Nessuno è immune dal pregiudizio perché il pregiudizio è una normale forma del pensiero di ogni uomo. Per questo la storia del pregiudizio è una parte non secondaria della storia dello spirito umano. Praejudicium è una parola latina che nel tempo ha subito una trasformazione del suo valore semantico aggiungendo al significato originale, cioè di un giudizio che precede l’esperienza, nuove valenze: quello oggi corrente è carico di emotività, vuole mettere in luce una immotivata disposizione d’animo, favorevole o ostile, verso qualcosa o qualcuno che non si conosce a sufficienza.
I giudizi umani si basano raramente su analisi ponderate e di assoluta certezza: se così non fosse, l’agire di ogni giorno sarebbe sottoposto a vincoli troppo forti e rischierebbe, anche in situazioni banali, di non raggiungere gli obiettivi desiderati. È necessario invece in nome di una economia del pensiero, fare delle scelte, prendere delle decisioni non sulla base di elementi certi, ma di una esperienza personale frutto di un compromesso tra le emozioni e la razionalità. E accade spesso che giudizi categorici e in apparenza inappellabili siano basati su idee approssimative, se non confuse, ispirate a criteri di probabilità più o meno elevata. Del resto, lo si può notare in numerose occasioni, la generalizzazione è una caratteristica non sempre negativa della mente umana, perché la vita di ogni individuo è breve, le conoscenze del mondo moderno sempre più complesse e specialistiche e le esigenze di ogni giorno tali da non permettere sempre di rivelare la propria ignoranza di fondo. Di fronte a tanti giudizi clamorosamente errati o manifestamente in malafede, il pregiudizio, con la carica di sicurezza che può offrire, non è, in molti casi, il maggiore dei mali.
Da questa necessità quotidiana trae origine, carica di elementi aggressivi e di proiezione verso l’altro, sia esso gruppo o individuo, anche quel particolare meccanismo ostile che è il pregiudizio contro l’altro, vuoi per motivi religiosi, vuoi per ragioni etniche o per altre ancora. In condizioni normali il pregiudizio non è particolarmente distruttivo, in condizioni critiche può rivelarsi la molla di sentimenti terribilmente perversi e portare a conseguenze nefaste.
La separatezza è una condizione naturale dei gruppi umani; per superarla occorre uno sforzo di comprensione accompagnato dalla volontà di abbattere le barriere, e non sempre tutto ciò può essere ottenuto. I rapporti interpersonali all’interno di un gruppo sono più facili e l’esperienza di molte grandi città, dove gruppi eterogenei convivono fianco a fianco senza conoscersi, indica che superare le barriere è spesso molto difficile.
Capita sovente che i pregiudizi, che sono diffusissimi, rimangano a uno stadio potenziale e inespresso, che non si concretizzino in azione. Oppure è possibile mettere in atto un pregiudizio negativo parlandone, diffamando l’oggetto del pregiudizio. Se poi il pregiudizio è forte, chi ne è portatore evita i contatti con il gruppo accusato oppure pratica misure discriminatorie cercando di escludere gli elementi che vengono considerati negativi o disprezzabili. La scala delle rappresaglie possibili verso un gruppo discriminato cresce via via e arriva allo stadio della violenza, applicata con il pogrom, che è uno scoppio improvviso di furia omicida, e con lo sterminio organizzato. Tutto questo crescere di violenza è possibile se la reiterata diffamazione acquista contorni più aspri con l’aggiunta di terribili invenzioni e accuse contro la parte avversa.
«In una comunità guatemalteca» racconta Allport in un libro sulla natura del pregiudizio «si nutre un forte odio verso gli ebrei, ma nessuno ne ha mai visto uno. Come ha potuto svilupparsi la necessità di odiare gli ebrei? In primo luogo la comunità è profondamente cattolica e i maestri insegnano che gli ebrei hanno ucciso Cristo. Inoltre nella cultura locale viene tramandato un mito secondo cui un diavolo uccise un Dio. Pertanto la convergenza di due pensieri di forte significato emotivo ha creato un pregiudizio di ostilità nei riguardi degli ebrei.»
