II

Gesù ebreo

Il pregiudizio nei confronti di uomini sconosciuti nasce spesso dall’ignoranza sulla propria identità. Temere l’altro e odiarlo significa, anzitutto, temere se stessi. Fuori di metafora: il cristiano teme l’ebreo quando non lo conosce e perché un insegnamento di secoli lo ha convinto, forse solo inconsciamente, che l’ebreo mette in dubbio le sue certezze religiose. Lo stesso san Paolo del resto riconosceva, in 1 Cor. 15,14, che «se poi Cristo non è risorto, vana è dunque la nostra predicazione e vana è pure la vostra fede». E gli ebrei nei secoli hanno sempre negato che quell’evento sia avvenuto.

Colpisce tuttavia il fatto che – proprio in un’Europa cristiana da secoli, dove in ogni sperduto paese, in ogni valle lontana, è possibile vedere il Cristo crocifisso – si sia spesso perduto, o rimosso, il significato profondo di quel simbolo. Se infatti tutti sanno che Gesù è nato ebreo, pochi intendono il valore di questa affermazione in apparenza banale.

Può stupire: di solito si tende a paragonare Chiesa e Sinagoga innalzandole a simboli di due mondi opposti, addirittura antitetici, e in molte chiese – quella di Reims è forse la più celebre – si vede da un lato una statua che simboleggia la Chiesa e accanto un’altra, simbolo della Sinagoga, con gli occhi bendati per ricordare la cecità degli ebrei che non hanno riconosciuto il Salvatore Gesù. Almeno semanticamente, questo contrasto non esiste. La parola sinagoga deriva dalla traduzione greca dell’espressione ebraica Beth ha-Kenèset, casa di riunione; chiesa viene da ecclesia, nel significato di assemblea, e rende il termine ebraico qàhal, inteso come comunità di fedeli; se la traducessimo con sinagoga non sarebbe poi un grave errore. Ma tra giudaismo e cristianesimo vi sono assonanze profonde non solo formali, ma anche di sostanza. L’etica del rabbino Hillel, cioè l’amore verso il prossimo, è la stessa di Gesù di Nazareth. Talvolta sarebbe più opportuno cercare i punti in comune che sottolineare le ovvie divergenze. Cercare le radici comuni del mondo ebraico e di quello cristiano può avvicinare uomini che si credono molto diversi e che invece sono divisi solo dalla diffidenza causata da duemila anni di storia, una truce storia di accuse e di persecuzioni.

Il Sermone della Montagna, una delle preghiere più intense e mature, considerato il manifesto spirituale di Gesù e dei suoi discepoli, è una preghiera non solo cristiana, ma anche tipicamente ebraica, un vero e proprio Beth Midràsh Yeshu. In Isaia, nell’Ecclesiastico, nei Proverbi, in alcuni trattati del Talmùd, nel Testamento dei Dodici Patriarchi è possibile ritrovare identità, parziali o totali, con i versetti contenuti nei Vangeli, una conferma che le preghiere di Gesù scaturivano dai testi ebraici di quel tempo. La stessa scelta del luogo, la montagna, ha un significato evocativo: «Io alzo gli occhi ai monti, donde mi verrà l’aiuto» dice il Salmista.

La prima Beatitudine, rintracciabile anche nei Salmi e nei Proverbi, è dedicata ai poveri di spirito e sembra riferirsi a quelli che in Israele venivano chiamati anaveì harùach, cioè coloro che sono rimasti poveri per amore dello spirito, un’idea di provenienza essena: «Che cosa potrebbe giovare all’uomo se ottenesse il mondo intero, ma perdesse la propria anima?».

La seconda e la terza Beatitudine riprendono temi che compaiono anche in Isaia e nei Salmi, evocano concetti contenuti nel trattato del Talmùd, Eruvìn, in cui è scritto che «il dolore riscatta le anime» e in Sukkòt, in cui è scritto che «gli umili possiedono la terra e godono una pace inalterabile». La quarta, «Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia, perché saranno saziati», evoca la profezia di Amos e può essere interpretata come il momento politico più forte dell’intero sermone.

