VII

Ebrei e cristiani
dalle Crociate all’Inquisizione

Alla fine del novembre 1095, al Concilio di Clermont-Ferrand, papa Urbano II sostenne con forza che era giunto il momento di riconquistare i Luoghi Santi e che si doveva quindi organizzare una Crociata. Il suo invito fu accolto con entusiasmo. In un primo momento il fervore religioso non parve colpire direttamente gli ebrei, ma poi a poco a poco nell’Occidente cristiano la lunga stagione delle Crociate finì per fomentare una campagna prima di denigrazione, in seguito di persecuzione violenta contro coloro che erano considerati da secoli i primi e più zelanti negatori della verità del Cristo. Nei secoli precedenti l’intolleranza, nonostante la parentesi visigota in Spagna e le leggi di discriminazione che di volta in volta venivano emanate, era stata episodica, oggetto di un’attività legislativa spesso disattesa. Ora, in un clima di fanatismo crescente, diventò sistematica ed endemica: i disordini, fomentati da predicatori zelanti, senza scrupoli e invisi alle stesse autorità ecclesiastiche, furono causati da bande di irregolari che colpivano in modo casuale, talvolta turbando la tranquillità e la sicurezza delle popolazioni cristiane. «Gli ebrei hanno ucciso Gesù Nostro Signore: che si convertano o muoiano!»: la parola d’ordine non era nuova, ma nuovo era il fenomeno di un antigiudaismo diffuso da uomini animati da uno zelo religioso al limite del fanatismo. Fu l’inizio di una persecuzione di massa, provocata spesso da una plebaglia incontrollabile.

I primi crociati che attraversarono la valle del Reno portarono morte e distruzione. Alberto di Aix, un cronista dell’epoca, ha scritto nella cronaca di quei tragici avvenimenti: «Emicho e tutti quelli della sua banda… forzate le serrature e sfondate le porte li raggiunsero e ne uccisero settecento che invano cercavano di difendersi contro forze troppo superiori. Anche le donne furono massacrate e anche i bambini senza distinzione di sesso furono passati a fil di spada… Solo un esiguo numero di ebrei sfuggì a quel crudele massacro, e alcuni ricevettero il battesimo molto più per paura della morte che per amore della fede cristiana». In numerose città vi furono episodi di suicidio di massa o conversioni coatte. Molti feudatari cercarono di proteggere le loro popolazioni, ma gli eserciti allo sbando e le bande irregolari travolsero ogni ostacolo.

Così scrisse Pietro Abelardo, riflettendo trent’anni dopo sugli esiti della prima Crociata: «Nessun altro popolo ha sopportato tanto per l’amore di Dio: dispersi tra gente straniera, senza re, senza principi, oppressi dalle tasse più grevi, come se ogni giorno dovessero acquistare il diritto di vivere. I maltrattamenti inflitti agli ebrei, si crede, sono graditi a Dio; giacché la condizione servile degli ebrei per i cristiani può solo essere il segno che questo popolo è odiato da Dio. La vita degli ebrei è nelle mani dei loro peggiori nemici. Se vogliono spostarsi devono pagare somme ingenti per assicurarsi la protezione dei principi cristiani, che in realtà li vogliono morti per mettere le mani sulle loro fortune. Non è consentito agli ebrei possedere campi o vigne, perché non hanno nessuno che garantisca loro il diritto di proprietà. Così l’unica strada ch’essi hanno aperta è il mestiere d’usurai, e ciò non fa che aumentare l’odio dei cristiani verso di loro».

Lo spargimento di sangue causato da quegli avvenimenti favorì un deterioramento generale della situazione e un aumento dell’ostilità verso gli ebrei. L’imperatore tedesco Enrico IV nel 1103 ordinò a principi e borghesi suoi sudditi di proteggere la popolazione ebraica, considerò illeciti i battesimi coatti e permise il ritorno all’ebraismo di coloro che erano stati convertiti a forza; la sua azione politica però finì per scontrarsi con le resistenze dell’antipapa Clemente III e di alcuni vescovi dei suoi territori. Le persecuzioni causate dal fanatismo religioso si estesero in numerose terre di Francia e di Germania e lasciarono segni profondi. Infatti la protezione imperiale dei feudatari, se permise la sopravvivenza nel breve periodo, finì per legare in modo troppo compromettente i destini degli ebrei a quelli dei loro protettori: il loro margine di autonomia si ridusse drasticamente ed essi diventarono proprietà dei vari signorotti. Lo studio del Talmùd si indebolì e si sviluppò invece uno spirito pietistico e misticheggiante di tipo irrazionale come difesa dalla durezza dei tempi.

La seconda Crociata del 1146, voluta da Eugenio III, non suscitò lo stesso entusiasmo della prima, ma i disordini contro gli ebrei si svilupparono un po’ dappertutto in Europa, anche se in Francia, sotto i regni di Luigi VI e Luigi VII, le popolazioni ebraiche godevano di uno statuto simile a quello delle corporazioni indipendenti, potevano scegliere un loro rappresentante, anche se la nomina doveva essere ratificata dal re, potevano possedere case e campi e avere servi cristiani.

Nelle piazze d’Europa intanto i predicatori infiammavano le folle e facevano propaganda a favore della partecipazione alle Crociate; spesso però, alla fine delle arringhe, invitavano la popolazione a regolare i conti con gli infedeli di casa prima di partire verso la Terrasanta. Pierre de Cluny esclamava in quegli anni nelle piazze: «Dio non vuole che siano sterminati, devono errare come Caino, carichi di onta e obbrobrio e avere una vita mille volte peggiore della morte». Le sue accuse di deicidio e di omicidio rituale finirono per preoccupare anche le autorità ecclesiastiche francesi e alcuni vescovi cercarono di fermare quegli eccessi. Il celebre rabbino Jacob Tam, per evitare che si creassero situazioni pericolose, ordinò agli ebrei di non comperare crocifissi o ornamenti cristiani, ma la sua prudenza non fu sufficiente: la sua comunità di Blois fu accusata di aver ucciso un bambino come omicidio rituale e trentaquattro uomini e diciassette donne finirono, innocenti, sul rogo.