Non c’è da stupirsi: le idee ricche di elementi mitologici hanno maggiori probabilità di essere accettate senza mediazioni perché sono legate all’emozione, riescono a penetrare con intensità perché fanno breccia in quella parte dell’uomo che è irrazionale, e non ha molta importanza che non reggano alla prova dei fatti. Ciò spiega perché il pregiudizio riesce sempre ad aggirare l’evidenza e perché, con l’aiuto di generalizzazioni ispirate a criteri di economia di pensiero, riesce a raggiungere una diffusione rilevante e inaspettata. Anche coloro che nutrono radicati pregiudizi contro gli ebrei non esiteranno a dire che conoscono ebrei che non hanno le caratteristiche negative di cui sono convinti e che molti ebrei sono tra i loro migliori amici, e nonostante questo…
Non c’è dubbio che l’apertura mentale, la disposizione benevolente verso il nuovo costino fatica, una fatica quotidiana, che non può essere sostenuta una volta per tutte. I valori precostituiti invece possono servire in qualsiasi momento come protezione psicologica e hanno il grande vantaggio di non mettere tutto e sempre in discussione. Poiché la realtà nasconde stimoli negativi e offre (basta uno sguardo ai giornali!) situazioni sgradevoli, non c’è dubbio che il rifugio nella certezza interiore sia una grande consolazione e perciò il pregiudizio svolge egregiamente il ruolo di difensore della tranquillità dell’anima. Se ci sentiamo in qualche modo minacciati, ci rinserriamo in un vicolo più stretto in cui equilibrio e discernimento diventano impossibili.
Baruch Spinoza ha intuito che l’intento di affermare la nostra visione della vita ci porta a dare al pregiudizio un valore assoluto. In particolare ha chiamato «pregiudizio d’amore» un atteggiamento interiore, nei riguardi di qualcuno che amiamo, più benevolo di quanto sia giusto e che ha esattamente il suo opposto nel «pregiudizio d’odio». In questo caso l’ostilità verso i gruppi esterni aumenta il senso di appartenenza e d’identità di chi si sente precario: l’odio è frutto di una intensa paura.
È possibile passare dal pregiudizio al genocidio? Questa ipotesi appare incredibile, eppure un’adeguata propaganda può renderla non solo verosimile, ma vera. Il primo momento è fatto di giudizi sommari e negativi, poi sospetto e biasimo diventano abitudini inveterate, fanno parte dei pensieri di ogni giorno. Finiscono così per affermarsi le leggi della discriminazione che non danno scandalo, rispondono anzi a esigenze comuni. Se la situazione sociale è tranquilla e non emergono tensioni, allora è possibile il dibattito, la reazione razionale; se si manifestano forti difficoltà economiche, allora gli egoismi prendono il sopravvento: la paura della disoccupazione e di privazioni alimentari viene strumentalizzata da chi cerca il capro espiatorio di tutti i mali. In situazioni di potenziale tensione, basta che ci sia un piccolo incidente per scatenare le molle represse e per permettere a pensieri reconditi di manifestarsi ed esplodere. L’incidente scatenante può anche essere del tutto inventato.
Un episodio accaduto nel maggio 1969 a Orléans, una cittadina francese a 110 chilometri da Parigi, può servire da esempio, da paradigma del pregiudizio. Nella cittadina, di circa novantamila abitanti, si diffuse la notizia che numerose donne erano sparite improvvisamente senza lasciare traccia, benché non fossero state presentate denunce e quindi ufficialmente non fosse successo nulla. In pochi giorni si diffuse la diceria insistente che un negozio, poi due e infine sei, stavano organizzando una vera e propria tratta delle bianche; negozi di biancheria femminile nei cui retrobottega numerose ragazze venivano drogate e poi fatte sparire per essere condotte in paesi esotici. I negozi erano proprietà di ebrei.
