Il mito delle origini si perde nelle ombre dei secoli. Nella sua forma scientifica e moderna si trasforma in termini espliciti nel mito della razza solo in tempi recentissimi e ha le sue radici in quel complesso e fecondo ambiente culturale che fu l’Europa del XVIII secolo.
Nel Settecento, dominato dalle idee illuministe che si sforzavano di cancellare le superstizioni del passato, accanto agli enciclopedisti, accanto ai Diderot e ai Voltaire, ci furono gruppi che diedero espressione a tendenze pietiste e che svilupparono, anche se non nella forma eclatante in cui si diffusero le idee dei Lumi, le basi di un profondo risveglio religioso teso a esaltare i bisogni interiori dell’uomo. Mentre gli scienziati, in accordo con lo spirito del tempo, si sforzavano di ricondurre ambiente e uomo all’interno di una classificazione ordinata e naturale, i religiosi cercavano di porre le basi di un nuovo rapporto tra uomo e Dio.
Bellezza e armonia influenzarono entrambi: in base a queste categorie, verso la fine del secolo, la scienza sviluppò la frenologia (lettura del cranio) e la fisiognomica (lettura del volto), mentre la religione ridefinì i nuovi valori morali alla luce dell’eredità classica; entrambe, da punti di vista diversi e in qualche caso complementari, puntavano a individuare un’unità perfetta in cui uomo e natura potessero trovare il loro posto. Per entrambe la «grande catena dell’essere» diventò l’ideale da raggiungere per cogliere l’essenza di quella grande armonia che, in una straordinaria gerarchia, avrebbe potuto unire tutte le creature del cielo e della terra, dagli angeli alle stelle, agli uomini, agli animali. E l’anello mancante diventò oggetto di ricerca e di interesse, anche nei pietisti che alle fredde idee scientifiche dei deisti sostituivano qualche consolazione più calda, quella del mito.
In realtà, né avrebbe potuto essere altrimenti, scienza e religione finirono per influenzarsi soprattutto perché usavano entrambe la stessa estetica: l’idea di bellezza diventò il ponte tra il razionalismo vuoto e un poco formale e le esigenze di una religiosità cosmica. Opere letterarie come l’Emilio di Jean-Jacques Rousseau e il Robinson Crusoe di Daniel Defoe contribuirono a convincere intere generazioni che l’autenticità era insita nel primitivo e finirono per plasmare il mito, persistente, del buon selvaggio. Bellezza e bruttezza diventarono principi di classificazione. Christian Meiners, per esempio, nel suo Compendio della storia dell’umanità (1785), dopo aver classificato gli uomini secondo il colore della pelle, scrisse che «una delle caratteristiche principali delle tribù e dei popoli è la bellezza o la bruttezza dell’intero corpo o della faccia». Le sue erano idee legate alle condizioni dell’ambiente senza alcuna allusione, neanche alla lontana, all’idea di razza, anche perché sia gli illuministi che i pietisti manifestavano sempre una grande moderazione. Anche Johann Friedrich Blumenbach (1752-1840), uno dei fondatori della moderna antropologia, nello stesso periodo elogiava il volto simmetrico e manifestava l’opinione che i volti più belli fossero il prodotto di un clima più favorevole.
L’opinione diffusa, secondo cui la conoscenza riduce i pregiudizi tra gli uomini, non sembra confermata dagli avvenimenti del XVIII secolo: dopo i frequenti contatti tra europei e africani, a poco a poco il mito del buon selvaggio perse la sua forza originaria e i primitivi furono considerati automaticamente inferiori. Anche l’integrazione degli ebrei nella società europea non ebbe gli effetti sperati e le barriere invisibili non persero la loro consistenza. Persino i cinesi, che fino ad allora erano stati visti sotto la luce dell’esotismo, finirono per ricevere la loro dose di disprezzo.
All’inizio le idee di cosmopolitismo e tolleranza furono applicate anche agli ebrei, sull’onda delle grandi rivoluzioni sociali e politiche, e gli antropologi non dettero troppa importanza a questi individui marginali appena liberati dai ghetti. Tuttavia Johann Kaspar Lavater, che alla fine del XVIII secolo classificò le facce umane, attribuì loro nasi adunchi e menti appuntiti.
