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Gli ebrei in Russia
nel Settecento e nell’Ottocento

Le idee degli ebrei suscitarono tanta diffidenza nei cristiani ortodossi che abitavano le immense lande della Russia, che essi fecero di tutto per impedirne la diffusione e proibirono per secoli agli ebrei di soggiornare nei loro territori.

«Gli ebrei» dichiarava Dimitrij Gerasimov nel 1526 «ci ripugnano più di tutti, e la sola menzione del loro nome ci riempie di orrore; non lasciamoli entrare nelle nostre case perché è gente vile e malefica; non hanno insegnato di recente ai turchi a fondere i cannoni di bronzo?» Anche Ivan il Terribile e i suoi successori mantennero scrupolosamente un atteggiamento di totale chiusura verso questi individui che suscitavano grande paura e apprensione. Quando conquistò Polock nel 1563, Ivan ordinò che tutti gli ebrei della città che avessero rifiutato di convertirsi fossero annegati nel fiume Dvina. In una sua lettera indirizzata al re di Polonia si può leggere: «A proposito di quanto tu ci scrivi affinché noi consentiamo ai tuoi ebrei di entrare nelle nostre terre, ti abbiamo già scritto in più occasioni parlandoti dei misfatti degli ebrei, che allontanavano i nostri popoli da Cristo, introducevano nel nostro Stato droghe velenose ed erano causa di grandi mali per le nostre genti. Dovresti provare vergogna, fratello, a scriverci a questo proposito, pur conoscendo i loro misfatti. Anche negli altri Stati hanno fatto del male, e per questo sono stati espulsi o mandati a morte. Non possiamo permettere agli ebrei di entrare nel nostro Stato perché non vogliamo che il male vi si diffonda: vogliamo che Dio permetta al nostro popolo di vivere nella pace, senza fastidi. E tu, fratello, non dovresti più, in futuro, scriverci a proposito degli ebrei».

Caterina II la Grande, che pure non nutriva sentimenti ostili nei confronti degli ebrei, per motivi di equilibrio politico mantenne in vigore le tradizionali discriminazioni e, due anni dopo la morte del marito, emanò un editto che non ammetteva discussioni: «Gli ebrei di sesso maschile e femminile che si trovano in Ucraina e in altre città russe devono essere tutti immediatamente espulsi dai confini della Russia. D’ora in poi non saranno ammessi in Russia con nessun pretesto, e tutte le località saranno severamente sorvegliate». L’espulsione non fu né facile né immediata: corruzione e sotterfugi si rivelarono ostacoli talvolta insormontabili. «L’ingresso degli ebrei in Russia» scrisse l’imperatrice a Diderot «potrebbe causare grosse perdite ai nostri piccoli commercianti, perché quella gente attrae tutto a sé; può darsi che il loro ritorno produca più recriminazioni che vantaggi.»

Tenuti ai margini della periferia dell’impero zarista, negli anni fra il 1789 e il 1796 gli ebrei cominciarono a popolare terre che sarebbero diventate, a poco a poco, una «zona di residenza» coatta destinata a crescere – ogni volta che la Russia s’impossessava di nuovi territori, con la seconda e la terza spartizione della Polonia – e a durare fino alla Rivoluzione del 1917.

La prima spartizione della Polonia nel 1772 aveva già fatto crollare quella diga contro i nemici di Cristo fino ad allora cara a Caterina II: i 200.000 ebrei (fra cui colonie di caraiti che abitavano nella Russia Bianca) cominciarono a creare, con la loro sola presenza, difficoltà al governo russo, che manifestava nei loro confronti una doppiezza incerta, un misto di concessioni liberali e oppressione tirannica. Quando, verso la fine del secolo, con le annessioni della Podolia e della Volinia, la popolazione ebraica arrivò a 750.000 unità, la questione assunse dimensioni rilevanti, anche perché il governo aveva stabilito di cacciarli dalle campagne e di concentrarli nelle città.

Restrizioni e concessioni, alla fine degli anni Ottanta, non solo causarono profondi cambiamenti nella vita sociale degli ebrei, spingendoli verso una miseria diffusa in un’atmosfera di paralizzante rassegnazione, ma consolidarono quell’enorme ghetto a cielo aperto che divenne la zona di residenza. La legislazione speciale e restrittiva cui era sottoposta, a dire il vero, non fu voluta principalmente dal potere centrale, ma piuttosto sollecitata dai mercanti russi che, nel 1790, chiesero di essere protetti da qualsiasi forma di concorrenza. Nel corso del secolo, e più precisamente nel 1772, nel 1793 e nel 1795, la Russia si era impadronita di ampie zone di territori polacchi, e la percentuale di ebrei fra le popolazioni inglobate era molto elevata. Alla fine del secolo lo Stato europeo maggiormente restio ad accogliere gli ebrei si ritrovò a ospitare all’interno dei suoi nuovi confini circa metà della popolazione ebraica mondiale… I gruppi che vivevano nei territori polacchi ora diventati russi erano i più ortodossi e conservatori, sia che fossero talmudisti oppure hassidim; parlavano l’yiddish, una lingua sconosciuta sia ai polacchi sia ai russi.

L’assassinio dello zar Paolo I, nel 1801, non fermò il cammino delle riforme: pochi anni dopo il suo successore Alessandro I ridusse drasticamente l’autonomia delle comunità Kahals (Kehalim), rese obbligatorio l’insegnamento delle lingue europee nelle scuole ebraiche, favorì l’accesso degli studenti ebrei ai licei e alle università e tentò di ridurre il peso demografico degli ebrei presenti nella tradizionale zona di residenza, sia stabilendo con un decreto che, in quei territori, dovevano abitare nelle città e non in campagna, sia favorendone l’emigrazione nella Nuova Russia, come auspicato da Deržavin nel suo rapporto.

All’inizio del XIX secolo lo zar Alessandro I, pur essendo un esponente di primo piano della reazione e della Santa Alleanza, si pose il problema di una possibile forma di emancipazione ebraica, anche perché, dopo la spartizione della Polonia, oltre la metà dell’intera popolazione ebraica mondiale viveva dentro i confini dell’Impero, in una zona a ovest che andava dall’Ucraina alla Lituania e comprendeva vaste terre della Russia Bianca.

Il massiccio sradicamento di circa un terzo degli ebrei sarebbe dovuto avvenire tra il 1807 e il 1808, ma la morte di Paolo I, nel marzo 1801, rallentò l’applicazione delle misure previste. Sorprendentemente, aderirono alle lusinghe del potere zarista gli ambienti ebraici più tradizionalisti, fossero essi hassidim, talmudisti o cabalisti, che fino a poco prima erano stati nel mirino delle minacciate riforme decise dallo zar e che interpretarono gli avvenimenti in corso secondo un’ottica apocalittica, come se si fosse trattato ancora una volta dello scontro biblico «fra Gog e Magog».

Il duro provvedimento prevedeva che un terzo della popolazione ebraica potesse essere coinvolto in espulsioni forzate e doveva essere applicato nel biennio 1807-1808, ma non entrò mai in vigore, sia per lo scoppio della guerra con la Francia, sia perché svanirono i timori che i francesi avrebbero potuto fomentare disordini. Nelle zone di sradicamento furono inviati emissari dello zar per fare propaganda contro Napoleone e le sue idee, invise peraltro a molti rabbini. «Se la vittoria tocca a Bonaparte,» diceva Schneer-Salman, un autorevole e ascoltato esponente del mondo ebraico «la ricchezza degli ebrei aumenterà e migliorerà la loro situazione, ma, di contro, il loro cuore si allontanerà dal Padre Celeste; se vince il nostro zar Alessandro, il cuore degli ebrei si avvicinerà al Padre Celeste, ma di contro la povertà d’Israele di aggraverà, e si accentuerà la sua decadenza quaggiù.» La posizione dello zar suscitò qualche reazione: nel 1807 il Sacro Sinodo fece leggere un proclama nelle chiese russe: «Per avvilire del tutto la Chiesa [Napoleone] ha convocato in Francia le sinagoghe ebraiche, ha reso ai rabbini la loro dignità e ha fondato un nuovo Gran Sinedrio ebraico, quello stesso infame tribunale che osò condannare alla croce nostro Signore Gesù Cristo. E ora osa riunire tutti gli ebrei che la collera di Dio aveva disperso sulla faccia della terra per spingerli a distruggere la Chiesa di Cristo, affinché – audacia indicibile che supera qualsiasi misfatto – proclamino il messia nella persona di Napoleone».

Solo una minoranza di ebrei rivoluzionari finì per simpatizzare per Napoleone; la grande maggioranza scelse di difendere il suolo russo e il suo zar. «L’attitudine della società ebraica» ha scritto Simon Dubnov, autore di una Storia del popolo ebraico, «nei confronti delle truppe combattenti era piuttosto complessa.» Gli ebrei ortodossi temevano che l’arrivo di Napoleone potesse scompaginare gli equilibri esistenti all’interno del loro mondo tradizionalista, e le masse di hassidim erano molto riconoscenti ad Alessandro I che negli ultimi tempi aveva fatto concessioni significative in materia di religione. Inoltre, le truppe napoleoniche erano state ricevute a Varsavia con grande calore, mentre i rapporti tra polacchi ed ebrei erano assai difficili.

Lo zar seppe approfittare delle contraddizioni e dei paradossi presenti nel mondo ebraico e alla fine, dopo gli scontri con le truppe napoleoniche culminati nel 1812, mostrò una buona disposizione d’animo nei confronti degli ebrei che gli erano stati inaspettatamente leali. Pur reazionario, era posseduto, secondo De Maistre, dalla «chimera del cristianesimo universale» e dall’indifferenza verso le comunità cristiane, considerate tutte «ugualmente buone». Per questo motivo, oltre a manifestare apertamente una buona dose di tolleranza vero gli ebrei, aveva favorito in ogni modo la diffusione della Bibbia. Il clero ortodosso era spaventato dalla pretesa che il testo sacro potesse essere letto in modo letterale e non allegorico, e temeva che Alessandro volesse cancellare qualsiasi differenza religiosa tra le diverse congregazioni cristiane per proporsi come unico pastore di un solo gregge, sovvertendo ogni tipo di organizzazione gerarchica ecclesiastica e ponendosi a capo di una nuova Chiesa.