«Beati i misericordiosi poiché avranno misericordia» si collega a espressioni che si leggono in Shabbàth, 151b: «Rabbi Gamaliel ben Rabbi diceva: “Chi ha misericordia del proprio prossimo, di costui si ha misericordia nel cielo, e chi non ha misericordia del proprio prossimo, di costui non si ha misericordia nel cielo”».

«Voi siete il sale della terra; ma se il sale diventa insipido, con che lo si salerà? Non serve più ad altro che a essere buttato via ed essere calpestato dagli uomini. Voi siete la luce del mondo.» Attèm mèlach ha-àretz: «Voi siete il sale della terra». Che Gesù abbia scelto la metafora del sale non deve sorprendere perché questo elemento naturale è il simbolo della saggezza e dell’intelligenza e nel Talmùd si può leggere: «La Toràh assomiglia al sale, la Mishnàh al pepe, la Ghemaràh alle droghe. Il mondo non può sussistere senza il sale, il pepe, le droghe, ossia senza la Legge, la Mishnàh, e la Ghemaràh». Gesù fu un ebreo fedele alla Toràh: «In verità io vi dico che fino a quando non passeranno il cielo e la terra, uno iota solo o un solo apice non passerà dalla Legge fino a che tutto non sarà adempiuto». Lo iota corrisponde alla yod ebraica, che in alcune forme di scrittura può essere tralasciata. Apice è il puntino che nella scrittura ebraica aggiunge alle consonanti le vocali e, in qualche caso, le cantilene necessarie nella lettura ad alta voce della Toràh.

Il Padre nostro, per esempio, è una bella e fervente preghiera: «Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome; venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo, così in terra. Dacci oggi il nostro pane quotidiano; rimetti a noi i nostri debiti, come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori, e non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male… Se voi infatti perdonerete agli uomini le loro colpe, le rimetterà anche a voi il Padre celeste, se invece non le perdonerete agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe».

Avìnu malkènu schèh bashamaìm: queste sono le parole ebraiche che traducono «Nostro padre, nostro re che sei nei cieli». «Che sia santificato il tuo nome e che il tuo regno arrivi» è un verso del Qaddìsh, una preghiera diffusa in Israele sin dai tempi antichi. «Sia fatta la tua volontà»: è una formula consueta contenuta nel primo libro dei Maccabei. «Dacci il nostro pane quotidiano»: la domanda del pane fa parte della nona benedizione della Tefillàh, di recitazione consueta. «Perdona le nostre offese» è la sesta benedizione dello Shemonèh esrèh e nell’Ecclesiastico si può leggere: «Perdona i peccati del tuo prossimo e quando pregherai i tuoi peccati ti saranno perdonati». Questo confronto potrebbe continuare a lungo.

Per capire nel modo più ampio il significato dell’affermazione «Gesù ebreo» sarebbe necessario ripercorrere la storia di Israele nei duemila anni che precedettero la sua nascita, cogliendo il senso profondo della specificità di quel piccolo popolo che, pur senza godere di un grande potere politico, tuttavia ha saputo lasciare una traccia profonda, ha saputo fondare il monoteismo etico; sarebbe necessario percorrere con passo lento, per poterne apprezzare compiutamente la straordinarietà, il poetico itinerario della venuta dei profeti in terra di Israele e conoscere, infine, l’evoluzione dell’idea messianica nei diversi periodi della lunga storia ebraica alla luce delle diverse situazioni politiche contingenti.

Gli stessi Vangeli danno testimonianza, in numerose occasioni, della identità ebraica dell’uomo di Nazareth: fu circonciso otto giorni dopo la nascita, frequentò assiduamente le sinagoghe, studiò i sacri testi, fece miracoli e, per far conoscere il proprio messaggio, ricorse, secondo l’uso ebraico, alle parabole.

