A un osservatore che salga su una montagna, e si spinga sempre più in alto per avere una visione panoramica più ampia, l’orizzonte apparirà, per quanto lontano egli possa arrivare con lo sguardo, sempre più compatto, povero di particolari. Così, a uno studioso moderno che si sforzi di spingere la propria ricerca il più lontano possibile nei secoli, la storia dei popoli antichi si mostrerà inevitabilmente indistinta. A questo destino non sfuggono le vicende di Israele, un piccolo popolo dal destino singolare.
Le sue origini sono incerte: probabilmente furono oscuri nomadi senza terra, piccoli pastori di greggi, coloro che, diventati leggendari aramei erranti, generazione dopo generazione gettarono le basi di una concezione religiosa che sarebbe diventata una raffinata forma di monoteismo etico e avrebbe influenzato l’intera civiltà europea.
Al di là delle vicissitudini e delle teorie che tendono a gettare luce su quei tormentati inizi, è interessante fermare l’attenzione sul fatto che l’autocoscienza di Israele, del suo essere popolo, trova il suo fondamento originale nella Bibbia: punto focale di un processo di straordinaria maturazione storica, nel quale il problema delle origini viene sublimato, secondo il costume dei popoli, e acquista consistenza mitica. Sedimento di numerose concezioni straniere, con influenze iraniche e di altre religioni semitiche del Vicino Oriente Antico, la Bibbia resta la fonte dell’appassionata identità di Israele e della sua aspirazione a essere un popolo santo, una condizione esistenziale, sin dai primi tempi, severa, utopica, terribile.
Nell’Esodo l’ostilità degli egiziani verso gli ebrei viene compiutamente narrata e le discussioni tra Mosè e il faraone sono il confronto, non solo tra due uomini, ma anche tra due sistemi religiosi. Nel Libro di Ester Israele, forse per la prima volta, viene definito come un popolo disperso in tutte le province del regno di Persia ma inassimilabile, e viene anche minacciato di sterminio: «In tutte le città del tuo regno» dice il ministro Amman al re Assuero «vi è un popolo disperso, che vive appartato dagli altri, ha legge diversa da quella di tutti i popoli e non osserva le leggi del Re». È la prima testimonianza diretta delle conseguenze di una originalità religiosa che non viene accettata dalle altre genti, ma non vi è dubbio che fattori leggendari e mitici vengano enfatizzati in queste pagine che sono di fonte ebraica, poiché ogni popolo nutre di leggende le proprie origini.
Che il mondo pagano e quello romano abbiano cercato di reagire all’influenza di Israele e della sua singolare visione religiosa, non è cosa che stupisce. Il giudaismo godeva nel mondo mediterraneo di vasta popolarità e le sue idee si diffondevano in numerosi strati sociali: è stato calcolato che la popolazione ebraica nell’Impero Romano sia arrivata a sette milioni di persone, circa il 7% del totale. Appare indiscutibile che il mondo ebraico era ben inserito in quel vasto macrocosmo e si può escludere che vi siano state, contro di esso, tensioni coerenti e sistematiche. La diaspora (parola greca che significa «dispersione») era già divenuta realtà sin dall’VIII secolo a.C.; forti comunità sono attestate in Antiochia, Alessandria e Roma, e in oltre cinquecento città, piccole o grandi, del Mediterraneo.
A Elefantina (V sec. a.C. – colonia ebraica in terra egizia), e ad Alessandria, qualche secolo dopo, nel 38 d.C., scoppiarono tumulti che culminarono in gravi disordini e saccheggi contro gli ebrei, ma furono esplosioni circoscritte, forse prodotte da contrasti e incomprensioni tra popoli diversi, tra una visione ebraica e una pagana, non espressione di una ostilità radicata e diffusa: tra i due avvenimenti c’è una distanza temporale di trecentocinquant’anni! Nell’antichità si verificarono eventi ben più drammatici, duraturi e ricorrenti, tra gli stessi popoli pagani, sempre l’uno contro l’altro armati. Interpretare singoli episodi di violenza contro gli ebrei alla luce di categorie storiche posteriori non solo è azzardato, ma addirittura fuorviante.
