CAPITOLO XIX

Quella sera, a cena, Benedetta quasi non rivolse la parola a Frank che tentò inutilmente di coinvolgerla nei suoi affannosi progetti per il futuro. Quale futuro? Non sapeva neanche cosa fosse il domani, l’ora successiva. Contava solo il presente, e nel suo c’era sempre meno spazio per il marito.

Anche l’incontro di mercoledì con Gabriella si rivelò fallimentare. La sua unica colpa era quella di vederla come Benedetta e non come Maria, ma tanto bastava. In cuor suo ringraziò l’odio della madre che le permetteva di rimanerle lontano. Disprezzava Benedetta e chi l’accettava.

Si isolò completamente, senza più preoccuparsi della pancia né di apparire normale. Aveva un unico pensiero che non lasciava spazio a nient’altro: alla fine del pranzo, il Capitano l’aveva invitata a casa loro per il tè la domenica successiva.

Aspettò l’arrivo di quel giorno nel più totale mutismo. Era terrorizzata all’idea di incontrare Michele, ma avrebbe fatto qualsiasi cosa per rivederlo. Con la mente ottenebrata, lasciò che i giorni trascorressero pensando solo a quel momento.

La domenica mattina si svegliò intuendo che non avrebbe resistito oltre. Pensò che tutta la sua vita fosse concentrata in quel momento. Anche se il giovane non si sarebbe mai potuto interessare a lei, l’avrebbe rivisto e le bastava, era già più di qualsiasi suo sogno, anche il più ardito. Trascorrere ancora del tempo con lui. Non riusciva neanche a capire come fosse possibile che stesse capitando a lei, non alle sue ex compagne belle ed eleganti, ma proprio a lei!

Si preparò con cura, guardandosi allo specchio, stupendosi nello scoprire che il colore dei suoi occhi era bello e la sua pelle liscia e chiara.

Quando arrivò l’ora era emozionata come non le era mai successo. Uscì sentendosi leggera come l’aria. Aveva dato un indirizzo a qualche isolato da casa sua e Aldo arrivò puntuale a prenderla con la sua macchina scura. Si diressero verso una zona della città, che Benedetta non conosceva, con una serie di piccoli villini circondati da giardini curati che si susseguivano lungo la strada. Non aveva mai visto un quartiere così bello ed elegante. Asciugò le mani sudate sul suo vestito color mattone, l’aveva scelto perché una volta Maria le aveva detto che le stava bene.

Il Capitano era, come sempre, gentile. Benedetta scacciò subito il pensiero molesto di cosa avrebbe fatto una volta scoperto con chi avesse realmente a che fare. La sua casa fu una sorpresa: l’esterno era tutto in mattoncini rossi e il giardino intorno uno dei più ricchi per varietà di vegetazione; qualcuno doveva curarlo molto. Un viottolo di piastrelle chiare portava fino alla porta d’ingresso, lo percorse senza fretta, soffermandosi prima di fronte a una pianta poi a un’altra.

Cercava di guadagnare tempo sperando che il cuore smettesse di battere all’impazzata.

«Signorina Maria, che ne dice se entriamo?».

Si rese conto che già da qualche secondo il Capitano l’osservava sorridendo vicino alla porta. Dovevo essere ridicola, così impegnata a guardare una foglia d’ortensia. «Sì certo, mi scusi... ma questo giardino è talmente bello». La voce le uscì bassissima.

«È Lidia che se ne occupa. Le piante e i profumi sono la sua passione».

Fu proprio la moglie ad aprire la porta; sorrideva. Anche Michele le venne incontro e le strinse la mano.

«A questo punto, manca solo sua zia». Aldo aveva pronunciato quella frase serenamente, senza caricarla di alcun pathos e Benedetta, invece di preoccuparsi per tutte le bugie che aveva detto, guardò Michele per cercare una conferma che non aveva neanche il coraggio di pensare. Non era possibile: lui le stava sorridendo! La fissava con i suoi occhi azzurri e sorrideva. Non poteva essere, sicuramente c’era qualcosa che non sapeva, una questione tra lui e il marinaio...; magari fingeva per fargli piacere.

Si sentì ancora più insicura. Avrebbe voluto avere uno specchio per sistemarsi i capelli, i vestiti. Come poteva uno così interessarsi a lei? Non aveva senso: lei era brutta, anche se fingeva di essere un’altra, non poteva averli ingannati fino a quel punto.

Sapeva di essere arrossita quando Michele l’aveva invitata a sedersi vicino a lui.

Lidia aveva cambiato discorso lanciando un’occhiata al marito. «Certo, Aldo. Ma mi dica, Maria: Michele mi ha raccontato che lei è una appassionata di libri e ha una particolare propensione per i francesi. Lo sa che, alla sua età, io non leggevo altro?».