Gesù, come ogni ebreo nel corso dei secoli – lo riferisce con eloquente chiarezza l’evangelista Marco –, considerava lo Shema’ Yisraèl la sintesi essenziale dell’ebraismo: «“Qual è il primo dei comandamenti?”. Rispose Gesù: “Il primo è questo: Ascolta Israele, il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutte le tue forze. Il secondo è questo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Altro comandamento più grande di questo non c’è”»: in poche e secche parole c’è la riaffermazione più autentica della fedeltà al giudaismo da parte di Gesù.

Molti commentatori ed esegeti hanno interpretato la frase evangelica che gli è stata attribuita: «Il Sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il Sabato cosicché il Figlio dell’uomo è padrone anche del Sabato», come un allontanamento dai precetti della Legge, ma in realtà quelle parole riflettevano una delle posizioni di un dibattito molto intenso all’interno della società ebraica. Nel Talmùd è scritto infatti: «Il Sabato è dato a voi, non voi al Sabato. Profana il Sabato per poterne osservare molti».

Si può osservare che non Gesù, ma i suoi discepoli furono accusati di aver violato il Sabato ed egli negò che tale trasgressione vi fosse stata e si sforzò di dimostrarlo. Dopo aver guarito un altro malato, Gesù disse infatti ai dottori della Legge e ai farisei: «È lecito o no guarire nel giorno di Sabato?». Ma quelli tacquero. Allora egli toccatolo lo guarì e lo congedò. Poi disse loro: «Chi di voi non estrarrebbe di Sabato un figlio o un bove che gli fosse caduto nel pozzo?». Nei manoscritti di Qumran è stato rinvenuto uno scritto che riecheggia queste parole e dà testimonianza di una posizione radicalmente diversa all’interno della società ebraica: «Nel giorno di Sabato nessuno aiuti una bestia a partorire e se cade in una cisterna o in una fossa, di Sabato, non la tiri su… se una qualsiasi persona cade in un luogo pieno d’acqua o in un altro luogo, nessuno la faccia risalire con una scala, con una corda o con qualsiasi altro oggetto».

In un’altra occasione Gesù ricorre a un ulteriore esempio: «Voi circoncidete di Sabato. Se di Sabato si riceve la circoncisione onde non si trasgredisca la Legge di Mosè, vi adirate contro di me perché di Sabato ho risanato un uomo?». In queste parole si può cogliere il segno di una concezione radicale e non formalistica, che privilegia i contenuti: se il Sabato poteva venir sospeso per attuare la mitzwàh della circoncisione tenuta in grande considerazione, allora anche una guarigione poteva essere considerata un motivo sufficiente per fare un’eccezione. All’interno di un sistema logico ben definito, Gesù ricorse dunque a un modo di argomentare tipico dei rabbini, frutto di una regola ermeneutica che deduceva per analogia il comportamento da tenere. In ogni caso egli non ammetteva di essere al di fuori della Legge e mantenne lo stesso atteggiamento quando oggetto della discussione furono le regole alimentari ebraiche.

Tutto ciò è comprensibile: la buona novella, cioè l’Evangelo con l’annuncio del prossimo Regno di Dio e della liberazione di Israele, era indiscutibilmente rivolta agli ebrei del suo tempo. In Matteo lo scopo è manifesto: le sue parole sono indirizzate «alle pecore perdute della casa di Israele». Ai discepoli poi Gesù rivolge una ulteriore raccomandazione: «Non andate per la via dei gentili e non entrate nelle città dei samaritani». Una predicazione tipicamente giudaica all’interno del mondo giudaico.

Gesù fu dunque un ebreo osservante che credeva nella Legge e nel popolo di Israele: come è diventato il messia dei gentili? come è possibile che i suoi seguaci, pur convinti della sua divinità, abbiano perseguitato il suo popolo?