La seconda Crociata fu meno dolorosa della prima per gli ebrei in Germania, ma la protezione dei feudatari costò loro cara: dopo quel periodo critico si ritrovarono tutti Kammerknechte, cioè servitori della camera imperiale, un nuovo titolo che prevedeva il pagamento di una tassa annua e che li rese ostaggi nelle mani del potere politico.

Negli anni cruciali tra il 1130 e il 1150 l’accusa di omicidio rituale si levò in luoghi diversi contro il gruppo ebraico. La Cronaca anglosassone racconta che intorno al 1140 fu scoperto in un bosco di Norwich il cadavere di un bambino. Il monaco Teobaldo di Cambridge, che pare fosse un ebreo battezzato, disse che gli ebrei usavano comunemente il sangue umano per impastare il pane azzimo pasquale. A furor di popolo gli ebrei del luogo furono incolpati dell’assassinio, le prove non emersero mai, ma il culto locale del piccolo martire diventò molto fiorente, la leggenda si diffuse e l’accusa di omicidio rituale divenne, sia pur con trasformazioni continue, un abituale marchio infamante.

Tre anni dopo a Würzburg fu visto un cadavere lungo la riva di un fiume e i fedeli si scatenarono contro la comunità locale. La terribile accusa emerse, per una coincidenza tutt’altro che casuale, proprio nel momento in cui gli ebrei avevano subito lutti e rovine a causa dei tumulti legati alle Crociate, e molti bambini erano stati feriti o uccisi in nome della fede. Analoghi episodi si verificarono poi a Colonia, a Bristol, a Gloucester, a Bruxelles, dove il delitto fu raffigurato nei vetri della cattedrale di Santa Gudula, e a Trento. Spesso questi episodi ispirarono degli Judenspiel che erano destinati a divertire il popolino alimentando fantasie e leggende. La Chiesa non prese mai sul serio quelle accuse terribili, ma la devozione popolare e la superstizione favorirono la diffusione ricorrente di miracoli, la nascita di culti locali e la costruzione di santuari.

Fenomeni di questo tipo si sono protratti per generazioni fino al XIX secolo, ed esistono testimonianze di episodi recenti che pure hanno perduto traccia della matrice originaria che li ha fatti nascere. Che questa accusa sia emersa nei tempi oscuri delle Crociate non è un caso, perché è proprio allora che nella mentalità europea prende forma una visione manichea (che va ben al di là della teologia) del rapporto tra ebrei e non ebrei, in cui l’ebreo odiato e temuto diventa la causa di ogni fatto funesto. È la natura della vittima che dà senso e giustifica la persecuzione e quindi i persecutori non hanno colpa perché attaccano le loro vittime solo per legittima difesa.

Il meccanismo della credibilità dell’omicidio rituale era particolarmente elaborato. Nessuno degli abitanti di una città credeva che gli ebrei del luogo potessero essersi macchiati di omicidio rituale, ma alcuni ritenevano possibile che ebrei di altri luoghi fossero capaci di simili nefandezze ed erano pronti a giurare che un simile episodio era certamente accaduto, anche se non sapevano dire quando.

Tra il 1100 e il 1200 si affermò all’interno del mondo cristiano la dottrina della transustanziazione, secondo la quale il sangue e la carne di Gesù Cristo erano presenti nell’ostia offerta ai fedeli e nel vino. Il fenomeno delle ostie sanguinanti diventò una caratteristica della devozione sacramentale medievale e venne legato alla festa del Corpus Domini, risultato di un insieme di antiche leggende ispirate ai racconti della crocifissione. In tutta Europa si diffuse allora la voce che gli ebrei profanavano le ostie e molti furono condannati a morire sul rogo. Ci volle poco per associare elementi diversi, quali l’ostia consacrata, il pane azzimo pasquale, il sangue di Cristo, l’agnello sacrificale e la necessità di un omicidio rituale periodico in occasione della Pasqua: un impasto di elementi demoniaci e magici che ha obnubilato spesso la capacità razionale di uomini in preda al terrore.

Il destino degli ebrei è stato sempre alle mercé dei potenti: Filippo Augusto, figlio di Luigi VII, nel 1180 cambiò improvvisamente politica: li fece arrestare tutti e liberare solo dopo il pagamento di un riscatto, poi decise di espellerli e confiscarne tutti i beni. Forse credeva di poter agire impunemente e non si aspettava la reazione di alcuni vescovi e di parte della nobiltà. Allora con grande rapidità cambiò strategia e decise di affidare al rogo chi avesse rifiutato il battesimo. Anche la protezione dei nobili non era del tutto disinteressata: gli ebrei venivano venduti insieme alle terre e potevano essere considerati un valore aggiunto, una ricchezza. La protezione era a doppio taglio.

Fu un papa, Alessandro III (1159-1181), a manifestare simpatia verso gli ebrei nel Concilio Lateranense del 1179: ribadì che i domestici cristiani dovevano astenersi dal frequentare case ebraiche, ma proibì il battesimo forzato, stabilì che gli ebrei non fossero molestati e che le loro feste religiose non fossero disturbate. Anche Riccardo Cuor di Leone, in Inghilterra, manifestò un atteggiamento benevolo e ordinò che i responsabili di alcuni disordini avvenuti a York e che avevano causato numerose vittime fossero portati davanti alla giustizia, ma Giovanni Senza Terra che lo sostituì quando questi partì per la Terrasanta non mantenne la parola data.