Nel periodo che va dalla conquista greca di Alessandria all’epoca di Cicerone a Roma, è possibile radunare almeno duecento citazioni di un centinaio di autori diversi, che parlano da punti di vista molto differenti degli ebrei, dei loro costumi e riti religiosi: un’ampia rassegna delle diverse opinioni che gli ebrei hanno suscitato nel mondo greco e romano. Spesso sono testimonianze uniche, le sole informazioni disponibili su questo periodo storico, circa sei secoli, in cui le fonti giudaiche sono scarse, da Neemia ai libri dei Maccabei, ad alcuni scritti di Filone e alla Guerra Giudaica di Giuseppe Flavio (che nelle Antichità citò solo fonti pagane). Gli ebrei vengono descritti come coloni agricoli, di estrazione modesta, artigiani e operai. Molti, quando riuscivano a migliorare la loro condizione, assumevano nomi latini o ellenizzati. Se da un punto di vista sociale non si distinguevano da chi li circondava, ben diversa era la forza della loro identità religiosa. L’austerità del culto ebraico suscitava sentimenti contraddittori: molte incomprensioni, ma anche moti di simpatia.
La fedeltà al Dio unico, prevista dal primo dei dieci comandamenti, impediva ogni atto di ossequio agli idoli, agli dei stranieri e quindi ai monarchi in odore di divinità. Gli ebrei non solo restavano fedeli al loro Dio nazionale, ma negavano che ogni altra divinità fosse qualcosa di diverso dalla mera superstizione. Inoltre il riposo del sabato poteva creare non poche complicazioni con i vicini nei rapporti sociali e politici. La circoncisione, considerata segno di elezione, dell’alleanza tra l’ebreo e Dio, fu vista con irrisione da alcuni scrittori latini: Orazio parlò di curtis judaeis e anche Marziale e Catullo non risparmiarono strali e motteggi, mentre Giovenale e Valerio Massimo si scagliarono contro coloro che ne subivano l’influenza e diventavano simpatizzanti o proseliti. «Corrompono» scrisse quest’ultimo «i costumi romani con il culto di Giove Sabazio.» I riti degli ebrei apparivano a molti non solo poco comprensibili, ma anche immorali. Che rifiutassero la carne suina pareva una originalità senza senso, e solo Plutarco ne dette una spiegazione adducendo motivi di igiene. L’osservanza delle norme alimentari impediva loro di consumare pasti comuni con i non ebrei e molti vedevano in ciò un elemento di incomprensibile separatezza, acuito dalla diversità delle leggi e dai matrimoni endogamici.
Le opinioni degli antichi in ogni caso non sono a senso unico, ma molto differenziate. Tra le prime ci sono quelle risalenti alla scuola di Aristotele: Teofrasto tratta gli ebrei come un popolo di filosofi, mettendo in rilievo come il loro credo fosse sofisticato. Ecateo di Abdera parla con benevolenza della legge mosaica e dopo aver raccontato che Mosè non aveva fabbricato alcuna immagine di Dio, spiega senza animosità che il condottiero ebreo era persuaso che l’unico Dio fosse il cielo che circonda la terra. Questa immagine colpì gli scrittori antichi e sia Strabone che Celso la ripresero e la diffusero. Giovenale scrisse che adoravano il cielo e le nubi; Diodoro Siculo, Pompeo, lo stesso Giovenale e Tacito invece li accusarono di odiare gli altri uomini, di essere dei dissoluti, quasi, secondo un’opinione diffusa, un popolo di atei, il che ci fa capire come agli antichi sfuggisse il senso religioso astratto della tradizione ebraica e come il Dio immateriale fosse considerato un non-Dio. Tacito, che scrisse molto sugli ebrei e mostra di essersi in qualche caso ben documentato, li accusò di libidine – projectissima ad libidinem gens – e aggiunge caustico: «Là è profano tutto quello che per noi è sacro e, al contrario, è permesso presso di loro tutto quello che presso di noi è abominio». Egli alimentò inoltre la bizzarra leggenda che il loro Dio fosse un asino e per questo non lo si dovesse vedere, leggenda ripresa dagli scrittori greci Mnasea (II sec. a.C.) e Apollonio Molone (I sec. d.C.), ma anche da Posidomo, Democrito e Apione. Questi miti venivano alimentati dalla inafferrabilità del Dio ebraico, ineffabile e invisibile, come mise in evidenza Dione Cassio. Grande deve essere stata la delusione di Pompeo quando giunse nella parte più riservata del Tempio, il Sancta Sanctorum, e non trovò né tesori né immagini, ma un luogo vuoto che apparentemente non conteneva alcun segreto: vacuam sedem et inania arcana, scrisse Tacito.