L’ossessione della «grande catena dell’essere» e dell’anello mancante finì inoltre per far pensare a molti che i neri potessero essere il legame cercato tra l’uomo e la scimmia: era così possibile dare armonia a molte scoperte scientifiche che non erano ancora state sufficientemente disposte in un sistema organico e coerente.
Fedele all’ideale di bellezza classica, Jean-Baptiste de Lamarck (1744-1829) nella sua Filosofia zoologica continuò a cercare nell’ambiente la causa delle differenze tra gli uomini, negando ogni importanza ad aspetti mistici o simbolici, mentre Georges-Louis Buffon (1707-1788) nella Storia naturale dell’uomo sottolineò l’importanza delle osservazioni e delle sperimentazioni anche nell’ambiente naturale; il suo illuminismo non gli impedì di essere sensibile alle influenze dello Sturm und Drang. Diverso l’atteggiamento di Carl von Linné (1707-1778) che, mettendo in luce i pregi della razza bianca, a suo dire piena di inventiva e di ingenuità, e i difetti dei neri considerati infidi e incapaci di autogoverno, getta le basi di una classificazione delle razze, non ancora discriminatoria, ma già capace di distinzioni. Linneo era convinto che tutte le razze avessero avuto un’origine comune, ma che le condizioni ambientali avessero avuto un’influenza profonda e radicale.
Come si può notare, l’elaborazione dell’idea di razza nella sua forma più aberrante e tipica del XX secolo è stata lunga ed è passata attraverso approssimazioni successive. Fu per esempio con la stampa dei Frammenti di fisiognomica (1775-1778) di Lavater che, per la prima volta, caratteristiche fisiche come i capelli crespi o i nasi adunchi diventarono specchio di un’anima malvagia, anche se sempre come conseguenza di fattori accidentali; in ogni caso l’idea che le caratteristiche del volto esprimessero risvolti psicologici non rivelava ancora tentazioni razziste, ma preoccupazioni estetiche che si collegavano ad antichi ideali classici. Il tentativo di Lavater di classificare le fisionomie nazionali favorì comunque la formazione di tenaci stereotipi che vennero sfruttati in un momento successivo. Dotato di fervore missionario, questo studioso, ammiratore di Moses Mendelssohn e convinto che gli ebrei potessero essere opportunamente integrati nella cultura europea, contrapponeva la faccia bella, legata alla nobiltà dello spirito, alla faccia brutta, simbolo del male.
Lo stesso Franz Joseph Gall (1758-1828), fondatore della frenologia, vicino alle sue posizioni e sensibile all’importanza dell’estetica in campo scientifico, riteneva che le varie funzioni del cervello potessero essere collegate alla forma del cranio umano. Anche lui non era ostile ai neri, ma le sue osservazioni furono inglobate in sistemi di pensiero successivi e sfruttate per dare coerenza a teorie di tipo razzista e dar corpo a pregiudizi aggressivi.
Una discontinuità significativa la offre solo alla metà dell’Ottocento Carl Gustav Carus che nel Simbolismo della forma umana (1853) sviluppò le concezioni precedenti, le colorò di tinte romantiche in contrapposizione alla fredda estetica illuminista e arrivò alla conclusione che fosse di una razza superiore quel popolo che nei fatti mostrasse una superiorità sociale; in ogni caso in modo magari impercettibile, ma progressivo, il ruolo rilevante dei fattori ambientali finì per perdere importanza a favore di uno stereotipo costruito su basi estetiche più soggettive e astratte. Carus riprese anche il tema del naso ebraico, descritto per la prima volta nelle Peculiarità ebraiche (1711) da Johann Schudt di Francoforte e successivamente dallo stesso Winckelmann che aveva confrontato il naso «ebraico» con un naso opposto, il naso greco, dotato di una simmetria perfetta. La stampa dell’epoca, grazie ai manifesti e alle vignette, contribuì a diffondere questa credenza fino a trasformarla in uno stereotipo di grande penetrazione sociale. Al naso furono attribuite caratteristiche insospettabili: a quello ebraico il carattere di circospezione e di sospettosità.