Dopo il Congresso di Vienna le frontiere russe si erano molto ampliate: l’Impero aveva inglobato quasi tutto il vecchio territorio del Ducato di Varsavia e, insieme, un’enorme massa di ebrei, quasi due milioni, con usi, costumi, mestieri, religione, lingua e tradizioni storico-culturali differenti dalla stragrande maggioranza della popolazione dello Stato. Fu in quel periodo che gli ambienti liberali e i rivoluzionari decabristi cominciarono a prendere coscienza del problema ebraico, anche se il rigore patriarcale della famiglia e dei rabbini, l’estasi degli zadikim e delle masse hassidiche rendevano terribilmente inquieti molti osservatori. Prevaleva l’opinione che il problema ebraico fosse insolubile, che il potere dei rabbini fosse assoluto e la loro attesa del messia e del Regno incomprensibile. Si pensava che si considerassero ospiti di passaggio e che, in fondo, l’idea migliore era quella di espellerli in maniera onorevole, favorendo il loro insediamento in uno Stato ebraico posto in una regione qualsiasi dell’Asia Minore. Per contro, c’era chi riteneva che sarebbe stato sufficiente concedere loro tutti i diritti politici, ma nei limiti della famosa «zona di residenza».

Dopo un sistema misto voluto da Alessandro I, che alle concessioni e alla benevolenza iniziali aveva fatto seguire, negli ultimi anni del suo regno, una serie di provvedimenti restrittivi, il suo successore Nicola I, che regnò dal 1825 al 1855, cambiò rotta e diede un ulteriore giro di vite che inasprì le restrizioni contro gli ebrei. Facendo leva sul servizio militare come mezzo di educazione ferrea nelle caserme, tentò di procedere a un’assimilazione religiosa forzata e alla cancellazione della loro particolarità etnica; durante il suo regno furono emanati circa seicento decreti che riguardavano gli ebrei. Quanto all’accusa di omicidio rituale, lo zar si esprimeva così: «Pur non pensando che si tratti di un’usanza comune a tutti gli ebrei, non potrei respingere l’idea che fra loro si trovino dei fanatici tanto raccapriccianti quanto quelli che si trovano fra noialtri cristiani». Nel 1840 il clamore suscitato dal celebre caso di Damasco aveva eccitato gli animi e spinto lo zar a incaricare Vladimir Dan, noto studioso di usi e costumi, di redigere un rapporto su questa grave accusa. Egli, dopo un’accurata indagine, aveva escluso che gli ebrei praticassero in modo sistematico omicidi a scopo rituale, ma aveva ricordato l’esistenza di una setta particolarmente fanatica, detta degli hassidim, che era accusata dagli stessi ebrei di altri ambienti di «orribili usanze segrete».

Nicola I era convinto, in ogni caso, che gli ebrei fossero sanguisughe capaci di bere il sangue del popolo russo e manifestò il proprio stupore per il fatto che, nel 1812, fossero stati leali con il potere degli zar e avessero offerto tutto il loro aiuto con una lealtà sorprendente. In definitiva però li riteneva nocivi per uno Stato russo ortodosso e pensava che non potessero essere tollerati nel suo seno: occorreva renderli inoffensivi. Nelle zone di residenza, gli ebrei colpiti dal semplice sospetto di essere spie o contrabbandieri furono mandati in località ad almeno cinquanta chilometri dalle frontiere. Nel 1844 i Kahals furono sciolti d’autorità e venne introdotta una censura speciale sui libri ebraici; i fedeli furono costretti a seguire le cerimonie religiose celebrate in yiddish all’interno di chiese ortodosse. La misura più odiosa fu però l’introduzione, nel 1827, del reclutamento obbligatorio dei ragazzi ebrei dall’età di sette anni fino ai venticinque: un periodo talmente lungo – ben diciannove anni di servizio attivo – da creare le condizioni di un completo sradicamento. Ai dirigenti delle comunità veniva imposto di scegliere, magari con l’aiuto di khappers o rapitori, chi doveva essere arruolato nell’esercito dello zar: naturalmente, questo ingrato compito si prestava ad abusi, corruzione e creava dissidi profondissimi all’interno dei gruppi, poiché le irregolarità, favorite da una legislazione tanto arbitraria quanto impietosa, erano all’ordine del giorno. Scrisse nelle sue memorie Aleksandr Herzen: «I bambini vennero condotti sul piazzale destinato alle esercitazioni e dovettero disporsi in riga per quattro: era lo spettacolo più straziante che avessi visto. Poveri, poveri bimbi, i ragazzi di dodici o tredici anni si reggevano bene sulle gambe, ma i piccoli di otto o dieci… lo spettacolo era indescrivibile. Pallidi allo stremo delle forze, infagottati nei ruvidi cappotti militari, lanciavano occhiate spaurite ai brutali soldati che dirigevano le manovre. Le labbra sbiancate e gli occhi cerchiati testimoniavano la fatica e la febbre. Quei bambini malati, privi di cure e di carezze, esposti al vento glaciale del Grande Nord, si avviavano verso la tomba…».

Secondo alcune fonti, furono arruolati in questo modo oltre sessantamila adolescenti. Il reclutamento obbligatorio divenne quindi occasione di un’interminabile caccia all’uomo, e spesso i giovani ebrei, per evitare di essere arruolati, si rifugiavano in altri villaggi o mettevano in atto stratagemmi di ogni tipo. Negli anni 1834-1835 vennero addirittura organizzati matrimoni molto precoci, poiché si era diffusa la notizia che solo chi si fosse sposato entro una certa data avrebbe potuto godere dell’esenzione dalla coscrizione obbligatoria. Questa febbre matrimoniale, chiamata beholah, si acquietò nell’aprile 1835, quando fu interdetto agli uomini di sposarsi prima dei diciotto anni; ai giovani già sposati prima di quella data venne però accordata una esenzione.

Furono soprattutto gli ebrei più poveri a essere vessati da questo tipo di servizio militare obbligatorio; chi era in buoni rapporti con i membri del Kahal, incaricati del triste e sporco lavoro d’individuare i giovani di leva, riusciva a cavarsela più facilmente. Anche nel resto d’Europa gli ebrei erano stati avviati alle armi, ma contemporaneamente avevano ottenuto rilevanti concessioni nel campo dei diritti civili; in Russia, invece, la legislazione repressiva continuò a colpire anche sul piano dei diritti più elementari, a tal punto che nelle comunità più forti cominciarono a svilupparsi apertamente movimenti di opposizione alle direttive zariste. Si contestava soprattutto il Regolamento che, nel 1835, finì per sanzionare una serie di provvedimenti destinati a ridurre vaste masse di popolazione ebraica a una condizione di servitù, e a dividere ancora di più gli ebrei dai russi. Il tentativo che veniva messo in atto, infatti, mirava a spingere gli ebrei in una condizione di avvilimento tale da convincerli che sarebbe stato meglio convertirsi. In quello stesso anno la zona di residenza coatta (un milione di chilometri quadrati sul confine occidentale, dal Mar Baltico al Mar Nero) fu ulteriormente ridotta, e lungo la frontiera occidentale venne creata una fascia di zona interdetta. Il controllo centrale, pur prevedendo diverse deroghe, era rigidamente regolamentato. E nel 1846, per favorire la conversione degli ebrei, fece la sua comparsa un’inedita forma di censura nei confronti dei loro libri, volta a cancellare ogni possibile forma di sovversione nel campo delle idee.

Nel 1840 giunsero al potere centrale numerosi rapporti da parte degli amministratori delle lontane province dell’Impero che davano testimonianza del fallimento del famoso Regolamento del 1835: il fanatismo e il particolarismo religioso erano riusciti a prevalere ed era impossibile combattere contro i vizi delle masse ebraiche. Allora lo zar Nicola I, negli ultimi anni del suo potere, forse a causa dei risultati deludenti della repressione, volendo trasformare radicalmente le caratteristiche di questo popolo dalla dura cervice, puntò soprattutto sulla creazione di scuole ufficiali di Stato, per rompere il monopolio ebraico delle yeshivoth e degli heders (istituti scolastici), cambiando gli insegnanti e proibendo l’uso dei costumi tradizionali; inoltre decise di limitare l’autonomia dei Kahals e di reprimere duramente ogni dissenso.

Occorre aggiungere che alle condizioni di estrema povertà e di diffusa disoccupazione si sommavano altre condizioni eccezionali, come le odiose accuse di omicidio rituale e le persecuzioni di massa.

Regnante Alessandro I, si era avuta già nel 1816 qualche accusa di omicidio rituale a Grodno, ma gli strascichi erano stati limitati, poi nel 1823 il famoso caso di Velige ebbe esiti ben più dirompenti. Alcune donne e uomini ebrei furono arrestati ingiustamente e torturati per indurli a confessare. La vicenda suscitò un grande allarme che durò anni, e nel 1826 lo zar Nicola I ebbe a dichiarare in merito che gli ebrei avevano abusato della tolleranza loro accordata; perciò, a titolo di sanzione e di avvertimento per tutti gli altri, le sinagoghe di Velige furono chiuse e interdette al culto. La convinzione dello zar che l’accusa di omicidio rituale fosse vera ebbe conseguenze nefaste per tutta la popolazione ebraica russa, che si ritrovò a vivere in un’atmosfera di cupo sospetto. Solo nel 1830 la verità cominciò timidamente a venire a galla, e nel 1834 il presidente del dipartimento degli Affari ecclesiastici e civili, N.S. Mordinov, riuscì a demolire il ridicolo castello di accuse che aveva resistito ben undici anni. L’anno successivo lo stesso zar si arrese all’evidenza dei fatti, ma non fino in fondo, e proprio nel momento in cui accettava le conclusioni dell’inchiesta arrivò a dichiarare ufficialmente che l’innocenza degli ebrei, a suo avviso, non era stata dimostrata in maniera sufficiente, e che forse esisteva davvero una minoranza di ebrei scismatici che usava il sangue dei cristiani nei riti tradizionali. In fondo, il Consiglio dell’Impero aveva dimostrato l’assenza di prove, ma non l’innocenza degli imputati, e non si poteva certo escludere che vi fossero tra gli ebrei individui abietti, come del resto ce n’erano tra i cristiani. A Velige non ritornarono tutti gli accusati: alcuni erano morti in carcere.

