nipote. Dovrebbe essere qui a momenti... Ma mi dica, ha avuto difficoltà a raggiungere il porto?».

E ora chi era questo nipote? Si sentì allarmatissima. «No, no. Ormai conosco bene la strada. Non c’è più pericolo che mi perda». Perché era così nervosa, si chiese. Carlo non poteva essere di certo, non era mica parente del Capitano. Forse si trattava di quel ragazzo che era rimasto con lui sulla scialuppa dopo il naufragio.

«Bene, questo mi conforta. Saperla in giro per zone della città che non conosce, devo confessarle, mi spaventa un po’... Ma ecco Michele che arriva».

L’uomo si era voltato e stava compiendo ampi gesti con il braccio. Benedetta si girò nella stessa direzione e vide un ragazzo in abiti civili che li fissava da lontano. Si avvicinava piano, come se non ne avesse voglia. Una volta arrivato, si presentò rivolgendole uno sguardo sferzante che la gettò nel panico.

L’aveva riconosciuto subito.

Era lui.

Michele, il suo nome era Michele.

Era lui.

Il ragazzo più bello e irraggiungibile che avesse mai visto era davanti a lei.

E non era contento di essere lì.

In un attimo, Benedetta si ricordò chi era: una da niente, una che nessuno avrebbe mai guardato, una che nessuno avrebbe mai ascoltato. Perché si trovava lì? Com’era possibile che si fosse messa volontariamente in quella situazione? Sapeva di essere arrossita e accolse con gratitudine l’invito del Capitano ad avviarsi verso l’uscita. Camminarono in silenzio fino a una piccolissima trattoria italiana che si trovava poco fuori il porto.

Lungo il tragitto Michele non parlò. Benedetta procedeva sentendo le gambe farsi sempre più molli. Era così bello e i suoi occhi azzurri le facevano quasi paura. Ricordava bene quanto fosse imbarazzata la prima volta che l’aveva visto, quando lui le aveva indicato il sangue sulla camicetta; non era riuscita a dire una parola, proprio come adesso. La seconda volta l’aveva incrociato per strada. E questa era la terza.

Alzò gli occhi e lo guardò di sfuggita. Avrebbe voluto sprofondare: lui era troppo, era troppo anche per Maria. Non era questione di essere diversi o migliori: Michele era una di quelle persone che, una volta incontrata, non puoi più dimenticare anche se lei non sa nemmeno che esisti. Doveva essere la punizione per tutte le sue malefatte. Si sentiva troppo confusa, era già certa che avrebbe fatto una pessima impressione. Nessun libro poteva salvarla da quello struggimento paralizzante.

Il ristoratore li fece accomodare a un tavolino quadrato dicendo che per quel giorno c’erano i rigatoni.

Fu il Capitano a parlare per primo. «Michele, la signorina Maria ama leggere».