Un gruppo di ricercatori francesi guidati da Edgar Morin, a cui non parve vero di poter studiare dal vivo un caso così interessante, si recò nella cittadina e il risultato è stato un libro dal titolo La rumeur d’Orléans. Dapprima essi accertarono che non solo non vi era stata alcuna denuncia di sparizione, ma non si era nemmeno verificato un episodio che potesse in qualche modo essere collegato alla vox populi. La diceria veniva trasmessa di bocca in bocca senza l’innesco di un manifestino, di un articolo di giornale o di un servizio radiotelevisivo.
Essi scoprirono però qualcosa d’altro. Il tema della sala di prova dei vestiti come luogo di insidia poteva essere rintracciato in alcuni libri di volgare fiction e in alcuni articoli di giornale di qualche anno prima. Una rivista, «Noir et Blanc», nel numero di maggio aveva pubblicato un articolo dal titolo Le insidie dei trafficanti, illustrato da fotografie erotiche. Emerse inoltre che in altre città, ma senza lo stesso clamore, si erano propagate voci simili: a Tolosa, Tours, Limoges, Rouen, Le Mans, Lille e Valenciennes, nonché a Parigi. A Orléans forse aveva contribuito a far da catalizzatore l’apertura al centro della città di una grande boutique per adolescenti, Les Oubliettes (il francese oublier significa «dimenticare»), i cui camerini di prova erano stati ricavati in un sotterraneo reso più eccitante da arredi medievaleggianti.
Nella cittadina francese l’esplosione delle dicerie ebbe la durata di un mese. È probabile che l’incubazione abbia trovato terreno favorevole fra le adolescenti di alcuni collegi femminili religiosi, dove il mito avrebbe acquistato consistenza. Così il negozio di una coppia di ebrei venne additato come il centro di smistamento di ragazze verso luoghi lontani. La stampa taceva, i due commercianti restavano in libertà e il mito cominciò a gonfiarsi; secondo Morin furono sufficienti due settimane perché il contagio coinvolgesse la popolazione femminile adulta negli uffici e nei negozi. Ora il sospetto non raggiungeva solo il negozio dei due ebrei, ma diversi commercianti, tutti ebrei. Si sostenne addirittura che in un negozio di calzature la droga veniva iniettata nelle giovani donne attraverso le scarpe calzate per prova. Non tutti i commercianti ebrei furono colpiti dall’accusa: quelli che risiedevano in città da lungo tempo, ben conosciuti e familiari, non vennero coinvolti. Non furono invece risparmiati quelli che venivano da fuori, che non risiedevano da sempre a Orléans. Nel collegio Saint-Charles numerosi insegnanti, persino un’insegnante ebrea, raccomandarono alle ragazze una maggiore prudenza. Alcune madri imposero alle figlie di tenersi alla larga dalle boutique tranello. Certo la diceria ebbe anche oppositori, e tuttavia crebbero la diffusione e il consenso. In un primo momento sfuggì a tutti, anche agli scettici, il fatto che vi fossero compromessi degli ebrei. Alla fine di maggio, dal 29 al 31, accadde quello che i ricercatori di Parigi chiameranno la metastasi.
«Lo scandalo è sulla bocca di tutti» racconta Edgar Morin. «Si nutre di tutto e trasforma anche le battute dei più scettici in evidenza accusatrice. Si dice che le boutique, alcune delle quali distano molte centinaia di metri l’una dall’altra, siano collegate attraverso una rete di passaggi sotterranei che confluiscono in un grosso collettore sulla Loira, dove di notte, in un battello, o secondo alcuni in un sottomarino, viene effettuato il carico (Levy assicura di aver lanciato per scherzo l’idea del sottomarino un venerdì e di averla ritrovata il sabato, trasformata in verità certa).» Di fronte al montare dei sospetti tutti si domandavano come mai i trafficanti non venissero arrestati e i giornali non ne parlassero. Forse il prefetto e la stampa erano stati comperati dagli ebrei. Il 30 maggio i commercianti coinvolti cominciarono a sentire il peso di una minaccia concreta. Una commessa spagnola raccontò quanto stava accadendo al principale, membro della comunità, il quale contemporaneamente venne raggiunto da una voce anonima che gli chiedeva carne fresca e indirizzi di Tangeri.