In quegli anni in Russia, accanto ai processi basati su assurde imputazioni di omicidio rituale, accadevano fatti solo in apparenza meno traumatici. Semplici episodi di criminalità in cui erano coinvolti degli ebrei si trasformavano in occasioni di colpevolezza collettiva verso tutta la popolazione ebraica. Negli stessi Kahals cresceva il malessere a causa dell’attività dei mossers, una categoria di delatori professionali che si preoccupavano di trovare a ogni costo i coscritti da avviare all’arruolamento. A volte questi spioni finirono i loro giorni tragicamente assassinati in qualche imboscata, come accadde per esempio in Podolia nel 1838, e allora le autorità non esitarono a coinvolgere nelle accuse intere comunità di piccoli villaggi, portando davanti ai giudici decine di persone.

Nel 1844 una vicenda analoga ebbe luogo a Mistislavl, dove si scatenò un vero e proprio tumulto popolare contro alcuni soldati, con morti e feriti da entrambe le parti. Nello stesso anno lo zar, informato che altri incidenti si erano verificati a San Pietroburgo, intervenne con durezza ordinando di assicurare rapidamente alla giustizia i colpevoli, secondo il motto: punire subito e giudicare dopo. Nella regione si diffuse il terrore. Non si trattava ancora di una repressione selvaggia simile a quella dei pogrom, che sarebbero arrivati qualche tempo dopo, ma non vi è dubbio che «tutto fu fatto sistematicamente per tentare di distruggere le tradizioni ebraiche», come ebbe a scrivere Dubnov nella sua Storia del popolo ebraico.

A questo dispotismo esteriore voluto dallo zar, finì, forse fatalmente, per contrapporsi un dispotismo interiore che irrigidì le comunità, poiché solo facendo appello a tutta la propria forza, a tutto il proprio rigore, le popolazioni ebraiche sarebbero riuscite a resistere alle pressioni sempre più forti del mondo circostante. Il Kahal era diventato uno strumento di polizia in mano ai nemici d’Israele, ma i rabbini e gli zaddikim finirono per ergersi a barriera di protezione e offrirono a molti ebrei il conforto di cui avevano bisogno. Il talmudismo più spinto e l’hassidismo più esasperato alla fine presero il sopravvento sulle posizioni più moderate e intellettualmente più aperte, che aspiravano a coltivare rapporti con il mondo esterno. Ben presto nella zona di residenza fiorirono dinastie di rabbini i cui poteri venivano sopravvalutati e mitizzati, e il cui carisma avrebbe dovuto cancellare il diffuso senso di malessere che si era impadronito degli ebrei russi.

Questa cristallizzazione delle posizioni religiose finì per bloccare qualsiasi velleità, se non di riforma, almeno di evoluzione, e alimentò dispute e rivalità che scoppiarono con un’intensità senza pari. Quando l’Haskalàh, l’Illuminismo ebraico, s’insinuò in quei territori, lo sconvolgimento nelle tradizionali comunità fu profondo, in quanto distruggeva un ambiente ben sedimentato, e l’hassidismo, nelle sue varie espressioni, aveva acquisito una forza e una diffusione enormi. I nuovi illuministi ebrei sostenevano che bisognava studiare la Bibbia, ma con l’aiuto della grammatica, e che le interpretazioni dovevano seguire a una buona comprensione del senso; inoltre, sottolineavano che la legge ebraica non impediva affatto l’apprendimento di altre lingue straniere e, naturalmente, bisognava conoscere bene quella del paese di residenza. Quanto alle scienze profane, lo stesso Maimonide aveva chiaramente sostenuto la tesi secondo cui non costituivano un pericolo per l’ebraismo. Tutte queste idee potevano essere sintetizzate in una premessa di base che per molti suonava inaccettabile: l’ebraismo non si opponeva affatto alla filosofia e alla scienza mondana. In Volinia, dove gli zaddikim dominavano, i sostenitori di queste concezioni erano guardati con sospetto, se non addirittura come veri nemici. Solo alle estremità nord e sud della zona di residenza, in centri come Vilna, dove i maskilim ebbero successo, e Odessa, città aperta alle influenze straniere, l’Haskalàh riuscì a farsi strada.

Gli anni fra il 1848 e il 1855 furono cruciali in tutta Europa, ma mentre in quasi tutti i paesi i fermenti rivoluzionari e riformisti portarono una ventata di libertà, in Russia quei sette anni coincisero con il periodo finale del regno di Nicola I: la repressione aumentò, e se l’intera popolazione russa pagò un alto prezzo, per gli ebrei la situazione fu ancora peggiore. Lo Stato di polizia creato dal regime divenne ancora più ferreo nel tentativo di cancellare sul nascere qualsiasi velleità liberale. Gli ebrei, in particolare, furono vessati da una forma di coscrizione obbligatoria sempre più inumana, e così molti scappavano all’estero o si automutilavano per essere scartati, altri si rifugiavano nelle foreste, e non di rado si organizzavano vere e proprie cacce all’uomo per catturarli. Nel 1850 lo zar, sempre più irritato a causa delle forme di resistenza messe in atto, ordinò di prendere tre ebrei se ne fosse mancato uno all’appello, e in seguito stabilì misure contro le comunità inadempienti e i parenti dei disertori. Non era raro che fossero dichiarati coscritti bimbi di otto anni, invece dei dodici cosiddetti regolamentari. Nel 1853 fu decretato che nessuno potesse allontanarsi dal villaggio di pertinenza se non munito di passaporto, e a poco a poco finì per insinuarsi nelle comunità una forma di violenza dapprima sottile, poi sempre più esplicita, che trasformò ogni ebreo in un lupo per il suo prossimo: alcuni gruppi organizzati collaborarono con le truppe dello zar, mostrando zelo ed efferata crudeltà, per individuare quanti cercavano di evitare il servizio militare.

Con lo scopo dichiarato di minare le loro capacità di resistenza, inoltre, gli ebrei furono divisi in classi. Nel 1851 lo zar emanò un Regolamento provvisorio relativo alla loro classificazione: mercanti, agricoltori, artigiani, piccoli borghesi. Gli appartenenti alle prime tre categorie erano iscritti alle corporazioni di riferimento, quelli della quarta possedevano beni immobili, mentre quelli della quinta erano cittadini proletari disprezzati, privi di diritti e alla mercé di ogni sopruso.

La guerra di Crimea fece dimenticare al governo il limite improrogabile dell’1 aprile 1852 perché il Regolamento diventasse operativo, ma la legge continuò a incombere sulla popolazione ebraica come un’oscura minaccia. Il governo, del resto, non era rimasto completamente inattivo e, puntando a un’assimilazione almeno esteriore, aveva tentato di cancellare i segni caratteristici della tradizione storica: solo ai vecchi che avessero pagato una tassa speciale sarebbe stato concesso di continuare a portare i lunghi vestiti neri e i riccioli sulle tempie; alle donne era proibito di tagliarsi a zero i capelli nel giorno delle nozze e di portare parrucche. Apparentemente futili, queste prescrizioni suscitarono invece reazioni furibonde fra gli hassidim, soprattutto quelli che abitavano nelle terre di confine appartenute alla Polonia, e molti, pur di non rinunciare ai costumi tradizionali, pensarono a un eventuale martirio. Strano a dirsi, grazie una tenace resistenza passiva finì per vincere la popolazione ebraica, e gli ukase dello zar non ebbero esito, anche se questo fatto esacerbò gli animi e la conseguente repressione.

L’idea del martirio non doveva essere vista come un’esagerazione: soprattutto nel biennio 1852-1853, infatti, l’atmosfera si fece particolarmente pesante, anche in seguito a un altro processo per omicidio rituale verificatosi a Saratov, al di fuori della zona di residenza. Fu Adolphe Crémieux a ottenere la liberazione dei superstiti fra gli imputati di questo ingiusto processo. Questo obiettivo non sarebbe stato raggiunto se la Russia non si fosse messa, sia pur lentamente, sulla strada delle riforme politiche dopo trent’anni di oscurantismo sotto il dominio di Nicola I.

Negli anni Sessanta dell’Ottocento gli ebrei in Russia erano valutati in due milioni e mezzo, in gran parte poverissimi e concentrati nelle città. All’inizio i cambiamenti politici, pur ben lontani da forme costituzionali e di effettiva libertà, diedero un po’ di respiro alla popolazione rurale e ad altri gruppi sociali tradizionalmente oppressi e marginali, ma gli ebrei suscitavano diffidenze speciali. Un primo grande passo fu quello suggerito dal Comitato degli affari ebraici ad Alessandro II circa la coscrizione obbligatoria. Nel manifesto pubblicato il 26 agosto 1856, in occasione dell’incoronazione dello zar, si poteva leggere: «Desiderando facilitare agli ebrei il compimento dei loro doveri militari, noi ordiniamo: 1. che i soldati ebrei siano reclutati di preferenza, come quelli delle altre classi della società, tra coloro che non hanno domicilio stabile né una professione produttiva; 2. le qualità richieste alle reclute ebree e l’età saranno le stesse di tutte le altre reclute; ne segue che l’arruolamento di giovani ragazzi è interdetto; le sanzioni da applicare nel caso di reclute mancanti all’appello saranno conformi alla legislazione generale esistente, e le comunità non potranno più essere colpite da ammenda per i contingenti deficitari».