La conquista di Gerusalemme da parte del Saladino diffuse in Europa una forte emozione e un senso di frustrazione che non contribuì a rasserenare gli animi nei confronti degli infedeli, fossero essi ebrei o musulmani.

Filippo Augusto, è vero, forse per le proteste dei suoi sudditi, fece rientrare in Francia i fuggiaschi, ma provocò le ire di papa Innocenzo III (1198-1216) che gli inviò una lettera severa di biasimo per la sua mollezza. Questo papa, seguace di sant’Agostino e delle sue idee sul popolo testimone, riteneva che violenza e minacce non erano motivi sufficienti per invalidare un battesimo e che solo una protesta nel momento cruciale della cerimonia poteva essere considerata un motivo di annullamento. «Gli ebrei, contro i quali grida il sangue di Cristo» scriveva Innocenzo III «non devono essere uccisi affinché il popolo cristiano non dimentichi la Legge di Dio, ma devono restare erranti sulla terra fino a che il loro cuore non si riempia di vergogna ed essi non ricerchino il nome di Gesù Cristo Nostro Signore. È per questo che i bestemmiatori del nome cristiano non devono essere aiutati dai principi cristiani a opprimere i servi di Dio.»

Il Concilio Lateranense che si riunì a Roma nel 1215 fece un passo avanti. La gerarchia ecclesiastica ribadì antiche tesi, riaffermò la validità di restrizioni e interdizioni ormai consuete, ma soprattutto invitò con energia i principi a controllare i tassi di interesse dei prestiti, affinché gli ebrei non praticassero tassi troppo elevati: «Volendo impedire che in questa materia i cristiani siano trattati in modo disumano dagli ebrei, stabiliamo… che, se con un qualunque pretesto degli ebrei abbiano richiesto a cristiani interessi gravosi ed eccessivi, sia proibito ogni commercio con loro, finché non abbiano dato soddisfazione».

Non era la prima volta che la Chiesa si occupava del problema: l’usura dei laici era già stata condannata in un concilio a Reims (1049), e a Roma (1059 e 1139) era stata confermata e inserita con nuove regole nel Corpus Juris Canonici. Pian piano la Chiesa aveva finito per avocare alla propria autorità tutte le questioni relative all’usura e Alessandro III nel 1179 aveva negato agli usurai i sacramenti e la sepoltura. Le concezioni del mondo cristiano in materia di usura erano state influenzate dalla massima aristotelica: Pecunia pecuniam parere non potest e da una frase contenuta nel Vangelo di Luca: Mutuum date nihil inde sperantes. In sostanza il mondo cristiano era convinto che la moneta fosse sterile e perpetua e che queste due caratteristiche fossero incompatibili con il concetto di interesse, e faceva anche divieto che si disturbasse il debitore per far restituire quanto prestato.

Le Crociate avevano aperto nuove vie commerciali e l’economia di quel tempo aveva la necessità di nuove forme sia pure embrionali di prestito bancario. Gli ebrei vivevano una situazione difficile: non potevano accedere alle nuove associazioni di mestiere che a poco a poco si andavano formando e venivano spinti sempre più verso questa attività economica da una società cristiana che non poteva esercitarla senza incorrere nelle ire della Chiesa. Il dibattito all’interno dei due mondi fu ampio: non tutti i cristiani ritenevano che fosse lecito incaricare gli ebrei di un’attività ritenuta peccaminosa e proibita e molti ebrei del resto avevano messo in evidenza che una simile situazione avrebbe potuto renderli invisi al popolo e procurare loro nuovi pericoli. Alla fine tuttavia il meccanismo delle concessioni dei permessi di residenza, dati solo se il prestito fosse stato garantito, prevalse su chi aveva avuto in un campo e nell’altro qualche perplessità. E gli ebrei furono costretti per sopravvivere a svolgere una funzione economica già allora considerata importante, che fu chiamata usura e che oggi viene svolta senza scandalo dalle banche. Naturalmente nessun banco di pegni avrebbe mai potuto operare senza il consenso delle autorità politiche e religiose della città; se il meccanismo vedeva quindi tutti coinvolti, all’apparenza l’unico paravento sgradevole davanti alla povertà urbana furono gli ebrei.

Sono interessanti, a questo proposito, le opinioni di due esponenti di primo piano del mondo cristiano. Tommaso d’Aquino scrisse: «Le leggi umane rimettono certi peccati che restano impuniti a causa della imperfetta condizione degli uomini, che non potrebbero beneficiare di numerosi vantaggi se tutti i peccati fossero rigorosamente proibiti e puniti. Così la legge umana è indulgente nei confronti di alcune forme di usura non perché ritenga che siano secondo giustizia, ma per non pregiudicare i “vantaggi” di un gran numero di persone».

Tommaso di Chobhan, illustre teologo, scrisse: «È sorprendente che la Chiesa protegga i sovrani che fanno uso impunemente del denaro degli ebrei, poiché questi non hanno altri beni oltre quelli che ricavano dall’usura; così questi sovrani divengono complici delle pratiche usuraie e degli usurai stessi. Ma la Chiesa non li punisce a causa del loro potere, ciò che non costituisce una scusa al cospetto di Dio. È pur vero che i sovrani affermano che, dal momento che difendono i loro sudditi dagli ebrei e da altri che, se potessero, li caccerebbero dal loro paese, possono di conseguenza prendere lecitamente tutto il denaro ricavato dai loro beni».

