Il dibattito tra Chiesa e Sinagoga nel Medioevo mette a fuoco due posizioni religiose disomogenee, ma soprattutto due diverse mentalità. La Bibbia, considerata la fonte da cui abbeverarsi, resta il punto centrale del confronto e la sua autorevolezza non viene messa in discussione né dai vescovi né dai rabbini; li divide invece l’interpretazione del testo e non si tratta di questioni marginali. La Chiesa sviluppava la propria polemica da posizioni di forza senza correre alcun pericolo; il suo scopo non era tanto quello di rafforzare il proprio potere, quanto di riaffermare l’unità e la gerarchia in presenza di spinte disgregatrici ed eccentriche. La Sinagoga non era in grado di rifiutare questo confronto, che si svolgeva in condizioni sfavorevoli e l’avrebbe vista perdente. Le stesse caratteristiche fisiche delle chiese e delle sinagoghe danno testimonianza di quanto esso fosse impari.
Le chiese, le maestose cattedrali gotiche evocavano armonie solenni e suscitavano nei fedeli, col contributo di una liturgia ricca di simboli evocativi, intense emozioni religiose. Il senso estetico del sacro arrivava a livelli di sublime raffinatezza. Di fronte a rappresentazioni di simile forza, cui era connesso uno stretto controllo sociale e un potere politico assoluto, la sinagoga non offriva molte alternative. Gli ambienti erano piccoli e spesso, in osservanza alle leggi, non dovevano essere distinguibili all’esterno dalle altre case. All’interno, secondo le norme ebraiche che vietavano ogni rappresentazione di Dio, non vi erano né pitture né sculture. Inoltre la ritualità ebraica era severa ed essenziale, non concedeva molto agli effetti scenici e non era paragonabile alla grande forza simbolica della messa cristiana. La Chiesa, che aveva mutuato alcuni riti dal mondo ebraico, come il battesimo, aveva saputo semplificarli e renderli immensamente popolari, pur esaltandone il senso mistico intrinseco. Le cattedrali gotiche, mass media dell’epoca, rappresentavano, incisi e scolpiti nel marmo, pensieri e immagini o addirittura sintesi di intere opere teologiche di Isidoro di Siviglia o di sant’Agostino. In un periodo storico di prevalente analfabetismo, la cultura dell’immagine aveva una grande importanza di comunicazione e offriva veri e propri stimoli subliminali. In questa atmosfera maturarono le condizioni di due grandi controversie pubbliche.
A Parigi nel 1240 si incontrarono faccia a faccia un illustre talmudista e capo della comunità locale, rabbi Jehiel, e un predicatore di ardente fede cristiana, l’ebreo convertito Nicola Donin. All’origine della disputa era una lettera indirizzata da Gregorio IX al re di Francia Luigi IX, in cui venivano formulate roventi accuse nel confronti del Talmùd. «Essi mi dicono» scriveva il papa «che la legge è rimasta nelle loro menti perché data da Mosè oralmente e poi scritta nel Talmùd, che contiene cose incredibili che creano orrore e vergogna in quelli che ascoltano. Questo sembra essere il motivo più importante per cui gli ebrei restano ostinati nella loro perfidia.» Donin attaccò il Talmùd citando soprattutto alcuni passi che parlavano della morte di Gesù in modo oltraggioso. Jehiel, forse per limitare i danni, sostenne che quel nome era molto comune tra gli ebrei di quel tempo e del resto non tutti i Luigi erano re di Francia. Poteva assicurare che quel Gesù non era Gesù di Nazareth. In ogni caso le righe contestate nel Talmùd erano poche e non gli pareva giusto che fosse messa sotto accusa l’opera nella sua interezza. Per smussare le asprezze, rabbi Jehiel fece una netta distinzione tra idolatri e cristiani, sostenendo che le espressioni più dure erano dirette contro i primi. Il Talmùd non riportava solo prescrizioni religiose, ma anche opinioni di rabbini sostenute magari in momenti particolari, per esempio di persecuzione, quando gli animi erano più accesi; qualche rabbino poteva aver esagerato e usato espressioni troppo crude. Non potevano esserci bestemmie contro Dio, anche perché di Dio ebrei e cristiani avevano opinioni diverse.