Veniva inoltre abrogato il Regolamento temporaneo emanato nel 1853, «a titolo di esperienza», in virtù del quale ciascun ebreo poteva evitare la coscrizione militare per se stesso o per un famigliare denunciando alle autorità uno o più correligionari privi di passaporto. Queste norme, che non esprimevano certo una concezione democratica, avevano tuttavia il pregio di equiparare gli ebrei alle altre classi proletarie dell’Impero, garantendo non tanto una pienezza dei diritti, impossibile in un regime autoritario, quanto piuttosto un trattamento alla stessa stregua degli altri sudditi.

La rimozione dell’idea d’isolamento aveva lo scopo di favorire la fine del particolarismo ebraico e, conseguentemente, la fusione con il popolo russo. Poiché la separatezza veniva collegata alla scarsa moralità degli individui che la praticavano, era opinione comune che si sarebbe potuto concedere qualche privilegio a quegli ebrei che avessero dato prova di elevata moralità (il denaro e l’istruzione erano visti come parametri importanti) e manifestato concretamente il desiderio di assimilarsi al popolo russo. Ammantata di nuova tolleranza, rispuntava fuori la vecchia idea di una società divisa in classi, adattata ai tempi moderni, conforme al sistema russo e desiderosa di rendere più profonde le divisioni all’interno del mondo ebraico, in quello che una volta era stato un fronte unito e che ora si andava sfaldando progressivamente.

L’aspirazione ad abbandonare la zona di residenza come primo passo verso una più completa integrazione era, del resto, irresistibile. Uomini potenti come Josel Ginzburg non vedevano l’ora di essere accolti a Mosca. In una petizione inviata anche a nome di altri ebrei economicamente influenti, chiese che «i migliori di noi possano uscire dalla zona di residenza». Non osava mettere sul piatto l’assimilazione completa in cambio dell’emancipazione, ma sollecitava privilegi in favore dei «migliori», accettando l’esistenza di due categorie di ebrei: quelli che erano mercanti e avevano soldi e diplomi sarebbero potuti uscire dal grande ghetto a cielo aperto.

La classe politica russa era titubante: si intravedevano vantaggi economici capaci di rivitalizzare l’economia del paese, ma si temeva che al seguito delle mosche cocchiere sarebbero arrivate in massa le tribù ebraiche. «Qui non si tratta» scriveva l’ideologo slavofilo Ivan Aksakov «di emancipare gli ebrei, ma di emancipare la popolazione russa dagli ebrei, di liberare dal giogo ebraico i russi del Sudovest.»

Il dibattito sulla condizione degli ebrei in Russia fu molto influenzato dai testi di questi scrittori, e le esitazioni sulla via di una completa emancipazione crebbero: per questo il potere zarista, preso in mezzo a opposte esigenze politiche, decise di riesumare il Comitato per l’organizzazione degli ebrei, che avrebbe dovuto offrire allo zar una via d’uscita. Questo organismo, dopo attento esame e rinnovati dibattiti, suggerì al Consiglio dell’Impero di permettere a un ristretto gruppo di mercanti (con famiglie e aiutanti) di scegliere liberamente il luogo di residenza. Nel marzo 1859 Alessandro II ratificò la proposta e, poco tempo dopo, la concessione fu estesa anche a coloro che avevano conseguito una laurea. Solo vent’anni dopo il privilegio in questione fu concesso a tutti coloro che avevano ricevuto un’istruzione superiore senza distinzione di grado: per esempio, farmacisti e dentisti. Malgrado queste concessioni, il governo russo in realtà aveva favorito solo una piccola parte della misera massa di ebrei; il problema restava nella sostanza pressoché immutato nei suoi aspetti principali.

Il conte Grigorij Aleksandrovič Stroganov, governatore generale della provincia della Nuova Russia, aveva ben sottolineato che solo autorizzando gli ebrei a risiedere dove volevano si sarebbe ottenuto qualche risultato tangibile, ma le resistenze delle corporazioni degli artigiani furono fortissime, e fino al 1865 tutto restò immutato. Poi, con molte cautele e controlli di polizia, le maglie dello Stato russo si aprirono timidamente e ad alcuni ebrei fu concesso di risiedere in zone fino ad allora non accessibili; del resto, in quel periodo lo zar portò a termine due progetti di riforma giudiziaria e amministrativa che accordavano anche agli ebrei (non a tutti naturalmente, ma solo a quelli «utili») il diritto elettorale attivo e passivo nelle assemblee provinciali. Cruciale restava, tuttavia, la questione scolastica: a conti fatti, solo un’esigua minoranza aveva scelto di frequentare le scuole statali, mentre la maggioranza continuava a studiare in heders, Talmùd Toràh e yeshivot. Durante il regno di Nicola I, il governo dedicò le sue attenzioni a esse, e nel 1855 lo zar decise che entro vent’anni tutte le strutture scolastiche e religiose ebraiche dovessero essere soppresse; in particolare, le comunità non avrebbero più potuto scegliere i loro rabbini.

Il braccio di ferro con le autorità russe durò quindi, con alterne vicende, per molte stagioni, ma alla fine gli ebrei riuscirono a resistere a pressioni tutt’altro che indolori, e nel 1879 il governo rinunciò ai suoi intendimenti. Un’ulteriore inattesa complicazione fu la tensione insorta tra Varsavia e Mosca e culminata con l’insurrezione polacca. Gli ebrei parteciparono con entusiasmo alle dimostrazioni del biennio 1860-1861, e a un certo punto si ebbe l’impressione che l’asse fra ebrei e polacchi fosse molto forte. Fu probabilmente per spezzare questa recente, ma intensa, amicizia che Alessandro II nel 1862 si decise ad autorizzare gli ebrei ad acquistare beni immobili, a stabilirsi liberamente nelle città, fino ad allora interdette, a presentarsi come testimoni nei processi, con gli stessi diritti degli altri cittadini, e a prestare giuramento con una formula rinnovata e meno umiliante. Per contro, veniva proibito l’uso dell’ebraico e dell’yiddish nelle transazioni commerciali e negli atti civili. I gruppi hassidici accolsero la prima parte di queste misure con soddisfazione, mentre negli ambienti assimilati le speranze di un affrancamento completo andarono inevitabilmente deluse.

Le idee dell’Illuminismo ebraico si erano diffuse capillarmente anche nelle più lontane province europee.

Negli anni Settanta dell’Ottocento riprese con forza la battaglia contro l’uso del tipico abbigliamento ebraico, e nel 1871 il grande pogrom di Odessa, da molti interpretato come la prova generale di un’insurrezione più vasta contro il potere dello zar e da altri considerato una protesta contro il potere economico degli ebrei, contribuì a riportare l’attenzione del governo sulla questione ebraica. Il quadro generale in Russia era pieno di ombre. A molti ebrei d’Europa, invece, il 1870 sembrò un anno magico: la libertà religiosa fu sancita in Germania, Austria, Ungheria, Svizzera, Svezia e, fuori dall’Europa, introdotta dai francesi perfino in Algeria. Solo in Spagna e Portogallo, a causa di antichi retaggi, i nuclei ebraici non erano riconosciuti. Invece negli Stati balcanici, liberati dal dominio turco, il principio di uguaglianza religiosa fu imposto dal Congresso di Berlino del 1878 quale condizione per ottenere l’autonomia politica.

Scriveva a Dostoevskij il procuratore del Santo Sinodo e precettore di Alessandro III e Nicola II: «Ciò che scrivete a proposito degli Jids è assolutamente giusto. Hanno invaso tutto, hanno minato tutto, e lo spirito di questo secolo lavorava per loro. Essi sono alla radice del movimento socialdemocratico e zaricida, sono padroni della stampa, e il mercato finanziario è nelle loro mani, riducono alla schiavitù economica le masse popolari, decidono i principi della scienza contemporanea, che tende a porsi fuori del cristianesimo. E con tutto ciò, da quando esistono un coro di voci si leva a difesa degli ebrei pretendendo di parlare a nome della civiltà e della tolleranza, cioè dell’indifferenza nei confronti della fede. Nessuno da noi ha il coraggio di dire che tutto quanto è in mano degli ebrei. Ecco che già la nostra stampa sta diventando ebrea».

In quello stesso anno, il 1879, il giornale «Novoe Vremja» pubblicava ampie pagine del pamphlet di Wilhelm Marr intitolato La vittoria del semitismo sul germanesimo, che prediceva agli slavi un brutto destino. Marr aveva usato per primo la parola «antisemita». Il «Novoe Vremja» pubblicava alcuni dati statistici, peraltro veri, ma che il giornale considerava terribilmente inquietanti: gli ebrei costituivano il 3% della popolazione russa, ma i condannati politici ebrei erano il 7% del totale, e gli allievi delle scuole secondarie addirittura il 10%. Nel biennio 1902-1904 i condannati ebrei per sovversione sarebbero arrivati al 29% del totale.

L’integrazione appariva a molti come un’oscura minaccia che neanche la recente Commissione per l’organizzazione della vita spirituale degli ebrei avrebbe saputo probabilmente disinnescare. Questo organismo governativo, incaricato di approfondire le implicazioni politiche dei recenti avvenimenti, alla fine di un lungo dibattito auspicò una revisione dell’intera legislazione relativa alla popolazione ebraica, sostenendo che il primo obiettivo sarebbe dovuto essere la riduzione della coesione sociale degli ebrei «combattendo il fanatismo talmudico e l’ignoranza hassidica»: non si trattava di una nazione, bensì di una casta religiosa e politica chiusa; quanto alla zona di residenza, era necessaria per impedire l’estensione del contagio ebraico.