Singolare comunque fu il processo di appropriazione di idee nate come osservazioni empiriche, nutrite di supporti estetici, da parte di altri studiosi romantici, le cui posizioni di partenza erano ben distanti da quelle dei loro colleghi illuministi.
Nella grande elaborazione filosofica di questi temi a cavallo tra XVIII e XIX secolo, un posto inatteso spetta a Immanuel Kant che nel libro Le differenti razze dell’umanità (1775) diede alle idee che lo avevano preceduto una forma sistematica e formulò due principi relativi alla razza che non sarebbero stati senza rilevanti conseguenze: la sua immutabilità e permanenza. Questa sanzione autorevole avrebbe permesso ad alcuni successori interessati di sostenere che la superiorità razziale traeva la sua linfa da una immutabilità di migliaia di anni e avrebbe favorito la nascita di uno stereotipo, sintesi di motivi estetici, filosofici e spiritualisti. Inoltre alla luce di queste premesse emerse in primo piano un problema fino a quel momento sottovalutato, quello delle origini, in quanto sono proprio queste che fissano le caratteristiche della razza una volta per tutte.
Accadde così che le idee di uno studioso facessero da ponte involontario a elaborazioni successive molto distanti dalle sue intenzioni: Johann Gottfried von Herder (1744-1803), proprio riflettendo sulla questione delle origini, mise a fuoco l’idea di Volkgeist, dello spirito di un popolo, espresso attraverso miti, canti, saghe della sua anima più autentica. Erede della tradizione illuminista, contrario alle classificazioni razziali, del parere che i veri legami tra gli uomini fossero fatti di cultura, lingua e tradizione e che l’integrazione degli ebrei nella società fosse possibile e auspicabile, Herder, cosmopolita convinto, sostenne la tesi che la storia di un popolo non potesse essere opera solo degli uomini, ma frutto di un disegno divino. Pur non allontanandosi troppo dalla narrazione della Genesi che proclamava origini comuni, lo scrittore tedesco finì per offrire, con il suo ideale di coscienza nazionale, con la sua idea di Volkgeist, uno strumento culturale nuovo e originale: la separatezza implicita in essa finì per rivelarsi un potente fattore di aggregazione, prima nazionale poi nazionalistico, e si trasformò in seguito in un mito dai connotati suggestivi e minacciosi.
Kant e Herder, spiriti illuminati e aperti, favorirono dunque la penetrazione all’interno della cultura europea di idee legate alla distinzione delle razze dalle origini e gettarono le basi di una classificazione dell’umanità in razze superiori e inferiori.
Sul finire del secolo XVIII e all’inizio del XIX un’intera generazione di filologi, dopo aver ribadito l’importanza della questione linguistica nella cultura europea e nazionale, cercò in essa le radici di razza e il termine ariano emerse proprio in quel contesto culturale, quando alcuni si convinsero che il sanscrito fosse la base di tutte le lingue occidentali e che fosse giunto in Europa con la migrazione dei popoli ariani dall’Asia. L’apparizione del termine semita risale invece al 1781, quando uno specialista tedesco di lingue slave, August Ludwig Schlözer, scrisse un libro sulle lingue caldee e si convinse che siriani, babilonesi, ebrei e arabi fossero un solo popolo e che le loro fossero lingue di un unico ceppo, e per dar forma a questa parentela usò un neologismo. Con la frase «ciò che io chiamo semitico» voleva indicare quelle lingue che fino ad allora in modo generico venivano dette lingue orientali.
L’atmosfera ormai dominante nell’Ottocento, ricca di sentimenti romantici, nutrì l’indagine scientifica glottologica che Friedrich Schlegel completò in Sulla lingua e la sapienza degli Indiani (1808): la parentela della lingua portava necessariamente alla parentela della razza. Il risveglio delle coscienze nazionali in Europa, l’interesse per la storia e la linguistica stimolato dal Volkgeist di Herder favorivano un miscuglio di orgoglio nazionale e di ricerca della tradizione che non poteva non approdare a forme di supremazia.