L’indomani, sabato, la piazza del mercato è nell’occhio del ciclone. Una folla minacciosa staziona davanti ai negozi sospetti. Quel fine settimana si svolgono le elezioni presidenziali. È possibile che l’inquietudine politica abbia potuto influire?
I primi di giugno inizia la reazione liberatoria. Alcune ragazze ebree raccontano in un circolo ebraico la loro esperienza e vengono prese in giro, altri scrivono ai giornali. Si comincia a parlare di una campagna di pregiudizi e, in un crescendo, si susseguono le prese di posizione di protesta. Il vescovo di Orléans si associa chiedendo in un comunicato che «sia messo un freno all’odiosa congiura». Viene indetta un’assemblea pubblica e i giornali nazionali cominciano a occuparsi della questione. In pochi giorni arriva il momento della marcia indietro (meglio non parlare di questa storia) e dell’amnesia collettiva (non ci ho mai creduto). Lo scandalo viene ufficialmente chiuso alla metà di giugno. I ricercatori parigini si resero conto tuttavia che dalla sua decomposizione erano nate, forse inevitabilmente, molte altre voci sia pure meno penetranti. Era rimasta l’antica paura; i commercianti pubblicamente discolpati non erano riusciti a togliersi di dosso gli ultimi residui di sospetto. Il mito inoltre era rimasto soggiacente in quartieri periferici, si può dire non completamente bonificati. Lo scandalo si era contratto, ma alcune parole d’ordine erano rimaste terribilmente persistenti: «Ci nascondono qualcosa» e «Non c’è fumo senza arrosto». Qualcuno finì per accusare i commercianti ebrei di aver innescato l’incredibile storia e di aver fatto in modo che fosse creduta. Il gigantesco inganno doveva ben essere colpa di qualcuno e una donna ebbe a dire: «È necessario che i giornali vendano e che il commercio vada avanti, no?».
«Questo scandalo arcaico» ha notato Morin «accaduto nel mondo moderno ha riprodotto in un piccolo microcosmo e, nella sua forma più acuta, in uno spazio di quattro settimane, un modello della vicenda esistenziale ebraica in Europa nel corso degli ultimi venti secoli. Un gigantesco fantasma ricostruisce, a misura di Orléans, l’archetipo de I Protocolli dei Savi di Sion, cioè della potenza sotterranea occulta che divora il mondo e stabilisce il suo dominio attraverso la corruzione del denaro. E, come vi è un secolo per I Protocolli dei Savi di Sion, il compimento moderno del mito antisemita è nello stesso tempo il compimento del mito arcaico medievale che identifica in profondità la potenza sotterranea ebraica con la potenza infernale.»
Se il fantasma è stato sconfitto, il germe non è stato eliminato. Sarebbe troppo semplice classificare le vicende di Orléans solo in chiave di pregiudizio; in realtà si tratta di un fenomeno ben più complesso, da tenere sotto controllo, permanente in tutto il suo fascino di mito polimorfo.
In ogni caso in ordine di importanza gli anticorpi nella cittadina francese sono stati le vittime, la comunità ebraica, i militanti antirazzisti, le forze della sinistra e una parte degli intellettuali. Forse può essere interessante conoscere qualche particolare dello stress subito dagli involontari protagonisti ebrei. A Orléans c’erano prima della guerra trenta famiglie ebraiche, poi decimate dalla persecuzione nazista. Lo scandalo non ha colpito quelli che avevano sempre vissuto in città, ma quelli venuti da poco tempo da Parigi. Il successo negli affari aveva accresciuto verso di loro i motivi di diffidenza. Lo stress vissuto fu enorme: la paura breve, ma intensa. Una giovane studentessa, figlia di uno dei commercianti, si vide o si credette tradita da una sua amica: «Diceva delle cose alle mie spalle e da molto tempo… era antisemita». Due commercianti che avevano i negozi uno di fronte all’altro reagirono in modi diversi: uno si mise a strepitare, ricevette i giornalisti, combatté e rilasciò interviste, l’altro non disse nulla e si nascose nel paesaggio.
Ad Amiens l’anno dopo accadde un caso simile.