Ci vollero dieci anni perché, all’interno della stessa Commissione, due membri autorevoli, Nekliudov e Karpov, sostenessero l’esigenza improcrastinabile di rinunciare alla prassi dell’oppressione sistematica, anche per evitare che i movimenti rivoluzionari godessero sempre di più delle simpatie dei giovani ebrei, fatto inevitabile se la legge veniva usata per una repressione senza fine: così prosperavano i criminali rivoluzionari, e le masse ebraiche mostravano di condividere aspirazioni che fino ad allora non avevano preso in considerazione. Per la prima volta (era il 1880), alcune voci provenienti dall’interno dell’oligarchia al potere avevano affermato con chiarezza che i difetti degli ebrei erano causati dal loro isolamento come cittadini, e che le loro stesse attività economiche erano il frutto avvelenato dell’oppressione. Accordare la scelta del diritto di residenza significava fare un primo concreto passo verso una vera assimilazione giuridica e civile.

Queste parole audaci, perché pronunciate in un contesto ormai degradato, avevano apparentemente il potere di trasformare gli ebrei da accusati in accusatori, ma erano poco efficaci: l’odio antiebraico era cresciuto in quegli anni ed era stato alimentato da un potere tanto inefficiente quanto desideroso d’individuare un comodo capro espiatorio. In apparenza, sull’onda dei tempi nuovi, qualche passo era stato fatto. Gli ebrei potevano entrare nei consigli comunali, ma non fare i sindaci, neanche là dove rappresentavano la stragrande maggioranza della popolazione. Nel 1874 il nuovo Regolamento del servizio militare obbligatorio aveva cancellato gli arbitri spaventosi del passato, ma la popolazione ebraica era diventata refrattaria al servizio militare e continuava a fare di tutto per evitarlo, e il ministero della Guerra sollecitava il potere politico affinché prendesse misure draconiane contro gli inadempienti. Alla fine fu deciso, nel periodo 1874-1878, che se vi erano ebrei inadatti, altri ebrei, e non dei cristiani, avrebbero dovuto sostituirli nella coscrizione.

Al Congresso di Berlino del 1878, mentre tutte le grandi potenze insistevano perché agli ebrei fossero concessi diritti civili anche in Romania, Serbia e Bulgaria, solo il cancelliere russo Aleksandr Gorčakov si oppose, cercando di spiegare che gli ebrei russi non erano uguali a quelli francesi o inglesi. A Bismarck, che continuava a insistere, spiegò che la triste situazione degli ebrei russi era stata causata dalla necessità di proteggere il resto della popolazione e i suoi interessi. Occorre ricordare, inoltre, che proprio in quegli anni la pubblicistica antiebraica diffondeva celebri pamphlet sull’uso perverso del Talmùd, o meglio, sull’uso del sangue nelle cerimonie ebraiche.

Le crescenti tensioni e contraddizioni economico-sociali del paese finirono per produrre conseguenze rilevanti anche all’interno del mondo ebraico, che cominciava a manifestare insofferenza verso l’esasperante lentezza della burocrazia del potere. Ormai, a molti pareva che il rinnovamento fosse alle porte, a portata di mano, anche perché gli intellettuali russi dibattevano con asprezza, in un modo fino ad allora inusuale, della questione ebraica. Ai tempi di Nicola I, Aleksandr PuŠkin, nelle sue opere, aveva associato in modo inequivocabile la figura dell’ebreo a quella della spia, poi Nikolaj Gogol’, in Taras Bul’ba, ne aveva esaltato il ruolo di individuo pusillanime e ripugnante, presentando l’affogamento dell’ebreo Yankel nel Dnepr, con tutti quelli della sua stirpe, come assolutamente normale. Pur tragico nel suo destino di uomo perseguitato, nell’Ottocento l’ebreo viene visto da molti scrittori russi – da Čechov a Turgenev – soprattutto come ridicolo, con il suo naso adunco e le sembianze di un uccello spennato.

«Il disgraziato Jid» scrisse Turgenev «era davvero ridicolo a vedersi, nonostante l’orrore della situazione; la spaventosa certezza di essere sul punto di lasciare la vita, la figlia, la famiglia, si esprimeva in lui con gesti così strani, con grida e soprassalti così assurdi, che non si poteva fare a meno di sorridere, per quanto triste fosse la scena.» Negli anni della maturità Turgenev si dimostrò più disponibile verso gli ebrei, e con Nikolaj Gavrilovič ČernyŠevskij lasciò intendere di essere favorevole a una loro rapida integrazione. Ma nel decennio 1870-1880 le nuove idee, basate su considerazioni razziali, che si erano sviluppate in Francia e in Germania complicarono il progetto di emancipazione ebraica.

Il conte Ivan Tolstòj, ex ministro della Pubblica istruzione, aveva attribuito la crescita del pregiudizio antisemita, sia nelle alte sfere del regime sia tra le masse popolari, all’esito della guerra russo-turca del 1877, quando il primo ministro inglese Benjamin Disraeli (che, pur se convertito, restava un simbolo dell’ebraismo internazionale) aveva bloccato la marcia delle truppe dello zar verso Costantinopoli. «Questa crescita del patriottismo russo, all’inizio così poco diffuso, era dovuta» scrisse Tolstòj «in parte all’esito della guerra intrapresa per liberare dal giogo turco i fratelli slavi nei Balcani. Ma la gioventù studentesca, in particolare quella ebraica, non partecipò allo sviluppo di tale patriottismo, piuttosto vi si oppose, dedicandosi anzi in maniera crescente a progetti antigovernativi.»

Più problematica e contraddittoria fu la posizione di Dostoevskij, il quale, se nel 1861 aveva raccomandato l’abolizione delle leggi eccezionali antiebraiche, contestando le posizioni oscurantiste di Aksakov, nel 1873 invece attaccò gli ebrei e, qualche tempo dopo, anche Lord Beaconfield (sottolineando che era nato ebreo); nel 1877 scrisse poi un articolo intitolato La questione ebraica. Dopo aver dichiarato che i russi non erano affatto ostili agli ebrei e che non nutrivano alcun odio religioso, «sul tipo della frase: Giuda ha venduto Cristo», lo scrittore osservava che erano gli ebrei a trattare dall’alto in basso il popolo russo, a disprezzarlo, a detestarlo, pur continuando a lamentarsi della loro degradazione e delle loro sofferenze. Cosciente dei paradossi che gli ebrei suscitavano nel suo animo, Dostoevskij non esitava a confessare di essere estremamente incerto nell’affrontare l’idea ebraica – «qualcosa di universale, di profondo, su cui l’umanità non è ancora in grado di pronunciarsi» e protetto «da leggi esoteriche e, forse, occulte» – e si sentiva incapace di esprimere un giudizio, «dato che i tempi e i termini stabiliti non sono ancora interamente trascorsi, malgrado siano passati quaranta secoli, e che l’umanità non ha ancora detto la sua ultima parola su questo grande popolo». Stupito, osservava: «E poi, non è una cosa strana: degli ebrei senza Dio?».

Se Dostoevskij era dubbioso, Lev Tolstòj invece, pur con qualche imbarazzo, aveva solo certezze. Nei suoi primi romanzi i personaggi ebrei sono piccoli trafficanti, venditori ambulanti o, al massimo, parvenu con qualche tratto opulento, poi, negli ultimi anni dell’Ottocento, dopo le persecuzioni e i pogrom, compaiono figure che mostrano un coraggio e una dirittura esemplare e impersonano l’autentico ideale di uomo che potrebbe essere definito tolstoiano. Ma dopo il pogrom di Kišinev, in Bessarabia, se da un lato la pietà aveva preso il sopravvento, dall’altro gli scritti e le lettere di Tolstòj rivelavano l’influenza pseudoscientifica di Houston Stewart Chamberlain e delle sue teorie razziste.

Tra il 1880 e il 1920 anche in Russia, sia pure con qualche ritardo rispetto ad altri paesi europei, vi era stata un’irruzione di idee nuove, frutto sia delle nuove teorie scientifiche che di quelle politiche e sociali. Forse pochi avevano coscienza che stavano arrivando a compimento trasformazioni che si erano nutrite prima delle idee dell’Illuminismo, poi del Positivismo e del Romanticismo, mentre quella che, filosoficamente, fu definita la rottura del soggetto finì per scandire l’affermazione del nuovo ruolo delle grandi masse di cittadini nella vita delle moderne democrazie. Inevitabilmente la ventata modernista ebbe effetti su tutti gli ambienti sociali, anche quello ebraico, che pure si era mantenuto per decenni estremamente chiuso e impermeabile a ogni influenza. La gioventù ebraica russa, uscita dal mondo hassidico e talmudico, innamorata di Spencer e Darwin, guardava con speranza e fervore a nuovi modelli culturali e non si preoccupava più di conciliare religione e scienza, come aveva fatto l’Haskalàh al suo apparire; il suo motto, invece, si poteva sintetizzare in una parola: «russificazione».

Naturalmente, non tutti la pensavano allo stesso modo: la fallita rivoluzione polacca e il pogrom di Odessa avevano demolito molte speranze, e il dibattito sul futuro era diventato il nodo centrale di un’intera comunità. Così, non fu un caso ma una naturale conseguenza, dagli anni Sessanta dell’Ottocento, il fiorire di giornali ebraici stampati in ebraico, yiddish e russo, nelle cui pagine lo scontro di idee, prospettive e indirizzi ideologici, non solo tra conservatori e innovatori, era molto accentuato. C’era chi difendeva la tirannia del rito religioso e chi la condannava, chi insisteva sulla vecchia dicotomia: siate russi in strada ed ebrei in casa, chi desiderava l’assimilazione e chi la denunciava con violenza, chi si attaccava alla malinconia e alla gioia hassidica, chi cercava nel Talmùd una ragione di vita, chi credeva che la scienza moderna avrebbe salvato gli ebrei e chi la considerava un nemico irriducibile, chi amava la rivoluzione ritenendola l’unica via di salvezza e chi la detestava con tutte le forze.