Ben presto la superiorità ariana sostenuta da Schlegel, ancora in un modo primitivo, fu confermata da Christian Lassen (1800-1876), discepolo dei due fratelli Schlegel e autore della monumentale opera Antichità indiane in cui, pur restando su un piano teorico, sostenne per la prima volta in modo non ambiguo la tesi della superiorità ariana sui semiti. La trasformazione da una superiorità culturale a una più propriamente razziale si manifestò intorno alla metà dell’Ottocento e, forse perché i tempi erano finalmente maturi, vi approdarono quasi contemporaneamente studiosi inglesi, tedeschi e francesi.
Arthur de Gobineau (1816-1882), che pubblicò nel 1853 il Saggio sull’ineguaglianza delle razze umane, trasformò completamente le teorie linguistiche in mito razziale, in una sintesi che si avvaleva non solo delle teorie linguistiche ma anche delle eredità dell’antropologia settecentesca e di un diffuso sentimento politico di tipo nazionalista. Popolo, nazione e razza diventarono allora sinonimi, assumendo significati e valenze ben distanti da quelli cui avevano pensato i precursori nel Settecento. A molti parve possibile sposare le nuove idee e non rinunciare a un’auspicata integrazione degli ebrei all’interno della società europea.
Cercarono questa difficile conciliazione, tra gli altri, Gustav Landauer e Martin Buber, che tentarono di coniugare il desiderio di appartenere alla Germania con la loro identità di ebrei: provenienti da una nazione di paria fino a poco tempo prima chiusi nei ghetti, essi si sforzarono di cogliere i segni di una possibile rigenerazione. Le polemiche da parte degli scrittori ebrei sul loro ruolo e sull’uso della lingua tedesca esprimono i disagi di quel periodo e il desiderio degli ebrei di inserirsi, sia pure a certe condizioni, nel mondo culturale tedesco. «L’ideale in pieno sviluppo di una comunità nazionale» ha notato George L. Mosse «aveva ormai rimosso il cosmopolitismo di Herder, la nascita delle nazioni esigeva chiarezza di ruoli, scelte chiare e non sintesi azzardate, o compromessi utili alle minoranze: neri ed ebrei non avevano, né potevano avere, un ruolo in Europa; ormai non l’uguaglianza e l’integrazione, ma il predominio fu il tema che ebbe successo nelle masse europee.»
L’idea di razza si era ormai trasformata e da scientifica, e quindi empirica e mutabile, era diventata mitica, immutabile, dai contorni metafisici; se prima l’essere umano veniva visto nella sua totalità, cioè sia nella sua natura interiore che nell’aspetto esteriore, e nella sua generalità, ora erano le sue radici più particolari, quelle che affondavano nella storia, nella lingua e nel paesaggio nativo, che venivano esaltate dal mondo nazionalista. Alla metà del XIX secolo questa costruzione non era ancora completata, ma si può dire che l’impalcatura fosse già pronta e fu Gobineau, mentre le rivoluzioni scuotevano il continente, che mise in atto una sintesi culturale ormai non più differibile. Nel Saggio sull’ineguaglianza delle razze umane il conte francese sosteneva che la chiave per spiegare sia i trionfi che le crisi dei popoli è l’idea di razza e che attraverso essa è possibile interpretare correttamente passato, presente e futuro dei popoli: gialli, bianchi e neri hanno una funzione da svolgere, mentre gli ariani sono superiori agli altri grazie alle loro qualità innate. La sua idea era che nessuna razza potesse restare pura, ma che se si mescolava non poteva che degenerare e causare decadenza e crisi di intere civiltà. Quanto agli ebrei, Gobineau era convinto che fossero una razza forte e volitiva, decaduta in seguito ai numerosi incroci che l’avevano indebolita e degenerata; in sostanza ebrei e ariani rischiavano la stessa sconfitta. Le sue idee originali ebbero successo e finirono per essere trasformate dai suoi stessi seguaci. Il circolo di Bayreuth, che il conte frequentò con assiduità, contribuì in modo decisivo sia alla loro diffusione che al loro cambiamento: la Lega Pangermanica diffuse le sue tesi all’interno della destra europea, ma le adattò alle necessità politiche più contingenti e in particolare le applicò nella lotta contro i profughi ebrei che premevano ai confini orientali e Gobineau diventò per molti, contrariamente a quanto pensava veramente, un antisemita.