Donin, nel tentativo di confermare le accuse, raccontò una storia contenuta nel Talmùd. Rabbi Eliazar e rabbi Joshua dibattevano alcuni passi della Bibbia; il primo, per dimostrare che la ragione era dalla sua parte, provocò dei miracoli, ma gli altri rabbini gli fecero notare che i miracoli sono miracoli e non argomenti. Rabbi Eliazar non si arrese e chiamò in aiuto una voce dal cielo, ma i rabbini protestarono ancora: anche la voce dal cielo non aveva alcuna pertinenza in una semplice discussione umana e la Toràh aveva dato facoltà ai rabbini di decidere a maggioranza. Più tardi rabbi Nathan incontrò il profeta Elia e in confidenza gli domandò l’opinione di Dio su questa vicenda. Dio ha sorriso, rispose il profeta, e ha detto: «I miei figli mi hanno sconfitto». Questa storiella indignava profondamente Donin, come indice di un comportamento blasfemo nei confronti della divinità. Jehiel invece la considerava solo un esempio che metteva bene in luce la natura del rapporto confidenziale degli ebrei con Dio, che non aveva voluto togliere loro la libertà che aveva concesso e anzi era contento quando ne veniva fatto buon uso. Jehiel cercò di spiegare la differenza tra Halakhàh (le prescrizioni da seguire) e Haggadàh (storie cui si può credere o non credere), ma non riuscì a convincere gli interlocutori che restarono diffidenti.
Donin formulò i capi d’accusa in trentacinque punti che riassumevano le questioni più controverse. Alcune domande erano molto provocatorie. Era vero che nel I secolo dopo la presa di Gerusalemme il rabbino Simeon bar Yochai aveva proclamato: «Uccidete il migliore dei goyìm»? Era vero che Gesù veniva definito un figlio illegittimo e che all’inferno sarebbe stato condannato al supplizio? Jehiel cercò di difendersi spiegando che nella Haggadàh si potevano trovare massime tra loro opposte e che l’ebraismo non poteva essere messo sotto accusa a causa di poche intemperanze verbali.
Tutta la comunità, conscia del pericolo incombente, pregava. Per due giorni Jehiel respinse le roventi accuse che venivano rivolte al Talmùd e in generale alla moralità degli ebrei, poi il terzo giorno venne convocato Juda di Mellun, anch’egli dotto talmudista. Fino a quel momento era stato tenuto in isolamento per evitare che potesse concordare con rabbi Jehiel la linea di difesa.
Il folto pubblico che assisteva alla disputa rimase colpito dal fatto che i due ebrei erano in perfetto accordo, ma che non vi fossero contraddizioni evidenti servì a poco, non evitò una conclusione ormai annunciata: nel giugno 1242 furono bruciate a Parigi ventiquattro carrette cariche di Talmudìm sequestrati in quei giorni. Accadrà altre volte: roghi di libri bruceranno in molte piazze d’Europa e in particolare, nel XVI secolo, in piazza San Marco a Venezia e a Campo de’ Fiori a Roma.
A Barcellona, nel 1263, ebbe luogo la seconda grande disputa di cui è rimasta ampia testimonianza. Lo scontro teologico dissimulava in realtà un altro scontro, quello politico che in quel momento in Spagna era particolarmente duro. Il re Giacomo I, che aveva organizzato il confronto pubblico, decise che sarebbe stato libero e garantito.
Protagonisti furono rabbi Moses ben Nahman detto Nahmanide, punta di diamante della intellettualità ebraica spagnola, e Paolo Christiani, di origine provenzale, grande conoscitore del Talmùd e dei riti ebraici, che aveva praticato con devozione prima di abbandonare l’ebraismo e diventare discepolo di Raimondo di Peñaforte. Rispetto alla disputa parigina le differenze erano evidenti: il Christiani e il Peñaforte non avevano intenzione di mettere sotto accusa il Talmùd, non lo consideravano un’aggiunta indebita all’Antico Testamento, bensì elemento integrante del patrimonio ebraico, non privo d’importanza anche per i cristiani. Sotto accusa restavano tuttavia alcuni passi ritenuti blasfemi contro Gesù e contro Maria. I due polemisti cristiani ritenevano che il Talmùd fosse stato composto in tempi diversi, e lo strato più antico poteva essere considerato giusto e vero, mentre quello più recente era pieno di falsità e iniquità.
Momento focale del dibattito fu soprattutto la questione messianica, analizzata in tutti i suoi risvolti: il messia era già venuto, come sostenevano i cristiani, o doveva ancora venire, come volevano gli ebrei? era una divinità o un uomo nato da un uomo e una donna? Infine: gli ebrei consideravano la Toràh come unica Legge, oppure essa era stata completata dal cristianesimo?