Accadde quindi in Russia che la reazione contro l’emancipazione ebraica finì per manifestarsi ancor prima che essa avesse luogo, anche perché i timidi accenni liberali del periodo di Alessandro II furono cancellati dalla controriforma del suo successore, Alessandro III, il quale non trovò di meglio che usare gli ebrei come capro espiatorio di un diffuso malcontento politico. Oppressione ufficiale e pogrom in apparenza spontanei e popolari finirono così tragicamente per coniugarsi, in un crescendo di violenza che non ricorreva nemmeno a giustificazioni ideologiche per salvare le apparenze e che prese il nome di Haïdamatchina, una forma brutale di repressione risalente al XVII secolo. Erano numerose le concause di questa forma di ostilità. Da un lato, gli ebrei avevano fatto irruzione in un sistema arretrato mostrando di avere le qualità per emergere nelle imprese economiche, dall’altro avevano intrapreso in massa gli studi diventando in breve tempo liberi professionisti, e questa subitanea ascesa sociale aveva suscitato non solo diffidenza, ma anche un senso d’intollerabile invidia in tutte le classi sociali. E se i motivi economici erano all’origine di questi sentimenti, quelli psicologici non erano affatto secondari in un popolo abituato a vivere sotto il tallone di una brutale oligarchia.

Il regicidio di Alessandro II, avvenuto il 13 marzo del 1881, fu il punto d’arrivo di una crisi e l’inizio di un terribile peggioramento: nell’ambito di una repressione controrivoluzionaria la giudeofobia non poteva che inasprire i suoi effetti e acquistare un ruolo di rilievo. La Russia ai russi: questa parola d’ordine fece il resto e, quasi improvvisamente, gli ebrei in Russia, circa 5 milioni di persone, furono alla mercé di un nuovo Regolamento sulla sicurezza rinforzata, emanato nell’agosto 1881, che permetteva qualsiasi arbitrio; per esempio, la deportazione in Siberia di un cittadino sulla base di un semplice sospetto. Se tutti i cittadini russi se la passavano male, per gli ebrei, considerati rivoluzionari e sovversivi per eccellenza, le cose andavano ancora peggio. In molte località del paese si aggiravano membri di una fantomatica Milizia sacra che alimentavano l’odio antiebraico e si preparavano a organizzare pogrom «spontanei».

Nell’aprile del 1881 ci fu a Elisabethgrad, una cittadina con 15.000 ebrei, un primo pogrom violento con saccheggi, distruzioni e vittime, mentre la polizia, in attesa di disposizioni, manteneva un atteggiamento totalmente passivo. Altre cittadine nei dintorni vissero lo stesso scenario di violenze; poi, alla fine del mese, tutto era pronto per attaccare i quartieri ebraici a Kiev, e anche in questo caso, ampiamente previsto, ogni cosa si svolse secondo il copione, con ruberie e stupri ben organizzati. Solo a Berdičev, un villaggio a maggioranza ebraica, gli abitanti, preparati al peggio, seppero opporre una vigorosa resistenza e riuscirono a respingere gli assalitori. Altri pogrom si scatenarono un po’ dappertutto dove risiedevano ebrei: ad Aleksandrovsk, Nicolaev, Berdyansk, Orechov, e si conclusero all’inizio di maggio a Odessa, dove gli ebrei erano 100.000. In quella occasione la polizia, dopo qualche giorno, decise d’intervenire e arrestò indistintamente assalitori e resistenti. Il ministro dell’Interno Ignat’ev, a metà maggio, fece sapere che intendeva por fine a ogni ribellione e disordine, anche perché nelle alte sfere si era insinuato il dubbio che fra gli organizzatori dei pogrom si fossero infiltrati elementi rivoluzionari che in un momento successivo si sarebbero potuti scatenare contro il potere zarista. Racconta lo storico e critico d’arte Anatole Leroy-Beaulieu: «I moti antisemiti avevano luogo in un giorno fisso, quasi dovunque con la stessa procedura, per non dire secondo lo stesso programma. Cominciavano con l’arrivo di bande di agitatori trasportati per ferrovia. Spesso, dalla vigilia, erano stati affissi manifesti che accusavano gli ebrei di essere responsabili dell’assassinio dello zar Alessandro II. Per sollevare le masse i sobillatori leggevano giornali antisemiti nelle strade o nei locali pubblici, presentando gli articoli come ukase che impartivano l’ordine di picchiare e saccheggiare gli ebrei. Si preoccupavano di aggiungere che, se gli ukase non erano stati resi pubblici, la colpa era delle autorità, che erano state comprate da Israele. E infatti si sparse dovunque la voce che un ordine dello zar dava tre giorni di tempo per saccheggiare le case degli ebrei. In molte località l’incuria della polizia e l’indifferenza dell’amministrazione confermavano questa leggenda, talvolta anche la passività delle truppe che, armi in braccio, contemplavano il sacco del quartiere israelita. Più di una volta gli ebrei che tentavano di difendersi furono arrestati e disarmati: quelli che osarono montare la guardia davanti alla porta di casa pistola in mano vennero processati».

Alessandro III, pur essendo poco favorevole agli ebrei, non amava i pogrom, poiché credeva che in certi casi fossero stati fomentati da elementi rivoluzionari; decise quindi d’incontrare una delegazione della comunità ebraica russa con a capo il barone Horace Ginzburg. Affermò che i disordini erano opera di anarchici e garantì che ogni cittadino era uguale davanti alla legge, ma accusò gli ebrei d’invadenza economica. Nei fatti, comunque, non solo non aiutò le vittime, ma impedì che potessero farlo le stesse organizzazioni ebraiche e ordinò che gli ebrei fossero discretamente rispediti, da Mosca o San Pietroburgo, verso la vecchia zona di residenza.

A Kiev il procuratore generale Strelnikov, davanti al Consiglio di Guerra, terminò la sua arringa dicendo che, se la frontiera orientale era stata chiusa, restava aperta quella occidentale, e gli ebrei potevano andarsene. In luglio nella zona ucraina ripresero i pogrom, soprattutto a Pereyaslav, dove si erano rifugiati molti abitanti di Kiev, poi i disordini si estesero a Borispol e Negine e durarono, in modo intermittente, tutto il mese. A macchia d’olio furono colpite dallo stesso scoppio di turbolenza oltre cento località, e aumentarono a dismisura il senso d’insicurezza e l’angoscia delle comunità colpite.

Naturalmente, si fece strada in fretta l’idea di emigrare e Brody, alla frontiera austro-russa, divenne un centro di raccolta di straordinaria importanza: migliaia e migliaia di miserabili passarono di lì prima di dirigersi in Francia o verso il continente americano. Già alla fine di luglio del 1881 diecimila emigranti avevano lasciato le loro case con l’aiuto dell’Alliance Israélite Universelle e guardavano al futuro. Con un interrogativo che aveva trovato grande eco sulle pagine dei giornali ebraici: America o Palestina?

Non furono solo le violenze e la paura a spingere gli ebrei verso una massiccia emigrazione. Ormai il clima era cambiato e i reazionari al potere si erano convinti – e cercavano con successo di convincere il popolo russo – che gli ebrei avevano subito i pogrom a causa delle loro colpe, cioè il parassitismo e la capacità di spogliare economicamente i russi. Il conte Koutaissov, che aveva visitato su incarico dello zar le zone dei disordini, aveva scritto nel suo rapporto che erano stati gli ebrei ad alimentare l’odio popolare, e che nei tumulti non vi era stata alcuna infiltrazione rivoluzionaria. I pogrom si erano diffusi, a suo parere, a causa della passività delle forze di polizia; così concludeva: «Le masse sovreccitate hanno fatto questo ragionamento bizzarro: poiché le autorità non fanno nulla per fermare gli attacchi agli ebrei, bisogna credere che questi attacchi sono permessi. A poco a poco si sono persuasi che erano autorizzati dallo stesso zar, e tale autorizzazione, agli occhi del popolo, poteva spiegarsi soltanto con il fatto che gli ebrei sono stati i principali colpevoli dell’evento dell’assassinio dello zar Alessandro II».

Nel gennaio 1882 il ministro Ignat’ev fece sapere che la frontiera occidentale era aperta per gli ebrei, e che molti ne avevano già approfittato per andarsene ed emigrare verso terre lontane. Quanto alla frontiera orientale, doveva restare chiusa se si voleva impedire che la situazione già tesa fra russi ed ebrei si aggravasse ulteriormente. Se gli ebrei avessero voluto, forse sarebbe stato possibile individuare zone poco popolate, al di fuori di quella tradizionale di residenza, per creare nuovi insediamenti limitati, magari in Siberia o nelle steppe dell’Asia centrale. Queste dichiarazioni del ministro aumentarono lo sconcerto e la paura, e spinsero numerose comunità a organizzare giornate di preghiera nelle sinagoghe. In Russia non si poteva certo protestare apertamente, ma il grido di dolore fu raccolto in altri paesi, e soprattutto in Inghilterra, dove ai massimi livelli furono organizzate manifestazioni pubbliche e inoltrate petizioni che sollecitavano interventi diplomatici molto decisi, mentre sulle prime pagine dei più importanti giornali londinesi, a cominciare dal «Times», apparivano cronache e interventi assai allarmati.

Nella primavera del 1882 era fissato un importante incontro per discutere a fondo gli sviluppi della situazione, ma d’improvviso si verificò un nuovo grave evento: nella regione della Podolia, a Balta, città nella quale gli ebrei erano in proporzione di tre a uno, ci fu un pogrom violentissimo, e ancora una volta la polizia e le autorità locali ebbero un ruolo decisivo. I primi disordini scoppiarono il 29 marzo, secondo giorno della Pasqua russa e settimo di quella ebraica. Gli ebrei reagirono cacciando gli assalitori, ma la situazione cambiò all’arrivo di poliziotti e soldati, che cominciarono a sparare sugli ebrei, permettendo agli avversari di avere la meglio. Milleduecentocinquanta case furono distrutte e quindicimila persone ridotte sul lastrico dai saccheggi e dalle violenze, che causarono molti morti e moltissimi feriti.