Benedetta deglutì e prese fiato. Era spaventata, aveva cominciato a leggere da così poco tempo che il rischio di dire qualcosa di sbagliato era enorme. Sentì le mani appiccicose di sudore; stava male eppure non avrebbe voluto essere da nessun’altra parte. Inspirò a fondo per calmarsi, sapeva cosa le serviva: si concentrò su Gabriella, dimenticando Maria, e ripescò nella memoria tutto ciò che le aveva detto e cominciò a ripetere a fiume. Ricordava tutto benissimo e ogni sua frase arrivava diretta a Lidia che la guardava con ammirazione e stupore. Lei e il Capitano seguitavano a lanciarsi occhiate, più lei parlava, e più diventavano vigili e gentili. Stava funzionando. Gabriella avrebbe incantato chiunque.

E Michele era lì, con la sua mandibola squadrata e il corpo perfetto. Anche se fosse finito tutto quel pomeriggio e avesse passato il resto dei suoi giorni a pagare le conseguenze di ciò che stava facendo, ne sarebbe comunque valsa la pena. Sarebbe finito, non poteva andare diversamente, non era pensabile che lui seguitasse a fissarla con quegli occhi carezzevoli...

Ma la consapevolezza che la curiosità nei suoi confronti sarebbe finita, quasi la rilassava. Sarebbe tornata alla sua vita, avrebbe detto di aver perso il bambino e si sarebbe fatta perdonare per la storia dei soldi. Del resto, era di Frank che si stava parlando. Si sarebbe tenuta nel cuore quei giorni e sarebbe invecchiata ricordando.

Non poteva prevedere che le cose non sarebbero andate così.

Erano quasi le sei quando Benedetta strinse la mano a Lidia che l’accompagnò fino alla porta dove il Capitano e Michele aspettavano per riaccompagnarla in macchina. «L’aspetto per domenica prossima» le disse la donna.

Non poteva essere vero, ma l’aveva detto.

Con il cuore accelerato dal timore che qualcuno potesse vederla, si fece portare nella stessa via dell’andata ma fu costretta a infilarsi in un portone qualsiasi visto che i due non accennavano ad andarsene finché era in strada. Ne uscì solo quando fu sicura che si fossero allontanati e, a quel punto, si affrettò verso casa dove Frank la aspettava già da tempo. Gli aveva detto che era andata a trovare la madre. Correndo, anche se aveva il cuore in gola per la fatica, non poté fare a meno di ripensare a quanto successo quel pomeriggio; due lacrime le scivolarono sulle guance.

Rientrò con la faccia arrossata e gli occhi brillanti. Frank, invece, era steso sul divano e sonnecchiava. Quando la vide allungò le braccia nella sua direzione. Per fortuna non era arrabbiato, pensò con sollievo.

«Finalmente sei tornata!». Il suo tono piagnucolante le diede subito sui nervi. «Non sai quanto sia noiosa la domenica senza di te. Credo sarebbe meglio se d’ora in avanti tu andassi a trovare tua madre solo durante la settimana, quando io lavoro, e non la domenica».

Gli si avvicinò sentendo il disgusto per il ruolo che era costretta a riassumere. «Sì, certo, Frank». Sottomessa: sottomessa alla madre, al fratello e ora anche a lui. Lo fissò furibonda pensando che avrebbe voluto buttare tutto all’aria e urlargli che stava bene solo lontana da lui, che non era incinta, che quella vita le faceva schifo e che era innamorata.

Sì, era innamorata e non poteva farci niente. Era così innamorata che non le era più possibile sottrarsi. Era così innamorata che avrebbe fatto qualsiasi cosa, avrebbe rischiato tutto. Per fortuna del marito, non poteva essere corrisposta e sarebbe finita lì. Se lo disse sentendo che le veniva da piangere.

«Come sei bella» aggiunse Frank dopo un momento di silenzio. «Sei... bellissima».

Per l’intera settimana Benedetta quasi non rivolse la parola al marito. Trascorse il tempo nell’attesa della domenica. La sua indolenza logorò anche il rapporto con Gabriella: con una scusa, non si presentò ai primi due appuntamenti e andò da lei solo il venerdì per incassare, come d’accordo, la metà della sua retribuzione. Le disse, senza tanti giri di parole, che non si sarebbe fermata per la lezione.

«Che c’è Benedetta? Qualcosa non va?». La fissò a lungo proprio come aveva fatto Frank. Sembrava stupita di ciò che vedeva. «Stai diventando una bellissima donna».

Colpita dallo sguardo carezzevole e da quel complimento, Benedetta rimase in silenzio: come poteva spiegarle la verità? Come poteva dirle che l’unico modo per aiutarla era liberarla della sua vita: di sua madre, di suo fratello, di suo marito e anche di lei? Non avrebbe capito, nessuno poteva capire.