In linea con le intuizioni romantiche di Gobineau fu Georges Vacher de Lapouge (1854-1936), che si dedicò all’identificazione del nemico razziale e sviluppò l’idea secondo cui gli ariani hanno a cuore i valori e il lavoro onesto, mentre gli ebrei sono dediti alla speculazione commerciale. Questa distinzione, in Germania, tra la borghesia ariana e quella ebraica, ebbe in un primo momento un significato limitato – ha notato George L. Mosse –, si diffuse però capillarmente, ottenne grande popolarità e instillò in molti l’idea, pericolosa, che la classe media ariana potesse sopravvivere solo annientando la borghesia ebraica. Che la degenerazione fosse frutto di incroci e che questi si dovessero impedire appariva anche a Vacher de Lapouge un fatto accertato.
Queste idee diventarono in pochi decenni patrimonio comune della cultura europea: anche in Inghilterra non solo Robert Knox (1798-1862), antropologo illustre, era convinto che la razza fosse il motore di ogni civiltà, ma lo stesso Benjamin Disraeli, ebreo convertito e futuro primo ministro, mostrava di condividere simili tesi, anche se riteneva che fosse la razza semita che meritasse di essere apprezzata e ci tenne a ribadirlo anche davanti al Parlamento inglese.
Altri, e tra questi Ernest Renan, in quegli stessi anni si erano convinti invece che il semitismo fosse una tara: nella sua prima grande opera, Storia generale delle lingue semitiche (1855), Renan si sofferma più volte sulla contrapposizione tra razza semitica e razza indoeuropea e nella sua storia del cristianesimo si sforza di desemitizzare la religione cristiana. Negli anni Ottanta dell’Ottocento nasce infine un termine che avrà fortuna: Wilhelm Marr inventa la parola «antisemita», che non ha più un connotato linguistico, ma è riferita essenzialmente alla razza e vuole esprimere tutto il potenziale odio contro l’ebreo.
Nel corso del XX secolo questa parola, che ha saputo coagulare odii recenti e rancori antichi, è stata usata da un grande numero di storici per definire fenomeni giudaici e giudeofobici accaduti molto prima del XIX secolo: un grave errore che ha favorito un revisionismo storico non solo nominalistico e che ha spinto molti a pensare che l’antisemitismo non debba essere interpretato come frutto delle responsabilità storiche di uomini, bensì come evento metafisico legato a un misterioso destino. Il signor Marr non avrebbe mai sospettato che la sua definizione potesse essere così densa di significati.
Agli inizi del XX secolo dunque è possibile individuare un’idea di razza ormai mistica, che si ammanta di una scientificità del tutto fittizia, ma che in realtà è molto sensibile a soddisfare esigenze politiche sempre più accese, frutto dello smarrimento di vasti strati di popolazioni alle prese con le difficoltà del mondo moderno.
Antropologia, eugenetica e pensiero sociale ormai andavano di pari passo, anche se non ancora al passo dell’oca. La vita del singolo individuo era stata inserita in un quadro più ampio, veniva a far parte del destino della collettività e solo l’appartenenza razziale garantiva un minimo di identità. L’individuo di razza inferiore era comunemente bollato come malvagio, anche se per il momento non veniva esplicitamente additato come capro espiatorio.
Alfred Ploetz, fondatore della Società tedesca per l’igiene razziale nel 1904 e creatore in Germania delle teorie della biologia razziale, pur esaltando la razza germanica, era anche convinto che una razza pura non esistesse e che quella a lui cara fosse frutto di una selezione, certo la migliore. Tra coloro che facevano parte a buon diritto del popolo alto e biondo metteva anche gli ebrei, che considerava appartenenti alla razza superiore perché in gran parte alti e biondi.
Forse questa convinzione l’aveva presa dalla lettura di Moses oder Darwin? scritto nel 1892 dallo svizzero Alfred Dodel, in cui l’autore esprimeva la tesi che le persecuzioni cui erano stati sottoposti gli ebrei avevano provocato la migliore delle selezioni naturali. Dal canto suo Fritz Lenz, collega di Ploetz e socio della Società tedesca per l’igiene razziale, condivideva queste opinioni e metteva al primo posto dei suoi attacchi i francesi, tradizionali antagonisti dei tedeschi.