I romani in un primo momento rimproverarono agli ebrei il rifiuto ostinato del culto imperiale, di cui non capivano le motivazioni: la fedeltà rigorosa alle loro leggi li metteva in una condizione di isolamento sia religioso che sociale, talvolta difficilmente comprensibile e giustificabile. L’accusa di misantropia diventò in qualche periodo molto forte e Seneca disse che i vinti cercavano di imporre le loro leggi ai vincitori. Plinio il Vecchio, nella descrizione geografica della Giudea, li chiama gens contumelia numinum insignis, confondendo il loro disprezzo per gli dei con un sentimento di generale empietà. Quintiliano ne biasima, in un passo della sua opera sull’arte oratoria, la superstizione; Cicerone non ne apprezza la tendenza all’isolamento, deprecata anche da Giovenale, che sottolinea anche il fatto che molti ebrei fossero poveri e che tra loro si trovassero spesso dei mendicanti.
Giuseppe Flavio ha raccolto, nel Contro Apione, le testimonianze di numerosi autori che polemizzarono aspramente contro gli ebrei: Manetone, Posidonio, Lisimaco d’Alessandria e lo stesso Apione. Questo testo può essere considerato il primo pamphlet in difesa del giudaismo contro le calunnie raccolte dall’alessandrino Apione, ma le accuse non si scostavano da una genericità indistinta ed è probabile che a essere considerati tarati o lebbrosi fossero in molti, ebrei e non ebrei, quando occorreva diffamarli. Le pagine polemiche di Manetone e di Apione, se rivelano l’ignoranza della realtà ebraica, sembrano essere espressione di superstizione e di malignità pubblica, nulla di più. Alcune accuse, per esempio di non essere socievoli, erano piuttosto comuni ma non sembrano essere né organiche né reiterate. Apione andò oltre, considerava gli ebrei degli atei e li accusò di compiere sacrifici umani e di uccidere di tanto in tanto qualche ignaro visitatore greco, naturalmente dopo averlo ben ingrassato. L’idea dell’omicidio rituale e quella della congiura mostruosa erano due topoi diffusi nel mondo ellenistico e anche in quello egiziano. Anche i cristiani, finché furono confusi con gli ebrei nei primi momenti della loro storia, furono accusati di praticare le stesse nefandezze e, in particolare, omicidi a sfondo religioso.
Nonostante le calunnie e i fraintendimenti, gli ebrei godettero per lunghi periodi di veri privilegi giuridici a Roma e, sebbene il loro comportamento non fosse dei più docili, fu loro concesso in numerose occasioni il diritto di cittadinanza, di diventare cives Romani optimo jure. Cesare in particolare fu generoso con loro e concesse ampi privilegi. La notizia del suo assassinio colpì la popolazione ebraica romana che manifestò un sincero dolore.
L’imperatore Adriano prese alcuni provvedimenti contro la circoncisione e nel 132 d.C. stabilì che fosse costruito un santuario dedicato a Giove sulle rovine del Tempio di Gerusalemme: la decisione suscitò la resistenza armata degli ebrei guidati da Bar Kokbah, che durò tre anni nonostante gli sforzi repressivi delle truppe romane. Forse queste misure furono decise anche per cercare di arginare un proselitismo diffuso. Con il successore Antonino ritornò una sostanziale tolleranza e tranquillità.
A Roma la libertà religiosa veniva sostanzialmente rispettata e ogni popolo aveva le proprie divinità: i romani, nonostante le continue rivolte in Giudea e i grattacapi causati da quei sudditi pronti alla ribellione, mostrarono complessivamente un atteggiamento moderato. «Tollerare il Dio degli Ebrei» ha scritto lo storico Juster «significava sopprimere, a favore degli ebrei, il carattere penale di infrazioni per omissione, significava sospendere la legge, creare per loro dei privilegi. Poiché le eccezioni a una legge a favore di una minoranza sono giuridicamente dei privilegi… tuttavia non ammetterlo significava contraddire il principio antico della tolleranza e rendere impossibile il culto ebraico. È chiaro il dilemma: o persecuzioni o privilegi. Agli ebrei questa alternativa si pose ogni volta che a Roma vi furono mutamenti nel potere politico.»
Per concludere, da un lato l’esiguità delle fonti impedisce di cogliere con sufficiente sicurezza i lineamenti del ruolo ebraico nel mondo antico; dall’altro, le luci e le ombre che possiamo constatare non permettono conclusioni organiche. L’antigiudaismo non fu pregnante né dominante. Chi vi ha colto l’inizio di un filo rosso antisemita di tipo metafisico ha applicato in modo illegittimo categorie a priori, vi ha proiettato le proprie ansie o preferenze, o addirittura le proprie fantasie, e in ogni caso si è allontanato di molto dal terreno della storia.