Avrebbe vissuto il suo amore impossibile fino alla fine e poi avrebbe riaggiustato le cose. Ora, però, non poteva pensare ad altro che a lui. Anche se avesse ricevuto solo briciole, non poteva rinunciare. «In realtà, Gabriella, mi vedi strana per un motivo molto semplice: sono incinta. Tutto qui. E non c’è nulla di cui preoccuparsi, stai tranquilla, è solo che ancora non abbiamo dato l’annuncio ai parenti e per questo non ti avevo ancora detto niente».

Ecco, un altro problema in meno.

Il volto della donna si trasformò completamente, una felicità improvvisa la ringiovanì. La strinse fra le braccia mentre le lacrime le scorrevano sulle guance. «Oh Benedetta, che gioia! Avrei dovuto pensarci da sola... Eri così strana. La mia bambina...».

Indifferenza; pena e indifferenza per quell’amica che fino a poco tempo prima le era apparsa magnifica e irraggiungibile. «Ora devi scusarmi, ma sono molto stanca e vorrei tornare a casa». Si divincolò con un movimento secco.

«Ma certo». La liberò subito dall’abbraccio come se fosse diventata incandescente. «Devi riposarti. E mi raccomando: se hai bisogno di qualcosa, di qualsiasi cosa, ricorda che puoi contare su di me».

Povera Gabriella. «Grazie, me lo ricorderò».

Si girò e uscì senza dire più niente. Oramai non faceva alcuna differenza: una bugia in più o in meno non cambiava nulla. Se ne andò a cuor leggero.

Certo, anche l’amica si sarebbe chiesta dove fosse la pancia, ma era una cosa che al momento non le interessava; contava solo il presente. Sarebbe passata su tutto e tutti e, ovviamente, la prima vittima era proprio in casa sua: Frank diventava ogni giorno più piagnucoloso e lei si incattiviva sempre di più. Lui voleva sapere del figlio, ma un figlio da lui era l’ultima cosa che lei desiderasse. Parlava soprattutto del bambino e del loro futuro. Aveva smesso, però, di fare accenni alla pancia che non cresceva.

Ormai Benedetta evitava il più possibile la sua compagnia anche se il marito non faceva che ripeterle che le voleva bene e che senza di lei si sentiva perduto. La sua patetica dipendenza la rese intrattabile oltre ogni logica. Ormai era tesa come un ramo di pioppo.

La domenica arrivò come una liberazione. «Oggi vado a trovare mia madre». La sua voce non ammetteva repliche.

«Ma come... Ci lavori insieme tutta la settimana e, per una volta che possiamo stare insieme, vai da lei?».

Quell’insopportabile tono piagnucoloso. «Senti, Frank, io vado da Lucia, tu fai quello che ti pare».

«Allora vengo con te».

«Non se ne parla neanche. Vado da lei per aiutarla a fare le pulizie e a sistemare casa. Possibile che tu non capisca? La mamma è anziana e non può fare tutto da sola, tu ci saresti solo d’impiccio».

«Ma perché ti sei vestita così bene, allora? E poi non puoi fare sforzi...».

«Non ti preoccupare, eviterò i lavori pesanti. Il bambino non corre nessun rischio».

Il cinismo aumentava proporzionalmente all’avvicinarsi dell’appuntamento. «Allora ti saluto. Ci vediamo stasera».

Uscì sbattendo la porta e corse nel luogo concordato la domenica precedente. Si piazzò davanti al portone con un certo anticipo pronta a salire velocemente in macchina appena fossero arrivati.

Riconobbe l’automobile scura appena sbucò sulla strada. Aveva fatto bene ad arrivare così presto, anche loro erano in anticipo. Aveva acquisito una certa pratica e salì sul sedile posteriore della vettura con disinvoltura prima ancora che loro scendessero per aiutarla. Un po’ stupiti dalla sua rapidità, richiusero ambedue le portiere che avevano appena aperto e si girarono verso di lei. Gli occhi azzurri di Michele arrivarono come una carezza e il suo cuore partì: dopo sarebbe anche potuta morire, pensò.

Lo guardò e sentì quanto fosse tutto distante: la sua vita, le colpe, i vecchi amori, perfino Maria. Contava solo quello sguardo e nient’altro.

«Buongiorno, Maria, come sta?».

Dopo una settimana di tormenti, ecco Michele. E la stava guardando, proprio lei. «Sto bene, grazie. Voi?» rispose con l’emozione che le ostruiva il passaggio delle parole in gola.

Il Capitano le chiese notizie della zia.

«Purtroppo, ancora non si sente bene. Temo addirittura che sia peggiorata». Straparlava. Quell’uomo doveva capire che non l’avrebbe mai conosciuta.

«Mi dispiace. Sarà in ansia di non poter vegliare su di lei, che è così giovane».

Involontariamente, le stava suggerendo le risposte. «Sì, la zia si preoccupa moltissimo, poverina, però mi ha chiesto tutto di voi. È tranquilla. Vi manda i suoi saluti».