È lecito concludere quindi che, nonostante il dibattito intriso di mistica razziale di quegli anni, quasi nessuno era ancora giunto a propagandare l’eliminazione di razze inferiori o sostenere la necessità di guerre a sfondo razziale. Si faceva, è vero, un gran parlare dell’idea di degenerazione e delle sue conseguenze psicologiche e non restavano immuni da queste influenze neanche alcuni spiriti illuminati.
Cesare Lombroso (1836-1909), per esempio, ebreo e liberale con un passato socialista, fautore convinto dell’assimilazione degli ebrei agli altri popoli, avversario dichiarato delle idee razziste, dette fiato ad alcune opinioni che poi finirono per diventare patrimonio di successori meno accorti e scrupolosi e furono usate dal nuovo emergente razzismo violento. Egli infatti collegò l’idea di degenerazione ad alcuni aspetti fisiognomici particolari e ne definì i segni esteriori attribuendoli a una criminalità innata. Il suo Genio e follia (1863) diventò un testo popolarissimo. Influenzato dalle idee darwiniane, Lombroso arrivò a sostenere che i criminali inveterati dovevano essere giustiziati al fine di offrire alla società una protezione; anche la pena capitale doveva essere considerata come un segno della selezione naturale. Purtroppo l’eutanasia praticata dai nazisti in un momento storico successivo nei confronti di quelli che consideravano degenerati, fossero essi handicappati, zingari, ebrei o semplici oppositori, è paradossalmente connessa a questo tipo di idee, sebbene lo stesso Lombroso fosse ben lontano da simili aberrazioni.
Anche Max Nordau (1849-1923) con il libro Degenerazione contribuì alla diffusione di concezioni che poi si rivelarono, in un contesto diverso, micidiali. Ebreo e acceso sionista, fu sostenitore di quella borghesia ordinata che incarnava ogni virtù e che con fatica quotidiana si opponeva a ogni sbandamento dalla retta via.
La saldatura di tanti frammenti ideali, diversi e lontani tra di loro, in un’atmosfera di trasformazione, di crisi e di profondo smarrimento, favorì nei primi decenni del Novecento la crescita di una miscela esplosiva che si andava coagulando da vari lustri.
Non è inutile segnalare, per dare il senso dell’atmosfera che si respirava in quel tempo in Germania, l’indagine razziale proposta da Rudolf Virchow (1821-1902) e condotta a cura della Società antropologica tedesca sui bambini delle scuole per studiare le differenze tra gli scolari ebrei e cristiani. Su quasi sette milioni di scolari furono effettuate misure del cranio e furono schedati il colore dei capelli, della pelle e degli occhi e, solo dopo attento esame, gli scrupolosi esaminatori arrivarono a concludere che non esisteva in alcun modo la minima prova né di una razza tedesca né di una ebraica.
Il problema degli incroci razziali, nonostante gli esiti dell’indagine, non perdette la sua attualità né la sua importanza, anzi rimase sempre presente nell’inconscio collettivo dei tedeschi e all’attenzione della stampa. Del resto i pericoli politici impellenti e un senso di frustrazione collettiva favorivano anche la diffusione di idee scientificamente condannate.
Virchow, che pure si era mosso secondo una logica cara alle idee razziste, fu attaccato come amico degli ebrei e ancora di più la gente preferì credere al mito della razza visto che la scienza l’aveva delusa. Classi sociali in lotta tra di loro finirono per trovare in idee indistinte il loro collante sociale e si avvicinarono, sia pur senza averne coscienza, a un paganesimo strisciante e anticristiano. L’ariano fu sempre più visto come forza vitale e l’ebreo come incarnazione dello spirito del male. A rafforzare queste impressioni emozionali contribuirono in modo cospicuo Richard Wagner (1813-1883) e Houston Stewart Chamberlain (1855-1927), il primo con l’esaltazione esasperata della stirpe ariana, il secondo con l’auspicio a chiare lettere di una guerra razziale.