Mentre le moltitudini cristiane, che hanno creduto in lui, nel suo messaggio e nella sua resurrezione, hanno visto in quell’uomo crocifisso il simbolo del Dio vivente, i figli di Israele, perseguitati per secoli nelle terre d’Europa, hanno sentito in quel simbolo doloroso non solo l’iconografia della sofferenza umana e della morte, ma anche dell’oppressione e della violenza esercitata dall’uomo sull’uomo. L’accusa crudele di deicidio, oltre che un’eccentrica idea metafisica senza alcun fondamento reale, frutto di una proiezione di miti inconsistenti, è stata spesso usata per sostenere la legittimità di discriminazioni e persecuzioni antigiudaiche. Così proprio il popolo dal quale Gesù era nato e da cui aveva assorbito, fin dalla più tenera età, le idee etiche più nobili, aveva dovuto subire non amore e tolleranza in armonia con il suo messaggio, ma violenza e morte in suo nome.

Saulo di Tarso, detto anche Paolo, fu il primo, pur partendo da una visione interna al popolo ebraico, a offrire un sistema di pensiero innovativo. Nato nella diaspora e cittadino romano, considerò Gesù un martire di Israele, che aveva agito da messia, ma anche una vittima della incomprensione del suo popolo, venduto dai sacerdoti ai romani. Il significato che egli dà della morte di Gesù, come conclusione di un piano divino e predestinato frutto della Provvidenza, si distacca dalle idee ebraiche e da quelle dei giudeocristiani di Gerusalemme. Nella Lettera ai Corinzi Paolo, che vede la messianicità regale non nella vita e nell’azione di Gesù, ma nella sua crocifissione sul Golgota, esclama: «Il Cristo è morto per i nostri peccati». I protagonisti terreni di quel dramma sono dunque esecutori senza autonomia.

Convinto di vivere in giorni messianici e che Gesù fosse non solo il messia di Israele, ma di tutta l’umanità, Paolo, che pure nella Lettera ai Romani definisce santa la Legge, ritenne che il periodo della Toràh fosse finito e a queste idee ispirò tutta la sua predicazione. Decise dunque, dopo essere stato a contatto non solo con molti ebrei diasporici ma anche con molti pagani, greci e romani, di rinunciare alle leggi alimentari ebraiche e alla circoncisione della carne, che doveva essere sostituita con quella simbolica del cuore. Queste conclusioni, che certo rendevano più facile la sua predicazione e il suo successo tra i nuovi adepti, lo portarono a un aspro contrasto con la Chiesa di Gerusalemme guidata da Giacomo fratello di Gesù, rimasta fedele ai dettati della Toràh.

Da questi giudeocristiani Paolo si dissocia con durezza: è a loro che si riferiscono le parole rivolte agli anziani di Efeso e riprese negli Atti degli Apostoli: «Io so che dopo la mia partenza entreranno in mezzo a voi dei lupi rapaci che non risparmieranno il gregge e anche in mezzo a voi sorgeranno degli uomini a insegnare cose perverse per trascinare i discepoli dietro a sé». Ancora negli Atti egli accusa gli abitanti di Gerusalemme e i loro capi di aver chiesto la morte di Gesù a Pilato e nella Lettera ai Tessalonicesi arriva ad accusare direttamente i giudei di aver ucciso il Signore. Queste dure parole, che interpretate al di fuori del contesto hanno segnato la lacerazione dei secoli successivi, erano il frutto dell’aspro conflitto tra lui che sosteneva il Vangelo degli incirconcisi e i giudeocristiani che restavano nell’ambito della Legge e predicavano il Vangelo dei circoncisi. Paolo accusò con foga questi ultimi di cecità, durezza di cuore, incapacità di capire la verità, a causa di un velo che il Signore aveva posto davanti ai loro occhi. Ma egli non rinnegò mai il popolo ebraico, di cui in più di una occasione ribadì di far parte. Nella Lettera ai Romani nega che Dio abbia abbandonato il popolo ebraico e, riallacciandosi alle parole profetiche di Osea e di Isaia, enuncia la teoria del «residuo eletto», gli ebrei che credono in Cristo, e dichiara che gli ebrei «sono nemici per via di voi, ma per quanto concerne l’elezione sono amati per via dei loro padri, perché i doni e l’elezione di Dio sono senza pentimento» e in un altro passo che «a loro appartengono l’adozione, la gloria, i patti, la legislazione, il culto, le promesse… i padri».