«Povera donna». Aldo parlò quasi fra sé e sé, poi si girò nuovamente verso il volante e mise in moto. Benedetta tirò un sospiro di sollievo: non vedeva l’ora di allontanarsi da quella zona.

L’ingresso della casa del Capitano era saturo del profumo di biscotti appena sfornati. Lidia gli andò incontro togliendo il grembiule che aveva intorno alla vita. «Maria, che piacere rivederla! Questa settimana non abbiamo fatto altro che parlare di lei ed è così bello averla di nuovo qui».

Arrossì di piacere. Si disse che non avrebbe pensato a nient’altro se non a vivere intensamente quel pomeriggio, avrebbe goduto di ogni singolo secondo trascorso vicino a lui. Non riusciva a immaginare cosa potesse vedere in lei uno come Michele ma, anche se aveva paura a dirlo, gli piaceva. Forse era grazie a Maria o grazie a Gabriella. Non contava più. Lui, il ragazzo irraggiungibile, quello che puoi solo sognare, era ora seduto sul divano vicino a lei. E ogni tanto, come se fosse un caso, le loro mani si sfioravano.

Grazie a quel contatto minimo, Benedetta capì che per lei era finita. Con calma estatica, comprese che non sarebbe mai potuta tornare indietro: non poteva andare avanti con Michele ma non poteva neanche tornare alla sua vita di prima. Sarebbe finito tutto in quel giorno però aveva provato ciò che pochi hanno la fortuna di provare nella vita, e ne era grata. Amore, disse dentro di sé mentre Michele le toccava la mano porgendole un piatto con i biscotti. Io, e solo io, so cos’è l’amore. Quasi beata si disse, ancora una volta, che ne era valsa la pena. Non avrebbe deluso il suo amore con la verità e non avrebbe proseguito nella bruttura di una vita senza amore. Quando la realtà è superiore al sogno, si ringrazia e non si discute il conto, pensò al culmine della gioia guardandolo dritto negli occhi senza paura e senza vergogna.

La riaccompagnarono a casa e Benedetta attese che scomparissero dalla vista per poi avviarsi verso casa, senza correre. Si strinse tra le braccia, era stordita dai suoi sentimenti.

Michele le aveva detto una cosa sottovoce.

Le vennero le lacrime agli occhi. Quell’incontro non sarebbe dovuto finire mai. Arrivò sotto casa. Il pensiero di Frank le diede il voltastomaco. Lo trovò esattamente nella stessa posizione della domenica precedente: abbandonato sul divano con tutti i vestiti stropicciati come se ci fosse rimasto l’intero pomeriggio.

Lo guardò pensando che, anche lui, avesse toccato il fondo, ma poi qualcosa la costrinse a cambiare idea. Salutò a mezza bocca dirigendosi verso la camera da letto. Frank la chiamò con il suo tono lamentoso. Lo odiò. Fece finta di niente.

Promettimi che verrai a trovarmi al porto...

Gliel’aveva detto lui, proprio Michele, a lei. Non aveva senso ma era così.

Sarebbe uscita di scena come un’eroina dei suoi libri. Era l’unica soluzione, l’unica che le avrebbe risparmiato il dolore di una vita insulsa.

Te lo prometto.

Sarebbe andata, in sogno, nello spirito o in qualsiasi altra forma che non fosse di carne.

La voce del marito arrivò ancora più alta e implorante. Lei non rispose. Una mano le si poggiò sulla spalla. Si girò e lo trovò lì: l’ombra di un uomo, il viso contratto dalla sofferenza. «Benedetta, cosa ti ho fatto? Io ti voglio tanto bene e sto tanto male. Perché soffro così Benedetta, eh? Perché soffro tanto?». Scoppiò a piangere accasciandosi ai suoi piedi e abbracciandole le gambe. Ora dalla sua bocca uscivano solo frasi sconnesse frammiste ai singhiozzi che lo facevano sobbalzare. Le sue lacrime erano un fiume senza argini e non accennavano a diminuire. «Preferisco morire che vivere senza di te, Benedetta. Ti prego, non lasciarmi più solo... se mi lasci mi uccidi».

Benedetta guardò l’uomo disperato attaccato alle sue gambe e provò per lui una pena immensa. Si piegò e lo abbracciò, cominciò a cullarlo, sussurrandogli parole dolci nell’orecchio e sospingendolo verso il letto dove si stese affianco a lui. Chiuse gli occhi. Presto sarebbe tutto finito.

Il mattino dopo si svegliò con il corpo intorpidito. Si tirò su faticosamente e si girò verso Frank. Capì subito che qualcosa che non andava: l’uomo respirava a fatica e il suo volto era paonazzo. «Frank, Frank, mi senti? Frank!».

Rispose con un mugolio.