Il Congresso di Pietroburgo, convocato dall’8 al 27 aprile dal barone Horace Ginzburg per riunire i delegati delle numerose comunità ebraiche, con l’autorizzazione del ministro Ignat’ev, si aprì mentre non si erano ancora spenti gli echi dei gravi fatti di Balta. Il tema all’ordine del giorno era quello non risolto dell’emigrazione. Per alcuni delegati illustri si trattava di una forma di protesta inammissibile, una vera e propria ribellione, ma pochi di costoro sapevano dare una risposta conveniente alle sollecitazioni del ministro dell’Interno, che chiedeva di ridurre la densità della popolazione ebraica presente nella zona di residenza.

L’influente finanziere Poliakov raccontò ai delegati di aver detto a Ignat’ev che l’emigrazione, a suo modo di vedere, doveva essere giudicata alla stregua dell’incitamento alla rivolta, dato che per gli altri cittadini russi non era previsto potersene andare. Poliakov riteneva che si dovesse prendere seriamente in considerazione la proposta del ministro di andare a popolare le steppe dell’Asia Minore; per il delegato Mandel’štam, invece, nascondeva solo l’idea di una deportazione di massa, concepibile in quei termini soltanto come un provvedimento riservato esclusivamente a dei criminali. D’altra parte, il Congresso non se la sentiva di promuovere l’emigrazione, che era considerata un modo per far nascere ragionevoli sospetti nel popolo e nel governo russo. Dopo un dibattito molto teso e animato, i delegati arrivarono ad approvare alcune deliberazioni. L’idea di organizzare l’emigrazione era vista come contraria alla dignità dello Stato russo e al diritto degli ebrei, sanzionato dalla storia, di considerare la Russia la loro patria. Per normalizzare i rapporti fra ebrei e cristiani sarebbe stato necessario abolire le leggi eccezionali cui erano sottoposti solo i primi. Inoltre, il governo avrebbe dovuto proteggere la popolazione ebraica dalla violenze dei pogrom e offrire un qualche indennizzo a chi aveva subito danni. I delegati smentirono con grande convinzione l’esistenza di una struttura segreta di Kahals sconosciuta alle autorità, che sarebbe stata lesiva per la sicurezza dello Stato e quindi condannabile. Fu deciso pertanto di portare queste risoluzioni a conoscenza dello zar.

Ma ciò non accadde: il 3 maggio 1882 fu emanato un Regolamento provvisorio che, nelle intenzioni dei legislatori, doveva mettere a tacere gli ebrei e ridurli a una condizione di servitù. La zona di residenza fu ristretta e gli ebrei obbligati a trasferirsi in cittadine o borghi con la proibizione di comperare o affittare case in campagna: da quel momento non avrebbero più potuto lavorare la domenica o nei giorni delle feste cristiane. Le condizioni di povertà delle masse ebraiche, già drammatiche, peggiorarono a causa di un vertiginoso aumento della popolazione ebraica, passata da 1.600.000 nel 1820 a 4 milioni nel 1880, con un incremento del 150%. In città come Odessa, Białystok, Łódz, Varsavia, il proletariato ebraico viveva una condizione di Luftmensch, termine yiddish che indica un’esistenza precaria e senza speranza: alla fine del XIX secolo alcune organizzazioni internazionali di soccorso ebraico mandavano aiuti ad almeno un terzo degli ebrei russi.

Alla fine di maggio ci fu il colpo di scena che avrebbe avuto effetti duraturi sulla vita degli ebrei in Russia. Ignat’ev fu sostituito dal conte Dimitrij Tolstòj, che agì immediatamente: convinto che si dovesse bloccare per tempo ogni eccesso e rafforzare il controllo politico sul territorio, emanò una circolare in cui si minacciava di colpire con durezza sia gli autori dei pogrom sia i loro ispiratori più o meno occulti. La macchina delle violenze si fermò quasi all’istante, anche se naturalmente il fuoco covava sotto la cenere. Il Regolamento provvisorio, tuttavia, continuava a creare situazioni difficili sul piano giuridico, e anche pratico, in virtù di un meccanismo di espulsione che scatenò una feroce giudeofobia di comodo in diverse regioni, da Pietroburgo a Mosca, da Kiev a Kharkov. Quando per qualche motivo ci si voleva sbarazzare degli ebrei, bastava fare appello al Regolamento che disciplinava – si fa per dire – la delicata materia, e il pretesto diventava subito l’occasione per un arbitrio legale. La violenza fisica e quella del sopruso sistematico diventarono, associate insieme, spettri indelebili nell’immaginario ebraico.

Neanche all’interno dell’esercito le cose andavano per il verso giusto. Si scoprì, per esempio, che il numero dei medici ebrei era troppo elevato e fu deciso, da un momento all’altro, di ridurne drasticamente la percentuale al 5%: secondo l’accusa, infatti, lavoravano male e con scarsa coscienziosità. In realtà, probabilmente era vero il contrario, ma ciò aveva poca importanza: ancora una volta gli spazi di sussistenza degli ebrei russi, in un modo o nell’altro, venivano sistematicamente ridotti, categoria per categoria, là dove si era aperto uno spiraglio, fossero medici o semplici distillatori di acquavite, mediante vessazioni che solo in apparenza si camuffavano con la maschera della legalità. Nel 1883 ripresero vigore anche i pogrom, con le solite ruberie e le solite scene di selvaggia violenza: in maggio a Rostov, sul Don, in luglio a Jekaterinoslav, in settembre a Novomoskovsk. Poi, nel 1884, in un piccolo villaggio fuori della zona di residenza, Nižni Novgorod, e per questo gli ebrei colpiti furono considerati colpevoli.

Nel frattempo non si fermava l’elaborazione di nuovi strumenti legislativi destinati a completare il famoso Regolamento provvisorio. Lo zar ordinò la creazione di una speciale Commissione superiore per la revisione delle leggi in vigore concernenti gli ebrei, presieduta – un paravento – dal conte Pahlen, un ex ministro della Giustizia, e composta da sei funzionari di differenti ministeri competenti. Fu fatto loro intendere che dovevano elaborare un nuovo progetto, ma senza fretta, anche perché, mentre la Commissione sonnecchiava, Dimitrij Tolstòj, il nuovo ministro dell’Interno, elaborava speditamente proposte operative promulgate sotto la forma di «Avviso del Consiglio dei ministri ratificato da Sua Maestà».

Sempre nel 1883, dietro sollecitazione del governatore di Odessa, Joseph Vladimirovič Gourko, fu deciso che bisognava porre un freno all’enorme numero di studenti ebrei che frequentavano scuole di alto livello e università: lo zar fece subito sapere di essere d’accordo. La risposta a questo problema, considerato impellente, fu la creazione del cosiddetto numero chiuso, il numerus clausus, che diventò una vera dannazione, un incubo per la stragrande maggioranza delle famiglie ebree desiderose di dare ai figli un’istruzione per metterli al riparo dalle difficoltà della vita.

Nella zona di residenza, inoltre, furono limitati gli spostamenti da un villaggio all’altro: quello che era stato fino ad allora un immenso ghetto a cielo aperto diventò in poco tempo la somma di una miriade di piccolissimi ghetti, da cui era sempre più problematico traslocare e dove, talvolta, non si poteva più tornare. Anche in questo caso i problemi sociali e interfamigliari crebbero a dismisura, perché diventava difficile fare visita ai parenti o cambiare lavoro. A ciò si aggiunga che, per tenere sotto controllo la popolazione ebraica, furono istituiti controlli di polizia rigorosi e sistematici, tali da rendere ogni individuo un potenziale clandestino. È vero che parallelamente alle restrizioni fiorivano i favoritismi, però si trattava di una precarietà legalizzata che non risolveva i problemi economici creati da questi sottili, ma tenaci, lacci e laccioli. La minoranza ebraica stabilmente privilegiata finiva per trovarsi confinata a un ruolo di collaborazione con il potere spesso ambiguo e non esente da infiniti compromessi, in molti casi doloroso. E i privilegi, che talvolta erano il frutto di un cammino molto lungo, rischiavano di essere spazzati via in un attimo da nuove regole emanate dal governo, sempre più severe, intransigenti e volte ormai a cancellare dalla scena le classi più istruite e legate alle professioni liberali. Questo valeva specialmente per gli ebrei, ma si trattava di una linea di tendenza generale in un paese la cui classe dirigente guardava con sospetto qualsiasi ambiente culturale e tutti coloro che oggi verrebbero definiti intellettuali.

Nel dicembre 1886 Alessandro III incaricò il ministro dell’Istruzione Ivan Davydovič Delianov di limitare ulteriormente le iscrizioni degli ebrei ai licei e alle università. Ne scaturì un dibattito durante il quale i responsabili delle circoscrizioni scolastiche fecero a gara per inventare sofisticati, quanto pretestuosi, sistemi di esclusione. Tutti comunque furono d’accordo nel ritenere potenzialmente pericolosa e suscettibile di veicolare idee liberali e radicali la frequenza ai corsi delle università delle grandi capitali europee, da Parigi a Berlino. L’anno successivo furono emanate le conclusioni operative: nella zona di residenza, dove gli ebrei erano fra il 30 e l’80%, essi non potevano superare la quota del 10%, mentre nelle altre zone, dove risiedevano ristretti nuclei di privilegiati, la percentuale scendeva al 3%.

«Questo numero chiuso» ha scritto lo storico Léon Poliakov «era in pratica un numero nullo, dal momento che, se gli ebrei costituivano solamente il 3% dell’intera popolazione dell’Impero, formavano però il 25% delle classi urbane da cui proveniva la quasi totalità dei liceali.» Di conseguenza, tanti che volevano studiare scelsero la via dell’esilio e, in molti casi, non ritornarono mai più. Nel 1889 un nuovo ukase dello zar diede un altro giro di vite contro l’esiguo numero di avvocati ebrei rimasti: per esercitare la professione ci sarebbe voluta un’autorizzazione del ministro della Giustizia, che poteva essere ottenuta con referenze e raccomandazioni.