Al di là delle giustificazioni e delle distinzioni, l’antagonismo medievale nei confronti degli ebrei, divenuti sinonimo di prestatori, fu enorme e l’ostilità si diffuse per la prima volta sia all’interno del mondo intellettuale cristiano che in quello popolare. «Giudaizzare» diventò una parola che non denotava solo un comportamento religioso, bensì aveva un preciso significato anche nella vita economica come sinonimo di «usurare», esercitare il prestito a interesse.

Il Concilio Lateranense del 1215 divenne però famoso non tanto perché si occupò di usura, ma perché stabilì che a partire dai dodici anni gli ebrei in tutti i paesi cristiani avrebbero dovuto portare sul vestito la rotella gialla come segno di distinzione dal resto della popolazione. La Chiesa cercò di giustificare il marchio dicendo che la Legge di Mosè lo prevedeva; in ogni caso solo la conversione, disse Innocenzo III, avrebbe potuto cancellarlo. Il segno distintivo non solo favorì irrisioni e molestie, ma ebbe anche un effetto psicologico su coloro che furono costretti a portarlo sugli abiti: ogni Stato, ogni città, ogni paese discusse a lungo sulla forma, sul colore e sulle caratteristiche di questo segno. Le resistenze degli ebrei furono sempre fortissime così come innumerevoli furono i tentativi di dissimularlo con vari trucchi; in viaggio ne venivano generalmente esentati per evitare il rischio di essere assaliti. Filippo il Bello li fece distribuire a pagamento mentre in Germania e in Austria prevalse per un certo periodo l’uso del cappello rosso. Da quel momento la caccia all’ebreo non fu più un fatto eccezionale, ma una consuetudine.

Intanto sull’onda di una propaganda capillare l’accusa che il sangue cristiano fosse indispensabile ai riti ebraici si diffuse sempre di più e l’imperatore Federico II di Germania decise di fare chiarezza sull’accusa di omicidio rituale con un metodo inconsueto: convocò a corte molti ebrei convertiti che, come ebbe a sottolineare, essendosi fatti cristiani erano nemici degli ebrei e non avrebbero mai dato una testimonianza favorevole. Li fece venire da ogni parte dell’Impero, e chiese a tutti i regnanti dell’Occidente di mandargliene alcuni perché era suo scopo indagare seriamente per scoprire la verità. L’insolita commissione di indagine ammise che gli ebrei non erano avidi di sangue umano e che anzi le loro leggi impedivano esplicitamente persino l’uso di quello animale.

Nel luglio 1236 l’imperatore assolse gli ebrei con la Bolla d’Oro Privilegium et Sententia in favorem Judaeorum, ma tutto il clamore che si era sviluppato intorno alla vicenda contribuì paradossalmente ad alimentare la diceria. Anche Innocenzo IV si sentì in dovere di intervenire per ribadire le note tesi in difesa degli ebrei, ma la calunnia fu più forte di ogni autorevole e reiterata smentita. Presunti martiri furono beatificati, magari qualche tempo dopo, e diventarono oggetto di culto popolare, anche se raramente la Chiesa ammise che erano vittime di ebrei.

Se in Germania la Bolla d’Oro di Federico fu per un certo tempo garanzia di stabilità, in Francia alla fine del XIII secolo vi furono espulsioni e riammissioni continue. Luigi IX, inflessibile contro gli eretici, si pronunciò con fermezza contro il prestito ebraico e, con il consenso di numerosi rabbini, sostenne che doveva essere proibito. Gregorio IX in una lettera dell’aprile 1233 fece conoscere ai suoi vescovi che era in disaccordo con il sovrano sulla questione del prestito e colse l’occasione per ribadire concetti di tolleranza nei confronti degli ebrei, che non dovevano essere oggetto di atti ostili: non si doveva desiderarne i beni e per questo perseguitarli, torturarli o gettarli in carcere; auspicò, inoltre, che fossero trattati con la stessa benignità chiesta dai cristiani nelle terre pagane. Il dibattito tra i due potenti di allora permette di cogliere alcune sottili ambiguità presenti all’interno della cristianità: il re mostra una certa rigidezza, ma se la sua posizione fosse stata sostenuta fino in fondo gli ebrei sarebbero stati liberati dalla necessità di occuparsi del prestito, causa di risentimenti e di odio crescente; il papa invece, in apparenza più tollerante, mette gli ebrei in una situazione senza via di uscita. Gregorio IX in quello stesso anno dette vita a uno strumento repressivo nuovo, il tribunale dell’Inquisizione affidato in un primo tempo ai domenicani.

Qualche anno dopo, nel 1247, in Provenza fu commesso un delitto che fu attribuito agli ebrei come omicidio rituale. Dopo torture indicibili, a eccezione di uno solo che seppe resistere, tutti gli accusati finirono per confessare colpe inesistenti e rivelarono che il dissanguamento dei cristiani era obbligatorio e colui che doveva essere assassinato e crocifisso, per irridere una ben più antica crocifissione, veniva scelto per sorteggio.

Innocenzo IV, di fronte a episodi così brutali, ritenne opportuno intervenire e in una lettera inviata congiuntamente agli archisinagoghi e ai vescovi tedeschi ribadì che si dovevano proteggere le vittime di accuse così ingiuste. «Sebbene le Sacre Scritture» è scritto nella sua bolla del 1247 «prescrivano di non uccidere e proibiscano nella ricorrenza di Pasqua di toccare qualunque corpo senza vita, gli ebrei sono falsamente accusati di cibarsi a Pasqua del cuore di bambini uccisi, con la scusa che tale pratica sarebbe prescritta nelle loro leggi. La verità è esattamente l’opposto. Dovunque si trovi un cadavere, l’omicidio viene imputato con malvagità agli ebrei. Vengono perseguitati con il pretesto di simili favole e di altre ancora. E, in contrasto con i privilegi accordati loro dalla Santa Sede Apostolica, è negato loro un regolare processo e giudizio. In spregio a tutte le norme di giustizia, gli ebrei vengono spogliati dei loro averi, affamati, imprigionati e torturati tanto che la loro sorte è forse peggiore di quella toccata ai loro padri in Egitto.»