Paolo dunque si scaglia soprattutto contro i giudeocristiani di Gerusalemme, che avevano conosciuto direttamente Gesù e che non vedevano con simpatia la predicazione di questo apostolo che si allontanava dalle prescrizioni della Toràh e dichiarava di aver conosciuto il Cristo risorto direttamente come una folgorazione sulla via di Damasco. Le sue parole, frutto di contrasti fra i seguaci di Gesù, furono tuttavia le premesse di interpretazioni malevole e strumentali da parte dei suoi successori, che le usarono non già contro i giudeocristiani ormai ingoiati dalla storia, ma contro tutti gli ebrei. La sconfitta dei ribelli ebrei da parte dei romani nel 70 d.C., la conseguente caduta di Gerusalemme e la scomparsa della sua Chiesa giudeocristiana che era stata fino a quel momento il nucleo più fedele all’insegnamento di Gesù di Nazareth, sono gli avvenimenti che finirono per rilanciare, dopo un momento di eclissi, le idee di Paolo in Asia Minore, in Grecia e nell’Impero Romano in tutte quelle comunità che, dopo essere state legate ai nuclei giudeocristiani, si trovavano ora improvvisamente prive di punti di riferimento.

È questo un passaggio storico cruciale, spesso dimenticato o rimosso, che avrà conseguenze rilevanti. I cristiani sopravvissuti alla catastrofe del 70 sono quasi tutti di origine gentile e non hanno più alcun legame con il popolo ebraico. Anzi, devono cercare di differenziarsi dagli ebrei che sono stati sconfitti e che sono detestati perché con la loro tenace ribellione hanno saputo tener sotto scacco per lungo tempo la potenza romana; alla fine proprio i trionfi spettacolari celebrati a Roma danno l’idea dell’atmosfera di sospetto e di disagio in cui si erano venute a trovare le numerose comunità della diaspora accusate di doppia lealtà, o di scarsa lealtà verso l’Impero.

Ecco quindi che i Vangeli, attraverso la cui testimonianza è possibile ritrovare la forte identità ebraica di Gesù, devono sforzarsi di trasformare il messia ebreo in un messia accettabile ai gentili e la narrazione rivolta a cittadini romani o greci deve prendere le distanze dagli ebrei sconfitti e cancellare l’etichetta di setta ebraica attribuita ai primi cristiani.

Per fare questo è necessario raccontare il tradimento, l’arresto, il processo, la resurrezione in modo che non offenda i romani vincitori. Anche perché, mentre i giudei erano una nazione vinta e non rappresentavano più un problema politico-militare, i cristiani invece erano molto vitali e guadagnavano proseliti; se si presentavano come eredi della tradizione di quella religione, apparivano sotto luce sospetta, come una forza rivoluzionaria all’interno dell’Impero. Occorreva allora dare un’immagine diversa, pacifista, per poter sopravvivere alla disfatta ebraica. Accusare i giudei e non i romani della morte di Gesù in fondo era il minore dei mali, una mossa tattica non particolarmente grave. Matteo, Marco, Luca e Giovanni finirono così per accreditare, sia pure in modi e con sfumature diverse, un Gesù pacifista, agli antipodi dell’immagine, a Roma prevalente, del giudeo combattente pugnace, zelota sovversivo e fanatico.