«Frank, che cos’hai?». Sentì il panico crescerle dentro: non sapeva cosa fare e a chi chiedere aiuto.

«Benedetta...». La sua voce arrivò più fioca di un sussurro. «Non mi sento bene...».

La moglie gli poggiò una mano sulla fronte e impallidì. «Non ti preoccupare, Frank. Ci sono io con te».

Per prima cosa pensò di chiamare la madre del marito. Ma come le avrebbe spiegato la situazione? Certamente lo stato di Frank dipendeva in qualche modo dal suo comportamento, era meglio che la suocera ne rimanesse fuori. Anche Lucia era assolutamente fuori discussione... Gabriella, avrebbe chiesto aiuto a Gabriella.

«Sta’ tranquillo, ora io esco ma torno subito». Si alzò velocemente indossando la prima cosa che le capitò sotto mano. Poco dopo era già in strada diretta verso l’appartamento dell’amica. Arrivò trafelata alla sua porta e, di fronte alle domande incalzanti, impiegò qualche secondo a spiegare che non si trattava di sé ma del marito.

«Ma quali sono i sintomi?» le chiese in ansia.

«Non lo so... scotta».

«Va bene» disse dirigendosi verso un mobiletto. «Porterò tutto».

Benedetta riconobbe subito i barattoli che aveva visto l’ultima volta in cui era stata lì. Lo sguardo le cadde sul contenitore in vetro scuro. Gabriella ne prese alcuni, poi si precipitò in camera a vestirsi, lasciando l’anta aperta. Tranquilla, aprì il barattolino di vetro scuro versando un pugno di polvere nella sua mano. Se la cacciò in tasca e richiuse tutto velocemente, giusto un attimo prima che Gabriella rientrasse con la giacca sulle spalle.

Trovarono Frank in condizioni anche peggiori rispetto a come l’aveva lasciato, dalla sua bocca uscivano solo frasi sconnesse e scottava. Gabriella lo guardò spaventata.

«Aspettami di là. È meglio, nelle tue condizioni».

Le mie condizioni...

La spinse fuori dalla stanza fino al divano in salotto dove la fece stendere. Benedetta scoppiò a piangere.

«Stai tranquilla». Gabriella la lasciò per tornare nella camera da letto e richiuse la porta alle sue spalle. Quando ne uscì andò a sedersi vicino a lei. Le prese la mano. «Ora sta dormendo ma è necessario chiamare un medico. Hai già avvisato la madre?».

Benedetta scosse la testa. «Vado a chiamarla. Grazie, Gabriella. Sei stata la prima persona che mi è venuta in mente».

«Ne sono felice» disse l’amica piegandosi per darle un bacio sulla fronte. «Ora vado a casa ma tornerò al massimo fra un paio d’ore».

«Cos’ha mio marito?».

«Forse un’influenza ma è troppo presto per dirlo. Vediamo cosa ne pensa il medico».

«Grazie».

«Ora riposati un po’. Ci vediamo più tardi».

Uscì e la casa ripiombò di nuovo nel silenzio. Andò da Frank che dormiva, apparentemente tranquillo; il respiro era tornato regolare. Si distese al suo fianco e, nel farlo, posò la mano sulla tasca dove avevo messo la polvere. Il leggero rigonfiamento la rilassò. Prese la mano di Frank e si addormentò. Che bello se non si fosse più svegliata...

... Sentì i rintocchi e si affacciò alla finestrella. Michele picchiava la testa contro il muro e un rivolo di sangue gli scendeva sugli occhi. Cercò di farlo smettere ma lui seguitava a colpire la parete a intervalli regolari...

La porta! Si svegliò di scatto rendendosi conto che qualcuno stava insistentemente bussando. Aprì precipitosamente e trovò Gabriella con un uomo che portava una valigetta. Non tentò neanche di giustificare l’attesa e li portò subito in camera da letto.

Nella stanza in penombra, notarono che il respiro di Frank non era più regolare. Dopo aver fatto alcune domande, il dottore le invitò a uscire.

Sul divano, Gabriella l’abbracciò e la rassicurò e Benedetta si lasciò cullare tra le sue braccia.

Quella stessa sera, nonostante i tentativi di non pubblicizzare la cosa, arrivarono i genitori di Frank che Gabriella aveva fatto avvisare. Nessuno sapeva ancora quale fosse la diagnosi, ma tutti sapevano che era incinta: Gabriella, preoccupata per la sua salute, aveva deciso di metterli a conoscenza del suo stato perché venisse trattata con i giusti riguardi. L’unica possibilità che, a questo punto, le rimaneva era dire che se ne era appena accorta; Frank, in quelle condizioni, non avrebbe certo potuto smentirla.

Quella notte la suocera si fermò a dormire da loro sistemandosi sul divano.

Il giorno dopo si fece portare una brandina: sarebbe rimasta fino a quando il figlio non fosse stato meglio. Benedetta era sempre più taciturna, assorta; il suo umore venne interpretato come preoccupazione per la salute del coniuge.