Paolo Christiani aprì il dibattito citando alcuni passi della Haggadàh e sulla loro base spiegò che il messia era nato il giorno in cui il Tempio era stato distrutto. Moses ben Nahman replicò che Gesù non era nato quando era caduto il Tempio e non si doveva confondere la nascita con l’avvento. Non era corretto in ogni caso citare un passo haggadico per confermare una tesi, poiché se ne poteva certamente trovare un altro che dicesse tutto l’opposto. Il Nahmanide sostenne poi, fra lo sconcerto dei presenti, che il messia non era così importante per gli ebrei come per i cristiani: per i primi era un elemento di riflessione, il premio di una lotta per la salvezza e per la liberazione; per i secondi era colui che era venuto a salvare gli uomini e l’elemento fondante del loro credo. Se il cristianesimo si basava su Cristo e non poteva prescindervi, per l’ebraismo era diverso, il messia era una tensione spirituale che si manifestava in modi diversi. «Noi» concluse il Nahmanide «abbiamo creduto spesso ai falsi messia e quando sono stati smascherati siamo stati delusi, ma abbiamo pensato a un errore, non a un’eresia.» Inoltre il messia ebraico non nutriva una speranza individuale, ma collettiva. Infine, in una platea abituata a osservare un rigido principio di autorità, rabbi Moses ben Nahman fece notare che anche sul messia gli ebrei non la pensavano tutti allo stesso modo e spesso i rabbini avevano opinioni contrastanti; poi concluse che forse un’umanità nel peccato poteva aver bisogno di un messia divino, ma lui non credeva di aver ereditato da Abramo né peccato né colpe e considerava il peccato come una questione privata.
A Paolo Christiani, che per creargli imbarazzo gli parlò dei contatti intimi tra il serpente ed Eva, il rabbi rispose che l’idea di un peccato originale poteva essere effettivamente di un rabbino, ma non patrimonio di tutti i rabbini o addirittura dell’ebraismo. Ancora una volta si trattava di una questione di Haggadàh e non di Halakhàh. Poi il Nahmanide aggiunse: «Meglio il re cristiano che ho davanti a me che il messia». Naturalmente gli fu chiesto di spiegarsi meglio e allora sottolineò che per gli ebrei vi erano più meriti nell’osservanza della religione nell’esilio sotto un principe cristiano, tra persecuzioni e umiliazioni, che non nel regno messianico dove gli uomini sarebbero stati liberi. Del resto, aggiunse: «Come è possibile che il messia sia già arrivato se le guerre ci sono ancora? Se i miglioramenti promessi non si sono realizzati? Se i principi continuano a combattersi?». E rivolgendosi al re: «Mi sembra che ora dovresti sottometterti alle aspettative messianiche e rinunciare alla guerra».
La controversia non ebbe né vincitori né vinti e in un primo momento il risultato sembrò ritorcersi contro i domenicani. La partita però non era conclusa: quando il Nahmanide pubblicò il suo resoconto, si tentò di lanciargli nuove accuse. Il vecchio ebreo, che in cuor suo si aspettava un simile attacco, fece sapere di aver chiesto al vescovo di Barcellona l’autorizzazione preventiva alla stampa. Raimondo di Peñaforte e Paolo Christiani si rivolsero al re che non poté non tener conto delle istanze dei frati, ma ordinò che non fosse il loro tribunale, bensì una commissione speciale di nomina regia, a giudicare il caso e comunicò anzi che avrebbe assistito al dibattimento personalmente. Fu facile a Moses ben Nahman dimostrare di aver scritto solo le cose già dette durante la controversia in presenza sia del re che della corte. Giacomo I resistette alle fortissime pressioni dei domenicani, che decisero allora di ricorrere a Clemente IV. Il Nahmanide a quel punto capì che la situazione era compromessa e per non creare problemi e imbarazzi ad amici e parenti, a settant’anni, lasciò il paese per la Terra Promessa.
In realtà le controversie pubbliche non erano un regolare confronto, ma un incontro insidioso e pieno di trappole. Si discuteva della natura del messia, ma la vera posta in gioco era un’altra: da un lato la società cristiana voleva rafforzare le basi ideologiche della propria sovranità, dall’altro gli ebrei con testardaggine si sforzavano di dimostrare che il loro esilio era solo una condizione provvisoria in attesa di luminosi eventi. I domenicani non potevano accettare compromessi: la verità della religione e il mantenimento del potere non potevano essere oggetto di discussione. All’audace Nahmanide, che si illudeva di un incontro alla pari, occorreva mostrare chi comandava veramente.