L’antigiudaismo strumentale fu dunque una necessità contingente, che non impedisce di cogliere in controluce, al di là delle diverse interpretazioni e contraddizioni fornite dagli evangelisti, una sostanziale realtà storica. L’immagine di un Gesù immerso nella sua spiritualità, estraneo ai fermenti politici che avevano sconvolto il paese sin dai tempi della sua fanciullezza, sembra rispondere a necessità tattiche piuttosto che alla realtà dei fatti. Un’estraneità tanto più singolare se si pensa che Gesù era stato accolto come un liberatore, portavoce di una concezione messianica che secondo la tradizione ebraica prevedeva la libertà politica sia del popolo che della terra di Israele. Agli occhi dei romani e agli occhi dei primi lettori dei Vangeli, che furono scritti quasi certamente negli anni dal 70 al 150, la crocifissione non poteva che essere considerata per quello che era, un supplizio tipicamente romano. Lo storico Giuseppe Flavio, fonte non sospetta, se si considera che scrisse le sue opere alla corte dei Flavi, racconta che Quintilio Varo crocifisse 2000 ebrei e che Tiberio Alessandro uccise in questo modo Giacomo e Simone figli di Giuda di Galilea; Floro usò lo stesso sistema per sconfiggere i nemici durante l’assedio di Gerusalemme nel 66 e Tito arrivò a metterne in croce 500 al giorno.

Marco, nel suo Vangelo, non poteva non tener conto che tutti avrebbero compreso bene il significato della morte sulla croce di un Gesù sovversivo e sbeffeggiato con la scritta INRI, «Gesù nazareno re dei giudei». Occorreva allora dare una interpretazione diversa, che potesse conciliare le esigenze dei cristiani e quelle dei romani, che eliminasse motivi di conflitto. Ponzio Pilato venne quindi trasformato, da responsabile del potere politico romano in Giudea, in testimone dell’innocenza dell’imputato, e poiché quella morte sulla croce doveva essere attribuita a qualcuno, essa venne ascritta ai capi ebraici, a quei sadducei che erano stati un’emanazione collaborazionista degli invasori.

Occorre sottolineare che questi avvenimenti devono essere letti nel quadro della storia del tempo e non con le categorie di pensiero di oggi. Quindi non ci si sogni di dire che Marco era un antisemita: sarebbe un’emerita sciocchezza. Marco, da fine politico e apologeta, offre al suo lettore una visione storica che gli è conveniente e mai avrebbe sospettato che la sua operazione apologetica in difesa dei primi cristiani sarebbe stata la prima pietra di un tenace pregiudizio antigiudaico posteriore, di tono teologico, che nel corso dei secoli si sarebbe alimentato proprio alle fonti evangeliche. Nei Vangeli dunque è possibile trovare la fonte di alcuni fraintendimenti che acquistarono un preciso significato grazie ai pregiudizi successivi. Marco è attore inconsapevole di un dramma non suo.

Sono così i capi ebrei a far condannare Gesù e sono loro, contrariamente a ogni logica, che comandano al rappresentante dell’autorità di Roma. Quando mette in bocca a Gesù alcune parole sul tributo dovuto a Cesare, Marco è attento a sottolineare la lealtà del Nazareno nei confronti di Roma. Egli sostiene che Gesù non fu capito dal suo popolo, cerca di lasciar intendere che era un contestatore della Legge e se ne era allontanato ripudiando la sua famiglia e tutti gli ebrei. Così il figlio di Davide e della tradizione profetica diventa il messia dei gentili.

Marco dedica molte pagine a illustrare come non sia più possibile, né per Gesù né per gli altri fedeli, restare in armonia con il vecchio giudaismo che è superato. Egli arriva a dire che l’intero popolo ebraico ha voluto la morte di Gesù; il divorzio non può essere più profondo e chiaro: Gesù e gli ebrei si sono vicendevolmente ripudiati. Il punto più alto di questa apologia viene raggiunto quando il centurione romano esclama: «Veramente quest’uomo era il figlio di Dio». «Così» ha notato Cesare Mannucci «l’Apologia ad Christianos Romanos completa il suo compito; mentre la professione di fede del centurione preannuncia l’accettazione da parte dei gentili della divinità salvatrice di Gesù, il velo del Tempio di Gerusalemme si squarcia dall’alto in basso per indicare che una religione nuova prende il posto del giudaismo.»