Questa Bolla, che ricalca sia pure con qualche variante la Sicut Judaeis o Constitutio pro Judaeis emanata da Callisto II (1119-1124) e ribadita da numerosi pontefici successivi, riafferma il principio sancito da Gregorio Magno secondo cui nessun nuovo privilegio può essere accordato agli ebrei, mentre devono essere garantiti quelli tradizionali. Il comportamento del papa non fu tuttavia sempre coerente con le nobili parole della Bolla. La sua preoccupazione più grande in politica estera fu certamente quella di isolare Federico di Hohenstaufen, suo tradizionale avversario. L’imposizione della rotella gialla agli ebrei di Besançon (1245), l’approvazione dei roghi dei Talmudìm (1244), l’autorizzazione concessa all’arcivescovo di Vienna che intendeva procedere alla espulsione totale della comunità dal suo territorio nel 1253, fanno pensare che la questione ebraica fosse una variabile di tattica politica in uno scacchiere ben più complesso.

Il XIV secolo si aprì all’insegna della turbolenza, alimentata dalle frequenti carestie e pestilenze che favorirono il formarsi di movimenti irregolari, come i pastorelli, divenuti famosi per la lotta accanita contro eretici ed ebrei. La comparsa della terribile peste nera nel 1347 fece il resto: in tre anni morirono quarantadue milioni di persone; lutti e disperazioni furono il pane quotidiano e la necessità di un capro espiatorio diventò una esigenza straordinariamente impellente: colpevoli non potevano essere che i malvagi ebrei, del resto già accusati di riti satanici e di essere assassini di bambini. Motivi per cercare di vendicarsi ne avevano, visto che a loro volta avevano patito enormi sofferenze, e quindi erano loro gli avvelenatori dei pozzi.

Clemente VI cercò nel 1348 di calmare gli animi più accesi e, a proposito della peste, disse che si trattava di un flagello che colpiva tutti indistintamente, ebrei e non ebrei, e che il morbo si era diffuso anche in paesi non abitati da ebrei. Il panico e il pregiudizio alimentato da predicatori improvvisati e dai flagellanti, gruppi di estremisti che percorrevano le vie di ogni città, ebbero tuttavia la meglio. Questi ultimi, imbevuti di profezie apocalittiche e imbaldanziti dai successi, cercarono di ribellarsi anche all’autorità della Chiesa e furono sconfitti con grande difficoltà.

Ormai l’Europa era permeata dell’idea che combattere gli infedeli ed eliminare i negatori di Cristo era un atto di devozione. La peste fu il sigillo di quel travagliato periodo: le Crociate non portarono che sconfitte e frustrazioni in un mondo cristiano che, in seguito al forte inurbamento e ai drastici mutamenti sociali, era molto cambiato e mal sopportava le continue diatribe tra papi e principi.

Anche il mondo ebraico ebbe in quel periodo una radicale trasformazione, dopo aver subito per la prima volta in modo sistematico persecuzioni di massa. Vivere con il segno giallo cucito addosso, essere accusati di omicidio rituale, di avvelenare i pozzi e di ogni specie di satanismi, essere costretti a svolgere un’attività da tutti considerata peccaminosa, il prestito a interesse, sentirsi in un ambiente perennemente ostile non deve certo essere stato facile. Inoltre le continue espulsioni finirono per sradicare comunità antiche dai luoghi in cui vivevano ben integrate da secoli: dalla valle del Reno se ne andarono gruppi ebraici che erano vissuti in quei luoghi per cinque secoli. A queste emigrazioni se ne aggiunsero altre: molti fuggirono dalla Germania verso est, verso la Lituania, la Polonia e l’Ucraina, o verso sud, in Italia.

Le terribili prove lasciarono una traccia profonda negli ebrei: da allora molte preghiere recitate in occasione di giorni penitenziali contengono brani e testimonianze di quelle esperienze in selichòt e qinòt (canti di lamentazione sinagogale). Le cronache medievali confermano che persino il vocabolario ebraico subì dei cambiamenti: alcune parole furono sostituite da termini eufemistici, la Chiesa fu chiamata «casa d’impurità» o «casa dei servizi stranieri», i cristiani furono detti «impuri incirconcisi», il battesimo diventò «la macchia», la croce «il malvagio segno». Poiché le preghiere a Dio erano risultate vane, si fece strada l’idea, nata già dopo l’esilio del lontano 70 d.C., che i peccati del popolo eletto non fossero ancora stati espiati e che le persecuzioni altro non erano che il frutto delle colpe di Israele. Quei fatti drammatici, le umiliazioni continue, le persecuzioni sanguinose dovevano essere razionalizzati e venivano inseriti in un terribile disegno divino di punizione e di sofferenza. All’aggressività del mondo cristiano l’ebreo non poteva che rispondere, da un lato, elevando la persecuzione ad atto di Dio perché quelle sofferenze non fossero completamente vane e senza motivo, dall’altro, sul piano pratico, mostrando agli aggressori una tenace passività nei comportamenti di ogni giorno, nel tentativo di ridurre le aggressioni e in ogni caso di non offrire pretesti di nuove provocazioni.