Mentre s’infittivano le piccole e grandi discriminazioni, si rifece viva la Commissione superiore diretta da Pahlen che, in cinque anni, aveva avuto il tempo di prendere in esame la questione ebraica in tutte le sue sfaccettature, analizzando una grande quantità di documenti storici, giuridici, economici e statistici. Le sue conclusioni, anche se non furono prese all’unanimità, furono sorprendenti: le leggi restrittive applicate in passato non avevano ottenuto il loro scopo, e meglio sarebbe stato attuare una serie di riforme progressive e prudenti. Nel Rapporto Pahlen era scritto: «Lo Stato può trattare una popolazione di 5 milioni di anime, cioè una ventesima parte di tutti i suoi cittadini, anche se questa popolazione appartiene a una razza differente da quella della maggioranza, in modo diverso da tutti gli altri? Mettendoci dal punto di vista degli interessi dello Stato, noi riteniamo che gli ebrei dovrebbero godere dei diritti di cui godono tutti gli altri. Dal momento in cui questa uguaglianza dei diritti viene rifiutata, non si può imporre loro un’uguaglianza di doveri verso lo Stato. Le vessazioni, le restrizioni imposte alla libertà, l’assenza di legalità e le persecuzioni non hanno mai contribuito a rendere gli uomini migliori e più devoti allo Stato. Nulla di sorprendente se gli ebrei, che hanno subito per cent’anni una legislazione repressiva, formano una categoria di cittadini poco disposta ad accettare i doveri verso lo Stato e a dedicarsi completamente alla vita russa. Il nostro codice contiene 650 leggi eccezionali contro gli ebrei, e le limitazioni e restrizioni che queste leggi impongono hanno la conseguenza di rendere la loro vita in Russia eccessivamente dura e penosa… Circa il 90% della popolazione ebraica forma una massa a cui manca la sicurezza più elementare, una massa di proletari che vive alla giornata nella miseria e nella povertà, in condizioni vergognose d’igiene e non solo. È contro questi proletari che il popolo si sfoga persino nei movimenti di rivolta violenta. La legislazione stessa mette gli ebrei nella condizione di “allogeni”… In breve, l’anomalia della situazione degli ebrei in Russia è manifesta. Senza volerli difendere, o manifestare nei loro riguardi una qualsivoglia simpatia, ma mettendoci unicamente dal punto di vista della giustizia politica e dell’equità, con tutta l’imparzialità e l’obiettività, siamo obbligati a riconoscere che hanno diritto di lagnarsi della loro situazione… Gli ebrei non sono stranieri in Russia, dato che vivono in questa terra da oltre trecento anni. La storia stessa della legislazione, che pure si è evoluta in parte sotto la spinta di idee sfavorevoli agli ebrei, ci mostra che esiste un solo modo per porre rimedio a questa situazione, e che consiste nell’assumere un’attitudine liberale affinché possano unirsi al resto della popolazione, accordando loro la protezione delle stesse leggi di cui godono gli altri. Lo scopo principale della legislazione consiste nell’avvicinarli il più possibile al resto della popolazione. Al sistema delle misure repressive ed eccezionali bisogna sostituire quello delle leggi liberali e ugualitarie. La soluzione della questione ebraica esige la più grande prudenza e deve essere attuata gradualmente».

Il documento, che rifletteva le idee dominanti in quel tempo e parlava degli ebrei come di una razza diversa, mette bene in luce che negli ambienti più illuminati era ormai chiaro quale strada si sarebbe dovuto percorrere. Naturalmente, all’interno della Commissione non erano mancate posizioni divergenti sui metodi per risolvere una questione che coinvolgeva oltre 5 milioni di persone, il 4% della popolazione complessiva dell’Impero (come si sarebbe potuto evincere dai risultati di un censimento effettuato nel 1897): solo un quarto di questa popolazione sapeva leggere e parlare il russo. Il ministro Tolstòj, che evidentemente non apprezzò i suggerimenti contenuti nel Rapporto Pahlen, impedì, probabilmente per ordine dello stesso zar, che fosse discusso dal Consiglio dell’Impero; quelle pagine, pertanto, non ebbero alcun benefico effetto e finirono per aumentare il peso degli archivi delle cancellerie. Tolstòj, comunque, era abbastanza lucido da scrivere questa pagina: «Dunque, contro chi il governo vuole proteggere la popolazione cristiana? Se la presenza degli ebrei è davvero così pericolosa e dannosa, perché abbandona al loro destino tutti gli abitanti cristiani della zona, che comprende 15 province, senza contare le 10 province polacche? E se in queste 25 province i cristiani possono sussistere e guadagnarsi da vivere, nonostante la presenza degli ebrei, cosa autorizza il governo a pensare che la popolazione delle altre province russe soffrirebbe per la loro vicinanza? Non significa forse fare del torto a questa popolazione, cioè alla popolazione di tutte le Russie, e supporre che siano meno capaci degli abitanti cristiani della zona di condurre una vita economica indipendente? Per proteggere le province di Jaroslavl e Kostroma da un male immaginario, la nostra legislazione ha diffuso un male reale e tangibile: ha esagerato e indotto alla rivolta 7 milioni di esseri umani, ed è la sola responsabile del fatto che questa enorme massa di persone si sta organizzando per raggiungere condizioni di vita migliori, e ha iniziato una lotta che non avrà tregua finché non raggiungerà questo scopo».

Nel 1891 Pleve rafforzò ancora di più i controlli e cominciarono le espulsioni sistematiche da San Pietroburgo e Mosca: in quest’ultima, in marzo, durante la Pasqua ebraica, vi furono vere e proprie retate per liberare ogni quartiere dai residenti illegali e, contemporaneamente, cacciare gli ebrei che avevano goduto di qualche privilegio per inviarli nelle zone di residenza: durante l’inverno, nonostante il freddo toccasse i 30 °C sotto zero, le stazioni ferroviarie di notte erano gremite di migliaia e migliaia d’individui di ogni età che venivano ricacciati, dopo essere stati privati di ogni bene o essere stati costretti a svenderlo, in terre lontane che neppure conoscevano, o che avevano appena sentito nominare. Ben presto, grazie ai racconti degli esuli giunti nelle grandi capitali europee o nelle metropoli americane, tutti i governi del mondo furono informati della sistematica brutalità che imperversava in quelle terre tormentate dell’Est. Centomila persone furono evacuate da Mosca verso la famosa «zona». Fu allora che il barone e filantropo Maurice Hirsch decise d’impegnarsi personalmente nel soccorso ed elaborò un progetto che prevedeva il trasferimento di 3 milioni di ebrei in Argentina.

Il governo russo, alla fine degli anni Ottanta, parve assecondare a sua volta queste velleità utopistiche e fece di tutto, usando il bastone e la carota, per liberarsi di cittadini che considerava indegni di vivere in Russia: negli anni Ottanta avevano lasciato il paese al ritmo di 15.000 l’anno circa, e all’inizio degli anni Novanta questo numero era raddoppiato. Alle autorità di Mosca, tuttavia, ansiose di risolvere il problema in tempi brevi, queste cifre parevano irrisorie: l’incremento naturale si opponeva alla diminuzione della popolazione, e per liberare la zona di residenza con quei ritmi sarebbe stato necessario molto tempo.

Hirsch si affidò a un membro del Parlamento inglese, Arnold White, incaricandolo di una delicata missione diplomatica: sondare gli umori dei dirigenti russi. Il ministro russo Pobedonostsev non usò alcuna cautela diplomatica: gli ebrei erano usurai e scrocconi, e sarebbe stato un buon risultato mandarli via tutti nell’arco di dodici anni. A White furono concesse molte facilitazioni affinché potesse visitare in modo accurato le zone interessate, a Mosca, Kiev, Berdičev, Odessa e in tante altre piccole e grandi località.

Nell’autunno 1891 fu fondata a Londra la Società della colonizzazione ebraica che, sotto i buoni auspici del barone Hirsch e di White, lasciò intravedere ai ministri russi che in venticinque anni l’organizzazione avrebbe garantito l’emigrazione di 3.250.000 ebrei, tanto che gli uomini di governo russi promisero misure concrete per sostenerla: passaporti gratuiti e dispense dal servizio militare a chi fosse partito. Organizzare un esodo di massa in quegli anni non era tuttavia facilissimo, e ben presto, mentre a Mosca la situazione restava critica, Hirsch cominciò a rendersi conto che un trasferimento di massa avrebbe richiesto capitali immensi e un’organizzazione mastodontica.

Intanto, nella capitale, fra il 1892 e il 1894, dopo la chiusura e la vendita della grande sinagoga e l’esilio per il rabbino, furono chiuse anche le stanzette in cui gli ebrei si ritrovavano per pregare e fu vietato loro di trasformare i prenomi ebraici in russi. Ancora una volta, ogni pretesto era buono per rendere l’aria irrespirabile, si trattasse di nuova legge restrittiva sui passaporti o del distacco di Yalta dalla zona di residenza, con l’ovvia conseguenza dello sradicamento di interi gruppi familiari. Gli anni tra il 1895 e il 1900, durante il regno di Nicola II, segnarono un peggioramento generale del clima dell’intero paese, sempre più dominato da un’oligarchia oscurantista e reazionaria: a Mosca era ormai caccia all’uomo, e chi trovava un ebreo da espellere guadagnava una taglia. Pobedonostsev aveva ben chiaro come si sarebbe potuto risolvere la questione: un terzo degli ebrei sarebbero emigrati, un terzo sarebbero morti, un terzo si sarebbero assimilati al resto della popolazione senza lasciare traccia.

La crisi economica si era aggravata. L’economista russo Michail Fëdorovič Subotin segnalò che, tra il 1894 e il 1898, la povertà nella zona di residenza era aumentata del 27%; il 50% degli ebrei che ci vivevano non avevano occupazione. Nel 1897 erano ripresi i pogrom e si stava intensificando una campagna di stampa che sottolineava malignamente i difetti della religione giudaica. Proprio in quell’anno prese forma, a livello europeo, l’organizzazione sionista di Theodor Herzl, mentre nei territori dell’Est fu fondato il Partito operaio ebraico, il Bund, da cui l’anno dopo sarebbe nato il Partito socialdemocratico russo.