Raimondo di Peñaforte trasse alcuni insegnamenti da questo scontro perdente. Capì che occorreva affinare gli strumenti culturali per portare con maggiore efficacia gli ebrei sulla strada della conversione e fondò una vera e propria scuola di studi ebraici e aramaici. Peñaforte fu maestro del dotto polemista Ramón Marti (Raymondus Martinus) che nel 1278 redasse l’opera Pugio Fidei e il famoso Adversus Mauros et Judaeos, primo esempio di polemica antiebraica documentata e condotta con grande perizia, con un’analisi dei testi ebraici studiati direttamente. Marti infatti conosceva gli scritti di Maimonide, di Rashi, di ibn Ezra, e sapeva cogliere in contraddizione gli avversari rabbini portando la polemica all’interno della loro cultura e tradizione.
La serie delle grandi dispute medievali si concluse con quella di Tortosa nel 1413-1414. Rispetto alle precedenti le differenze furono rilevanti: a Parigi era prevalso l’interrogatorio, e il Talmùd, dopo essere stato messo sotto accusa, era stato bruciato nelle piazze; a Barcellona il dibattito si era svolto nella più completa libertà, anche se poi i domenicani avevano cercato di raggiungere il loro scopo con ogni mezzo e il protagonista ebreo era stato costretto all’esilio. A Tortosa, sotto l’egida severa di Benedetto XIII, il confronto fu arduo e durò ben ventuno mesi, con sessantanove sessioni che riempirono protocolli di centinaia di pagine. Grazie agli ebrei convertiti la Chiesa scatenò un attacco ideologico totale: non si voleva più convincere, ma sradicare.
I polemisti cristiani annunciarono solennemente che a Tortosa sarebbero state date le prove indiscutibili della verità della fede cristiana nel messia. I rabbini mobilitati furono più di quattordici e molti di loro si fecero notare per i loro interventi coraggiosi e misurati: Zaccaria di Saragozza, Vidal de la Cavalleria, Joseph Albo, che raccontò alcuni momenti della sua esperienza nell’opera Il Libro dei principi. Il trattamento che veniva loro riservato negli intervalli delle sessioni non era dei migliori: erano tenuti in isolamento, non ricevevano notizie dei loro cari e il cibo era scarso. Frate Geronimo di Santa Fé, che inaugurò il confronto, diceva che in questo modo la loro concentrazione sulle questioni spirituali non veniva meno. Negli stessi giorni bande di uomini armati compivano saccheggi nelle città da cui venivano i rabbini e la pressione psicologica crebbe a tal punto che alcuni di loro cominciarono a dar segni di cedimento e poi finirono per convertirsi.
La disputa procedeva in modo lento, troppo per i desideri di propaganda del papa che di tanto in tanto mandava messaggi in cui auspicava uno sforzo più deciso per chiudere l’intera questione. E visto che negli ambienti cristiani si insisteva sul fatto che alcuni rabbini si erano già convertiti, parve evidente che la disputa avrebbe potuto chiudersi con la conversione di tutti coloro che erano intervenuti. Alcuni rabbini tuttavia resistettero a tal punto che venne diffusa ad arte la voce che la massa di credenti ebrei, vittima di quei capi irresponsabili, intendeva ribellarsi e abbracciare la vera fede.
Il lungo braccio di ferro infine si concluse e gli ultimi superstiti, che avevano capito che il dibattito era una messa in scena utile per costruire capi d’accusa contro gli ebrei, dichiararono che forse la loro difesa dell’ebraismo non era stata delle migliori a causa della loro incapacità e cercarono di esprimersi con cautela per non irritare troppo Geronimo di Santa Fé, che evidentemente aveva puntato su una loro resa senza condizioni. Il frate infatti li accusò di pervicacia e invitò il papa a trattarli come eretici incalliti. Nella primavera del 1414 la conferenza terminò con l’annuncio trionfale che la fede aveva toccato numerosi e celebri rabbini. Le pressioni antiebraiche crebbero e acquistarono una sistematicità mai conosciuta prima e crebbero di conseguenza anche le defezioni; molti, per scampare alle pressioni brutali, si trasformarono in ambigui conversos. Più di un illustre rabbino credette che fosse veramente finita, ma sorprendentemente – scriveva un cronista dell’epoca – la resistenza ebraica non terminava mai.
Nel XVI e nel XVII secolo, profughi dalla penisola iberica, questi uomini dall’identità sfuggente e cangiante avrebbero raggiunto ogni porto del Mediterraneo e a nord si sarebbero spinti fin verso l’Olanda. Il loro figlio più celebre fu Baruch Spinoza.