Servi camerae nostrae, cioè appartenenti ai baroni, gli ebrei si trovarono in balia di una società e di una logica economica che finì, se non per travolgerli, per condizionarli pesantemente e in ogni caso per trasformare la loro vita quotidiana. Alcuni prestatori di denaro accumularono notevoli ricchezze, ma il disagio ebraico non scomparve mai del tutto, forse memore delle parole del più celebre talmudista ebreo Rashi: «Chi presta a interesse a un non ebreo, sarà distrutto».

Il XIV secolo fu un periodo funestato da eventi sinistri. Quando il massacro sistematico finì, si assistette a un curioso fenomeno: le vittime della violenza, più che uomini in carne e ossa, sembrarono essere piuttosto figure fantastiche, simbolo di ogni bassezza e malvagità, non dotate di connotati umani ma di sembianze diaboliche. Testimonianze di questa trasformazione è possibile ritrovarle nelle opere letterarie e nelle rappresentazioni pittoriche dove l’ebreo assume sembianze demoniache. Ebreo era diventato sinonimo di falso, di canaglia, di traditore, di simulatore.

Nel XIV secolo si comincia a parlare con insistenza delle streghe e dei loro poteri malefici: per almeno quattro secoli questa questione turberà i sonni di milioni di uomini. Ebrei e streghe sono visti come strumenti del diavolo, complici nello sforzo di distruggere con la magia il mondo cristiano e legati da un rapporto molto intimo: le riunioni delle streghe erano chiamate sinagoghe o shabbat in assonanza con il sabato ebraico, il caprone cavalcato dalle streghe era il simbolo degli ebrei e molte altre pratiche magiche venivano attribuite indistintamente a entrambi. Inoltre preti e monaci accusati di stregoneria portavano un contrassegno giallo molto simile a quello ebraico. I tempi nuovi irrompono sulla scena europea accompagnati da una incredibile paura del diavolo e dei suoi naturali alleati. «La strega» ha scritto Freddy Raphaël «diventa il capro espiatorio, caricato di tutti i peccati del mondo in pieno sconvolgimento. Mentre la paura della morte si esacerba, le credenze millenariste raddoppiano di intensità. I roghi sui quali hanno fatto perire ebrei e streghe costituiscono un rituale di esclusione tramite il quale la cristianità esorcizza il male che porta dentro di sé: la lubricità, la rapacità, la volontà di nuocere e l’angoscia quotidiana.» Il tentativo di scaricare i peccati della collettività su una persona accusata di stregoneria rivela che quella religiosità è inquieta, si fonda su un manicheismo (Dio e Satana) nutrito di una visione dogmatica.

L’idea della danza macabra sull’orlo del precipizio e su uno sfondo di morte nasce anch’essa a cavallo tra il XIV e il XV secolo. Non sono più i tempi in cui gli ebrei accettano di misurarsi in dispute pubbliche: nei dipinti di celebri artisti medievali sono raffigurati con un naso adunco e occhi di bragia, oppure simboleggiati da uno scorpione o accostati al principe delle tenebre, il diavolo; un’idea fissa che rimanda al terrore degli uomini, alla necessità psicologica di costruire un modello negativo dotato di straordinaria potenza, che finisce per dominare conscio e inconscio di un’epoca segnata dalla vicinanza con la morte della peste nera.

Gli ebrei, il diavolo e le streghe sono legati da affinità elettive: non solo la coda o il foetor judaicus, ma anche caratteristiche psicologiche perverse li accomunano, li rendono se non invulnerabili difficili da sconfiggere perché godono di potenze psichiche negative al limite della magia; processi e autodafé possono esorcizzare la paura solo temporaneamente, ma né la caccia all’ebreo né la caccia alle streghe riuscirà a sconfiggere una paura terribile che inevitabilmente si nutre dei suoi stessi terribili misfatti persecutori, che rendono l’aria mefitica anche in senso non metaforico perché i roghi distruggono gli uomini e le streghe, ma resta l’odore stagnante di carne bruciata.

Si christianum est odisse judaeos hic abunde omnes christiani sumus, se un buon cristiano deve odiare gli ebrei, allora siamo tutti buoni cristiani: attribuita a Erasmo, questa frase può essere considerata la parola d’ordine di quel tempo di paura. Contro la loro paura i pastorelli sterminarono ben centoquaranta comunità ebraiche prima di decidersi ad attaccare anche il clero, e allora non senza difficoltà, come racconta il cronista ebreo ibn Verga, Giovanni XXII li attaccò con il verbo della fede e Filippo V con le sue truppe.

La teoria della schiavitù, legata alla perdita del diritto di cittadinanza, si sviluppò intanto fino alle estreme conseguenze. Ogni principe poteva dichiarare: «Voi ci appartenete nella persona e nei beni e noi possiamo usarne e fare di voi quello che vogliamo a nostro piacimento». Di fatto dal 1343 era in vigore una tassa che prevedeva il pagamento di un fiorino in favore del tesoro della corona, a imitazione del fiscus judaicus di Vespasiano, a carico di ogni ebreo che avesse un’età superiore ai dodici anni; i servi della camera imperiale erano diventati merce di scambio e le espulsioni e riammissioni, talvolta frutto di banali pretesti, erano divenute così consuete che si diceva che gli ebrei erano eterni erranti nella valle del Reno come in Baviera, in Svevia come nel Nord Europa. Se in queste condizioni alcuni gruppi riuscirono a sopravvivere, ciò fu dovuto essenzialmente alla frammentazione dei poteri politici in Germania e quindi all’incapacità di chi legiferava di far rispettare le proprie deliberazioni: spesso un’espulsione si combinava con la volontà dei vicini di accettare gli ebrei a causa dei vantaggi economici che ne potevano derivare.