Matteo e Luca, che pur seguono la traccia elaborata da Marco, offrono tuttavia alcune indicazioni originali. Matteo insiste sull’aspetto del pacifismo e attribuisce a Gesù parole eloquenti: «Rimetti la spada al suo posto perché tutti coloro che prendono la spada, di spada periranno». Del resto le stesse Beatitudini sono un inno di rinuncia alla violenza. Matteo inoltre rende esplicita e totale la responsabilità della morte di Gesù: Pilato si lava le mani secondo un’usanza ebraica ed esclama: «Io sono innocente del sangue di questo giusto. Ve la vedrete voi»; e tutto il popolo risponde: «Il suo sangue ricada su noi e i nostri figli». In sostanza Matteo cerca di introdurre un rapporto di causa-effetto tra la morte di Gesù e la catastrofe politica del 70, la caduta di Gerusalemme e la fine dello Stato ebraico, applicando un procedimento logico detto post hoc propter hoc. Allora il senso di queste parole non era quello di una maledizione futura, bensì del riconoscimento di una situazione di fatto e cioè di una sconfitta totale: non erano scritte per il futuro, ma con un occhio al passato. In seguito esse sono state usate strumentalmente per alimentare il pregiudizio antiebraico e sono diventate bagaglio ideologico subliminale di intere generazioni.

Luca non si distacca dal percorso già tracciato e fin qui messo in evidenza: Pilato finisce addirittura per riconoscere l’innocenza dell’imputato e si ha l’impressione che la colpa sia tutta da addebitare agli ebrei. Romani e cristiani, dalla stessa parte, devono difendersi dalla malvagità ebraica. Il Vangelo di Giovanni invece si propone, sia pur attraverso incertezze e ambiguità, di spiegare perché Gesù è morto a causa di un supplizio romano. Partendo dalla versione dei sinottici, l’evangelista va ancora più in là: Pilato è un’ombra senza consistenza mentre il popolo ebraico è il demonio, e la conclusione ovvia è che Gesù è morto crocifisso per colpa degli ebrei. I successivi lettori dei Vangeli estrapoleranno queste parole dal contesto, caricandole di un ben diverso e terribile significato.

La narrazione evangelica sente la necessità di arrivare a una forma di dissociazione completa: dalla responsabilità attribuita da Marco ai giudei si passa nel testo di Giovanni alla sensazione che il popolo ebraico, indicato nel suo complesso come l’agente del demonio, debba essere accusato dell’assassinio di Dio. Queste idee non impediranno allo stesso Giovanni di esclamare: «La salvezza viene dai giudei».

Questa radicalizzazione della polemica antigiudaica trova corrispondenza, e forse anche giustificazione, nell’aumento della repressione romana. Dopo la disfatta del 70, Roma aveva imposto il proprio controllo sulla Giudea cancellando l’autorità del sinedrio e dei sacerdoti. Successivamente Domiziano aveva stabilito che si controllasse, con l’intento di reprimere le evasioni al pagamento del tributo, la circoncisione dei sudditi e Adriano, dopo aver deciso la costruzione di un tempio a Giove nell’area del Tempio di Salomone, aveva vietato la circoncisione. A quel punto la rivolta contro i romani, capeggiata da un messia guerriero, Bar Kokbah, era esplosa con violenza negli anni dal 132 al 135. È comprensibile che i cristiani cercassero di non essere coinvolti in quegli avvenimenti che non li riguardavano direttamente. La polemica antiebraica di sapore teologico dunque si nutriva certamente di tensioni ideali, ma anche, nelle punte di maggiore asprezza, del desiderio di evitare un coinvolgimento. Occorre anche aggiungere che nonostante la violenza verbale degli apologeti, comunità ebraiche e cristiane vissero senza difficoltà gomito a gomito in numerose città dell’Impero per molti secoli. I primi testi cristiani dunque, se inseriti nell’ambiente storico in cui furono prodotti, non devono scandalizzare troppo. Scandalizza invece che ne sia stato fatto un utilizzo cieco e strumentale nei secoli successivi. Se tutti i cristiani si fossero lasciati trascinare da simili accuse, probabilmente le persecuzioni sarebbero state ben più gravi e sistematiche. Non c’è dubbio tuttavia che il terreno dell’intolleranza e dell’incomprensione venga lentamente preparato da simili sedimentazioni ideologiche.