L’indomani Frank riprese conoscenza, ma il medico raccomandò di non abbassare la guardia. La moglie rimase tappata in casa al suo fianco per altri tre giorni, ma non smise mai di pensare a Michele. Guardava il marito, Gabriella, i suoceri, e pensava a lui. Continuamente. Chiudeva gli occhi e riviveva il momento in cui le loro mani si erano toccate.

Al quarto disse che doveva andare a trovare la madre che era a letto influenzata. La suocera non ebbe nulla da ridire, forse le faceva piacere accudire da sola il figlio come faceva una volta. Benedetta uscì di casa e cominciò a correre. L’avrebbe rivisto ancora una volta, doveva vederlo ancora una volta. Non pensava al futuro, a quello che sarebbe potuto accadere quando avrebbero scoperto ciò che aveva fatto, le bugie. L’unica cosa che le interessava era rivederlo, tutto il resto le era indifferente. Non riusciva neanche a preoccuparsi veramente per il marito.

Varcò il cancello del porto con le gambe a pezzi. Lentamente si avviò verso la Capitaneria. Entrò nell’edificio tremante d’emozione: era di nuovo viva. Un’ultima volta, nello stesso luogo in cui l’aveva visto per la prima volta, quando aveva pensato di esser stata fortunata solo per aver avuto la possibilità di guardare quegli occhi. Aveva rischiato così tanto da meritarlo, quell’ultimo incontro era il premio per la sua follia. Anche se Michele pensava che lei fosse tutt’altra persona, si era interessato a lei. Voleva salutarlo, voleva guardarlo un’ultima volta prima di sparire.

Chiese a un ufficiale il quale le disse che né il Capitano né Michele erano lì. Quel giorno erano andati via presto.

Benedetta uscì dall’ufficio e si guardò intorno. Fissò il molo, le navi, i gabbiani. Avrebbe portato tutto con sé. Ciò che aveva vissuto valeva molto di più di cento anni di esistenza ordinaria, si disse. Sorrise: era un’eroina come quelle dei suoi libri, non doveva aver paura.

Quando rientrò era già tardi. Entrambi i genitori del marito erano al capezzale del figlio. Nessuno le rivolse la parola.

«Come sta Frank?» domandò piano.

«E come deve stare?». La voce della suocera era astiosa: «Chiede di te. E tu non ci sei».

Benedetta fece finta di nulla e si diresse verso il ragazzo. «Tesoro, sono qui, qui vicino a te».

«Benedetta, sei tornata...». Il suo tono colmo di sollievo era peggio di un rimprovero.

«Sono qui». Gli sfiorò la guancia bollente.

«Visto che sei qui» la voce della donna non era cambiato «noi andiamo a casa. Tornerò fra un paio d’ore, cerca di esserci».

La nuora non rispose. Li accompagnò silenziosamente alla porta e poi raggiunse Frank che già la chiamava. Lo coccolò a lungo e gli rimase accanto fino a quando non fu sicura che dormisse profondamente; poi andò all’armadio di legno scuro, lo aprì e ne estrasse il vestito con la tasca rigonfia. Attenta a non fare rumore, si recò in cucina e versò il contenuto della tasca su un pezzo di carta. La polvere chiara si sparse sul foglio. Lo richiuse velocemente. Si guardò intorno prima di aprire la grande cassapanca a muro dove nascose il sacchetto. Per quando il dolore sarebbe stato troppo grande, si disse sorridendo tristemente.

Il giorno dopo era venerdì e Benedetta non uscì di casa neanche per un momento. Si muoveva come un fantasma e il suo pensiero si spostava da Michele alla polvere nella cassapanca. Era stato bello, pensava continuamente.

Il sabato mattina la casa era già affollata. Il medico disse che Frank aveva bisogno di latte fresco e serviva qualcuno che andasse a comprarlo. Benedetta si offrì con un entusiasmo che venne accolto molto male dalla suocera. Non avrebbe mollato, insistette dicendo che camminare un po’ le avrebbe fatto bene e, visto che il dottore si mostrava d’accordo, alla fine la spuntò.

Uscì precipitosamente per poi fermarsi in fondo alla strada. Poggiò le spalle al muro e chiuse gli occhi indifferente alla curiosità dei passanti. Anche se fosse andata al porto, cosa avrebbe fatto? Avrebbe raccontato ancora bugie solo per rivederlo? Per la prima volta si chiese se, gestendo diversamente le cose, avrebbe avuto un’opportunità. Scacciò subito quel pensiero: nessuno si sarebbe interessato a lei se avesse raccontato la verità, al massimo, l’avrebbero compatita.

Non avrebbe più rivisto il suo amore e avrebbe lasciato che il suo futuro si compiesse. Tremava. Si staccò dal muro e andò verso la latteria.