In Polonia la situazione era diversa: re Casimiro aveva confermato la sua benevolenza e gli antichi privilegi. In Spagna gli ebrei non furono mai considerati responsabili del flagello della peste e le loro disgrazie furono solo la conseguenza della loro grande influenza politica e della loro capacità di inserirsi nei conflitti di potere a corte. Alla fine del 1391, proprio a causa di lotte di vertice in cui molti esponenti ebrei di primo piano si ritrovarono coinvolti, si scatenò una violenta campagna di strumentalizzazione che coinvolse l’intero mondo ebraico spagnolo sconvolgendone la vita normale. Il clero e i predicatori aizzarono gli animi e tutta l’Andalusia, e soprattutto Toledo, fu percorsa da un fremito violento e prolungato. Saccheggi, vittime e conversioni coatte si moltiplicarono in pochi mesi di un anno cruciale per il segno indelebile che gli avvenimenti lasciarono nella società spagnola: le conversioni coatte furono numerosissime e per la prima volta si sviluppò in modo massiccio il fenomeno, non nuovo, dei conversos. Pochi in un primo momento, i conversos diventarono in breve periodo una moltitudine assai influente nella società spagnola. Alcuni si integrarono completamente, diventarono perfetti cristiani e, in qualche caso, furono i persecutori più zelanti dei loro vecchi correligionari, altri continuarono a giudaizzare segretamente. In entrambi i casi furono considerati traditori da coloro che erano rimasti ebrei. Neanche i cristiani di vecchia data amarono questi cristiani nuovi e li guardarono sempre con sospetto.

Dopo i tumulti, la tempesta si placò e il potere centrale riprese il controllo della situazione. Enrico II di Castiglia emanò nel 1392 alcuni provvedimenti per riportare l’ordine nel paese, esentò i superstiti dal pagare i tributi e obbligò la città di Toledo a ricostruire a sue spese quanto era stato distrutto nella juderia; in Aragona Giovanni I decise che occorreva rifondare le aljamas e incaricò il celebre intellettuale ebreo Hasdai Crescas di ristabilire le comunità. Ma la fiducia si era dissolta tra gli ebrei, che avevano visto nella subitanea esplosione di violenza un momento di espiazione per i loro peccati, e la vitalità di un tempo pareva scomparsa.

Gli anni 1412-1414 furono cruciali: Vincenzo Ferrer riuscì a far approvare lo Statuto di Valladolid che proibiva agli ebrei di coltivare i campi e di vendere i prodotti alimentari e imponeva che la rotella gialla fosse messa in bella mostra. Il problema parve risolto con la coercizione, ma la crescita dei conversos finiva per inserire nel cuore stesso del mondo cristiano spagnolo uomini sulla cui identità religiosa era possibile nutrire più di un dubbio e che in qualche caso finivano per causare scandali dirompenti.

Nel resto d’Europa, dopo le espulsioni di fine secolo dall’Inghilterra e dalla Francia, la situazione non poteva dirsi migliore. In Germania re Sigismondo, senza tener conto di una Bolla di protezione papale, fece sapere che questa volta gli antichi privilegi sarebbero stati rinnovati solo a prezzo di somme considerevoli. In Austria negli stessi anni rinnovate e diffuse accuse di omicidio rituale resero l’atmosfera gravida di incognite. Per l’arciduca Alberto il dilemma era chiaro: conversione o morte. La Bolla di Martino V che ricordava ai re cristiani d’Europa che il cristianesimo era figlio dell’ebraismo restò in gran parte inascoltata.

I conversos spagnoli diventarono nel frattempo una variabile impazzita in un continente in subbuglio: con il passare delle generazioni il problema si complicò ulteriormente perché l’acqua santa non era riuscita a convertire fino in fondo le anime e il criptogiudaismo suscitava inquietudini crescenti. Ben presto i conversos, detti anche «marrani», finirono per essere detestati da tutti. Eugenio IV, successore di Martino V, del quale per un certo periodo aveva seguito la linea, nel 1434 mutò avviso e chiese l’applicazione della Bolla di Benedetto XIII che pure era morto in odore di eresia: alle tradizionali misure di discriminazione (quartieri speciali, proibizione di rapporti tra ebrei e cristiani) il pontefice volle aggiungere la consuetudine di prediche coatte, il divieto del conseguimento di una laurea universitaria e il divieto di matrimonio tra conversos.

Per qualche tempo a giri di vite seguirono momenti di respiro. Alla metà del secolo tuttavia, dopo rinnovati disordini in cui furono coinvolti ebrei e conversos, trovò la prima applicazione la regola della limpieza de sangre e tutti coloro che venivano ritenuti di ascendenza ebraica furono epurati. Il papa intervenne con la Bolla Humani generis inimicus, biasimò la divisione dei cristiani, manifestò la sua solidarietà al re e sostenne che tormentando i nuovi cristiani non venivano favorite le possibili conversioni di altri ebrei. Di fronte a questa forma di razzismo embrionale il papa avvertì il pericolo di un modo d’essere profondamente anticristiano e scrisse: «È indegno di chiamarsi cristiano chi uccide e deruba gli ebrei perché anche Cristo, la Madonna e gli Apostoli erano tutti ebrei e tutta la religione cristiana si fonda su quella ebraica ed è contro il volere di Dio punire il padre per il figlio, il figlio per il padre, il marito per la moglie e dunque lo è ancor di più punire degli innocenti per il solo fatto che essi discendono da un certo popolo». Queste lungimiranti parole non servirono a disinnescare una miccia già accesa, perché i conversos erano diventati parte degli intrighi politici spagnoli e inoltre lo zelo religioso si stava diffondendo in tutta Europa. Unico spiraglio interpretato come un segno della Provvidenza fu la caduta del potere a Costantinopoli, fino ad allora ostile: molti ebrei cominciarono a dirigersi verso la Turchia, terra più aperta e ospitale.