Ambiguo e rancoroso, Wagner detestava soprattutto gli ebrei suoi concorrenti in campo musicale, in particolare Meyerbeer e Mendelssohn-Bartholdy. Capiva bene che per realizzare le sue idee occorreva liberarsi delle origini ebraiche del cristianesimo e cercò di abbeverarsi alla fonte delle antiche leggende tedesche teso alla esaltazione dei miti della purezza del sangue. Cercò a tal fine di fondere la mistica razziale con la salvezza cristiana e le sue opere musicali diventarono la rappresentazione, neanche tanto subliminale, delle sue teorie: il Santo Graal, le leggende di Brunilde e Sigfrido diventarono ben presto patrimonio di una Germania sempre più in fuga verso rappresentazioni primordiali.
Fu proprio Chamberlain, che sposò una figlia del compositore, a fornire a posteriori una giustificazione filosofica delle sue idee: la sua ricerca appassionata dell’essenza germanica, la sua insistenza sugli stereotipi ariani, il suo desiderio di trasformare Cristo in un nuovo modello assolutamente ariano e completamente agiudaico lo portarono a identificare nell’ebreo il vero nemico metafisico da combattere strenuamente; gli ebrei erano il male e rappresentavano il diavolo, mentre i tedeschi erano i discendenti di un Cristo ariano ed erano il vero popolo eletto. Occorreva lottare contro la bastarda razza ebraica in nome e per conto della purezza tedesca.
Questo sintetico schema, che ha preso in considerazione lo sviluppo dell’idea razzista, va collocato all’interno del più vasto panorama della profonda trasformazione del nazionalismo in Europa dalla fine del XVIII agli inizi del XX secolo. Non c’è infatti alcun dubbio che soprattutto nell’Ottocento idee scientifiche, idee mitologiche e idee politiche abbiano finito per interagire e influenzarsi reciprocamente: il razzismo salì alla ribalta della politica attiva nello stesso momento in cui i popoli europei si stavano organizzando secondo i criteri dello Stato-nazione. La straordinaria forza persuasiva delle principali ideologie del nostro tempo non è accidentale e la persuasione non sarebbe stata possibile senza un richiamo a esperienze o a desideri popolari: l’idea etnico-razzista sia pur in modo mistificante crea quella parvenza di uguaglianza sociale e di emancipazione cui dopo la Rivoluzione francese i popoli avevano aspirato invano.
È opinione diffusa che molte nazioni abbiano origini antiche e nobilissime e questa ascendenza radicata nel tempo viene usata per dare lustro all’identità di oggi. In realtà non pochi degli attuali Stati nazionali europei risalgono appena al XIX secolo, quando l’Europa in modo faticoso definì i propri equilibri interni. Il nazionalismo etnico di cui si parla spesso fu rafforzato nella seconda metà dell’Ottocento, sul piano pratico, da massicce migrazioni e, sul piano teorico, proprio dall’affermazione prepotente dell’idea di razza che acquisì un ruolo centrale nell’ambito delle scienze sociali del secolo XIX. «I legami tra razzismo e nazionalismo» ha scritto Eric J. Hobsbawm «erano dati per scontati. “Razza” e “lingua” venivano facilmente confuse e scambiate come “ariani” e “semiti”, con grande indignazione di uno studioso serio come Max Müller che ribadiva come la “razza”, concetto di tipo genetico, non potesse comunque mai riferirsi alla lingua, che non è un elemento di tipo ereditario.»
Nei decenni a cavallo tra Ottocento e Novecento il coagularsi delle nazionalità fu favorito da alcuni elementi catalizzatori: la resistenza di gruppi tradizionali minacciati di scomparire dalle variazioni nella vita sociale a causa della modernità e dalla forza con cui si manifestava; la crescita all’interno del corpo sociale di nuove classi e nuovi strati; le migrazioni di massa che alimentarono la paura dello straniero.
Nel XX secolo il nazionalismo portò alla Prima guerra mondiale. Caddero di conseguenza i grandi Imperi dell’Europa centrale e orientale. Nei paesi sconfitti il razzismo riemergerà ancora più forte come matrice del totalitarismo e ben presto l’orizzonte europeo si popolerà di altri più temibili fantasmi.