Quando rientrò trovò i suoceri, il medico e Gabriella che parlavano. Il dottore le andò incontro e la prese da parte. «Senta, temo che suo marito abbia una brutta polmonite ma non ne sono ancora certo. Ho chiamato un collega per un consulto. Verrà domani». Si tolse gli occhiali e la guardò serio. «Frank presenta una serie di sintomi riconducibili a più patologie... gravi, certo, ma io, allo stato delle cose, non posso fare una diagnosi. Mi dispiace, capisco la sua apprensione, ma bisogna essere forti... Intanto, se vuole, mi farebbe piacere visitarla; come si sente?».

«Pensi a mio marito» rispose secca Benedetta subito in allarme.

L’uomo la guardò un momento e non aggiunse altro.

Il giorno dopo i due medici discussero a lungo, sottovoce, con Frank che dormiva poco distante. Bisbigliavano avvolti dalla penombra ovattata della stanza. Benedetta avrebbe voluto aprire un po’ le persiane per far filtrare i raggi del sole: come potevano fare una visita accurata con così poca luce? Uscirono dalla camera senza avere un’idea chiara su cosa stesse affliggendo l’uomo. Erano spiazzati – spiegarono – dal gran numero di sintomi e affermarono che era necessario far passare qualche altro giorno per capire esattamente di cosa si trattasse.

Visto che bisognava solo aspettare, Benedetta ottenne finalmente di rimanere sola con il marito; non ne poteva più di avere tutta quella gente intorno. Preparò una semplice minestrina come aveva ordinato il dottore, poi si sistemò sul bordo del letto per imboccarlo. Frank la guardava con grandi occhi riconoscenti, in una espressione istupidita dalla malattia. Lo imboccò lentamente mentre pensava a ciò che aveva nascosto nella cassapanca. Si toccò la fronte spostando una ciocca di capelli e si rese conto di essere calda anche lei. Ma la sua non era febbre. Ardeva, dovevano essere i pensieri a bruciare.

... Dovrò simulare un aborto spontaneo, sì, certo, è la soluzione migliore... ma poi vorranno visitarmi... Un medico si accorgerebbe subito che non è vero, capirebbe subito che non c’è mai stato un bambino... Forse sarebbe stato meglio se avessi seguitato a cucire con mia madre...

Si è addormentato, sembra così tranquillo ora... Dovrebbe continuare a dormire così, senza svegliarsi. E invece domani dovrà farlo e soffrirà per la sua malattia e per la paura che io lo lasci... Perché io ti lascerò. Ti lascerò.

Dormi, Frank. Approfitta di questa serenità che ti viene concessa e non avere fretta di svegliarti... Io sono qui, vicino a te, a vegliare sul tuo sonno... dormi...

Se Frank morisse io sarei libera... Maledetto pensiero... Via! Non devo neanche pensarlo.

... È talmente malato, non sanno neanche di cosa si tratti, perché devo fare finta di niente? Il dottore ha detto che devo essere forte e questo si dice in un solo caso... Frank potrebbe morire da un momento all’altro ed è stupido negarselo... e io vorrei che fosse così, questa è la verità. Mi faccio paura. Io vorrei che mio marito morisse per essere libera. È così. Dal primo momento in cui si è ammalato ho sperato che morisse, che mi liberasse. O tu o io, Frank. O tu o io. Se questa notte morisse io sarei libera, potrei andare da Michele. Potrei... Dio, sto delirando...

Ma che malattia avrà? Possibile che nessuno riesca a capirci nulla?... E se non fosse grave? E se fosse una semplice influenza facilmente guaribile? Non sanno cosa abbia: potrebbe essere letale ma potrebbe anche essere una sciocchezza. Questa non è vita, è un ammasso di giorni.

Se Frank non muore farò quello che devo... Ho la polvere, non mi serve altro. La mia via d’uscita... Del resto sapevo che avrei pagato un conto, alla fine, per quello che stavo facendo, per la felicità che ho rubato, ma non rimpiango nulla. È stato tutto così bello... e breve, e forse pagherò un prezzo troppo alto per una gioia così fugace, ma la parcella non si discute.

Eccola! L’avevo nascosta proprio bene. Questa polverina sarà la mia salvezza. Guarda, Frank, guarda cosa farà tua moglie se non morirai. Uno di noi deve andarsene... Certo se io morissi tu ne soffriresti molto. Se invece fossi tu a farlo io mi sentirei sollevata... Non tradirmi, Frank, non spingermi a un gesto estremo. Lascia che la malattia faccia il suo corso... rendimi la mia libertà, ti prego... Ma non posso fare affidamento su di te, nella mia vita non ho mai potuto fare affidamento su nessuno. E anche tu, mamma, di fronte al mio gesto capirai di aver sbagliato, di essere stata troppo dura e non avermi lasciato via d’uscita... Io morirò, lasciando tutti voi a chiedervi perché l’abbia fatto, se c’era qualcosa che avreste potuto fare per impedirmelo...