L’unione di Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia fu accolta in un primo momento con favore soprattutto dalle minoranze, ma i fremiti che scuotevano il paese spinsero la nuova coppia regale ad abbracciare sempre di più una politica repressiva che forse parve loro la migliore garanzia di unità e coesione nazionale. Eretici e infedeli diventarono l’obiettivo di una campagna di purificazione che finì fatalmente per vedere protagonisti i conversos prima e gli ebrei subito dopo.

Fu un momento drammatico non solo in Spagna, ma anche in Italia. Bernardino da Feltre ebbe parole sinistre e profetiche nel 1475 a Trento, dove tenne una predicazione contro il prestito a interesse e poi predisse che prima che la Pasqua fosse passata gli abitanti avrebbero avuto la prova della bontà degli ebrei nei loro riguardi. E accadde che un bambino fosse trovato morto e gli ebrei di Trento furono accusati di omicidio rituale. Sisto IV, lo stesso papa che non aveva avuto dubbio nell’autorizzare la repressione in Spagna, considerò l’episodio come una montatura, ma né il clero né il popolo lo ascoltarono; si sviluppò così un culto locale e il piccolo Simone fu considerato un martire della fede. La Chiesa riuscì a fermare alcuni eccessi della predicazione di Bernardino e a Roma accolse numerosi conversos in fuga.

In Spagna i conversos erano diventati un vero problema nazionale e l’Inquisizione con la sua dura repressione contribuiva a enfatizzarne il significato. Nell’opera Fortilitium Fidei il francescano Alonso de Espina aveva chiaramente detto che esistevano due tipi di ebrei, judaei publici e judaei occulti. Entrambi erano la quintessenza della malvagità e cospiravano contro il buon cristiano. Anche per i conversos non esisteva quindi una via d’uscita, neanche con il battesimo e una vita religiosa cristiana.

Sisto IV nel 1478 concesse al re di Spagna di nominare alcuni ecclesiastici come inquisitori nei processi contro i marrani accusati di giudaizzare. Il tesoro reale avrebbe potuto impossessarsi dei beni dei condannati: questa ulteriore concessione sarebbe stata gravida di conseguenze. Il tribunale di Siviglia fece sapere che tutti i marrani giudaizzanti dovevano autodenunciarsi e che in cambio di una modesta espiazione sarebbero stati risparmiati. L’appello, formulato in termini moderati, spinse molti a svelare le proprie inclinazioni sia perché si sentivano al di sopra di ogni sospetto sia perché paurosi o animati da buoni sentimenti. Il terribile ingranaggio venne così messo in moto e sarebbe stato difficile arrestarlo perché fu subito evidente che si sarebbe ottenuto il perdono solo denunciando altri e offrendo alla macchina infernale il pretesto per nuove vendette. Le delazioni diventarono consuetudine anche all’interno delle famiglie e spesso i regolamenti di conti tra nemici diventarono oggetto di anonime denunce. Nel 1481 nelle piazze di Spagna cominciarono ad accendersi i fuochi delle esecuzioni e con questo barbaro sistema furono assassinate centinaia di persone ogni anno per molti decenni. Sisto IV cercò di fermare la strage, ma Ferdinando non si dette per vinto; Innocenzo VIII, succeduto a Sisto IV, non volle intervenire quando Torquemada, il primo inquisitore generale del re, dal 1483 cominciò a fare dell’Inquisizione uno strumento assoluto e spietato.

Anche la caccia alle streghe diventò frenetica: nel 1484 papa Innocenzo VIII, nella Bolla Summis desiderantes, constata che tutti i territori tedeschi sono pieni di inviati del diavolo. Gli inquisitori Sprenger e Institoris, autori del Malleus Maleficarum, un trattato che ebbe una triste fama, vanno di città in città a scovare gli agenti del demonio che si nascondono molto spesso sotto spoglie femminili.

In Spagna, frattanto, la conquista di Granada contro i mori rafforzò la monarchia e la spinse a decidere, nella primavera del 1492, di espellere dalla Spagna tutti gli ebrei. Nell’editto regale si ordinava «a tutti gli ebrei e le ebree di qualunque età che vivono e abitano e stanno nei nostri detti domini con i loro figli e figlie e servi e serve e familiari ebrei…» di abbandonare la Spagna. E proseguiva: «non osino tornare… [perché incorrerebbero] nella pena di morte e confisca di tutti i beni…». Il cappellano militare dell’Inquisizione generale Bernaldez scrisse: «In qualche mese gli ebrei vendettero tutto quello che poterono; davano una casa in cambio di un asino, una vigna in cambio di una pezza di tessuto o di tela. Prima di partire fecero sposare fra di loro tutti i figli maggiori di dodici anni affinché ogni ragazza avesse la compagnia di un marito, poi, affidandosi alle vane speranze della loro cecità, si misero in cammino lasciando la terra natia, grandi e piccoli, vecchi e giovani, a piedi o a cavallo, a dorso d’asino o in carretta. Un grande numero di disavventure li attendeva strada facendo, gli uni cadendo, gli altri rialzandosi, alcuni morendo, altri nascendo, altri ancora ammalandosi, e non ci fu cristiano che non li compatisse, e tutti li invitavano a farsi battezzare, e qualcuno lo fece, ma ben pochi ché i rabbini li incoraggiavano facendo cantare le ragazze e i giovani al suono dei tamburelli e dei flauti per incitare la gente. E così se ne andarono dalla Castiglia. Andarono in Africa, Turchia, Portogallo, in tutti i porti del Mediterraneo e verso il Nord Europa».

Il decreto di espulsione sarebbe rimasto in vigore formalmente fino al 1858, e l’Inquisizione continuò a seminare il terrore per tre secoli.