Oddio, mi gira la testa, devo fare tutto ora finché sono lucida... Ecco, la verso tutta, così sono sicura che farà il suo dovere. Il latte non ha nemmeno cambiato colore... Così, caro Frank, se all’alba non sarai morto, se all’alba non mi avrai reso la mia libertà, io me la riprenderò in un altro modo. Avrò la mia soluzione a portata di mano. Mi troveranno qui, accanto a te, senza vita... Ha sospirato! Ed è stato un sospiro tranquillo, un sospiro di uno che dorme beatamente. Cosa hai voluto dirmi? Forse che sarò costretta a bere perché tu vivrai?

«Benedetta... dove sei? Ah, sei qui. Ho tanta sete, Benedetta, ho tanta sete. Il latte, dammi il latte... Ma perché non parli? Voglio solamente bere, ho la gola secca e il latte mi piace... Ah, così va meglio... grazie...».

Fuggì di casa che il sole non si era ancora alzato. Con sé aveva tutti i risparmi di Frank.

Corse per le strade deserte, stordita e sconvolta, mentre lacrime gelide le scorrevano lungo le guance. Arrivò al porto che cominciava appena ad albeggiare. Si nascose in un cantuccio in mezzo a delle enormi casse di legno e, nel delirio della febbre, la consapevolezza del suo gesto cominciava a salirle dentro, a farsi strada nella mente offuscata: aveva ucciso un uomo, aveva ucciso suo marito. Era un’assassina, un’assassina.

Sentì la testa esplodere; non poteva essere accaduto veramente, non era possibile.

Rimase immobile nel suo nascondiglio per ore, la testa ottenebrata. Non sapeva neanche perché si trovasse lì. L’immagine di Frank che prendeva il bicchiere di latte che lei gli stava porgendo l’ossessionava; nella sua ricostruzione cercava di toglierglielo, di buttarlo a terra, ma lui riusciva regolarmente a berlo... per dieci, cento, mille volte. Era un incubo, non poteva averlo ucciso; non potevo aver ucciso Frank, suo marito...

Sentì l’urlo disperato e silenzioso dell’anima: l’aveva fatto, lui era morto e non poteva più tornare indietro per cancellare il suo gesto.

Non si mosse, evitando quasi di respirare, fino a quando degli uomini vennero ad agganciare delle funi alle grandi casse fra cui si nascondeva. La guardarono, stupiti di vederla in quell’assurda posizione, quasi schiacciata fra le pareti di legno. Le domandarono se era lì per la nave, per imbarcarsi. Fece cenno di sì con la testa. Le dissero allora di darsi una mossa perché i passeggeri erano quasi tutti saliti.

«Ma ce l’ha il biglietto?».

Rispose di no. Le indicarono allora un baracchino poco distante. «Ma si sbrighi, o non troverà più posto».

Andò in biglietteria e pagò la cifra che le venne richiesta. Non le rimaneva molto in tasca. Con il biglietto in mano, si voltò e vide la grande nave scura, i fumaioli grigi, la gente affacciata sulle ringhiere dei ponti. Era una nave per l’Europa.

Sul lato opposto c’era l’edificio della Capitaneria di porto.

Si diresse come un automa in direzione della scaletta. Era la stessa da cui era sceso Michele quando era arrivato in America. Era lì che l’aveva visto per la prima volta.

Si passò una mano sulla spalla, nel punto che lui le aveva indicato proprio alla fine di quella stessa scaletta.

In Europa non la conosceva nessuno, poteva ricominciare da capo, rifarsi una vita, pensare al futuro, invecchiare. Si voltò ancora verso la Capitaneria. C’era un ragazzo, di spalle, alto e con i capelli neri e lucenti.

Dalla nave arrivò un lungo fischio. L’ultimo passeggero salì affannosamente sulla scaletta urtandole la spalla. Non si scusò neanche. Benedetta traballò appena. Un pallido sole le scaldava le guance e lei batté lentamente gli occhi rivolgendo il viso nella sua direzione. I gabbiani volteggiavano. Il mare scintillava.

Abbassò lo sguardo sul biglietto e lo fissò per un tempo infinito. Aveva capito.

Lo buttò in acqua con un gesto ampio del braccio e il biglietto volteggiò nell’aria come fosse un uccello.

Sorrise. Mosse le gambe verso quella figura sentendo che la testa si svuotava di tutto riempiendosi solo di una frase che le aveva letto Lidia in un’altra vita. L’aveva scritta un poeta latino di nome Orazio secoli prima. Non avrebbe portato con sé nient’altro, non le serviva altro.

Mentre parliamo, il tempo invidioso sarà già fuggito: cogli l’attimo, confidando il meno possibile nel domani.