XV

L’antisemitismo in Germania

L’idea di razza, nata dalla rivoluzione scientifica, finì per staccarsi dalla matrice originaria, si trasformò a contatto con le nuove visioni biologiche e, arricchendosi di aspirazioni mistiche, diventò la base di una nuova religione nazionale dai toni pagani.

Dopo la sconfitta nella Prima guerra mondiale e dopo la costituzione della Repubblica di Weimar si diffuse, anche a livello popolare, un complesso di idee definite come nazionalpatriottiche o völkisch, cioè legate al Volk. Questo vocabolo (letteralmente: «popolo») racchiudeva in sé il significato più pregnante di un «insieme di individui legati da un’essenza trascendente», che poteva essere la «natura», il «cosmo» o il «mito». Gli autori nazionalpatriottici ritenevano che l’animo del Volk fosse influenzato dalla natura, dal paesaggio. L’alienazione sociale di cui soffrivano i tedeschi nei primi decenni del XX secolo li aveva portati a cercare le proprie radici nel passato, a concepire la cultura come tradizione, come legame alla terra, rifiutando la civiltà moderna che veniva considerata piena di insidie e di pericoli. Alla esteriorità borghese i nazionalpatriottici contrapponevano le genuine aspirazioni del Volk tedesco. In questo quadro gli ebrei apparivano degli estranei, guardati con sospetto; erano considerati gente del deserto, abituati all’aria secca e quindi incapaci di profondità di pensiero, superficiali, mentre i tedeschi, figli delle foreste oscure e nebbiose, erano «coloro che aspiravano alla luce» (Lichtmenschen).

Tra il 1890 e il 1914 l’Europa visse un’atmosfera di tensione non più antiebraica, ma per la prima volta chiaramente antisemita: l’accusa del sangue si ripeteva con frequenza inusitata e i processi per accuse di omicidio rituale furono addirittura dodici, con enorme clamore in un’opinione pubblica europea sconcertata: l’ultimo caso risale al non lontano 1930. Alle antiche accuse di sapore teologico se ne erano sovrapposte di nuove, più aspre e più pericolose.

La teologia cristiana non aveva mai sostenuto la logica dello sterminio, anche se spesso le persecuzioni erano degenerate in gravi episodi di sangue. Il mondo cristiano aveva esasperato, con gli stereotipi di malvagità e di malafede, la logica dell’esclusione, ma aveva sempre offerto l’alternativa della conversione come possibilità estrema di redenzione e di salvezza dell’anima. L’antisemitismo, sintesi dell’antiebraismo secolare e di idee razziste recenti, non lasciava invece alle vittime dell’odio alcuna via d’uscita. Memori delle dure parole di Lutero, esaltati da una mistica nazionale che celebrava se stessa, i primi antisemiti del XX secolo non solo identificarono nell’ebreo un errante che mai avrebbe potuto integrarsi nel Volk tedesco, un eterno straniero che mai sarebbe riuscito a imparare nemmeno la lingua nazionale, ma in nome di immutabili e indiscutibili principi di razza cominciarono a combatterlo come simbolo di un male metafisico profondo.

Tra gli antisemiti intrisi di antico pregiudizio teologico cristiano e aperti a nuove accuse, va ricordato il canonico August Rohling. Il suo Talmudjude (1871), che ebbe notevole popolarità, prese in esame quella segreta teologia ebraica che era il fondamento dell’immoralità congenita degli ebrei. Quando a Tisza-Eszlàr fu celebrato un processo per un’accusa di omicidio rituale, Rohling si offerse come testimone per confermare che gli ebrei consideravano normale adoperare il sangue in occasioni rituali.

Karl Lueger, sindaco di Vienna tra il 1897 e il 1910, fu il primo a sfruttare l’antisemitismo per ottenere consensi politici ed elettorali: il suo programma comprendeva progetti di riforma sociale e anche un attacco agli ebrei sia di Vienna che di tutta l’Europa. Il suo partito, cristiano sociale, li considerava nemici politici che intessevano trame con i liberali, con gli atei, con i capitalisti, con i socialisti. È curioso che lo stesso Lueger non esitasse a circondarsi di amici ebrei al punto da pronunciare la celebre frase: «Sono io a decidere chi è ebreo». Edouard Drumont (1844-1917), autore di La France juive, lo ammirava molto, e Adolf Hitler, che non lo considerava un vero razzista, imparò da lui l’uso strumentale dell’odio verso gli ebrei.

In Francia, agli inizi del Novecento, il movimento antisemita riuscì a coniugare con efficacia il nazionalismo crescente con le esigenze di modernizzazione e di riforma sociale e politica diffuse nei primi decenni del secolo. Questa forma francese di nazionalsocialismo, proiettata verso l’unità nazionale, rifiutava il conflitto di classe, sosteneva, almeno teoricamente, l’integrazione dei diversi gruppi sociali e avversava sia il capitalismo liberale che il socialismo rivoluzionario. Esso apprezzava le idee di gerarchia e di controllo sociale, ma era ostile agli strumenti dell’economia capitalistica, come le banche e la borsa, considerate un’emanazione ebraica, simboli da abbattere. Agli occhi dei seguaci di Drumont gli ebrei erano tutti o dei Rothschild o dei Marx, o capitalisti o rivoluzionari, che puntavano con il loro desiderio sconfinato di potere alla conquista del mondo: erano dei nemici da distruggere. Che il denaro fosse lo zelante Dio di Israele non lo pensavano solo i nazionalsocialisti, ma anche gli utopisti socialisti, da Charles Fourier a Pierre-Joseph Proudhon.

Fu Drumont a invocare, dalle colonne del suo giornale «Libre parole», la rivolta delle masse contro gli ebrei, ad associarli ai massoni, a chiedere la confisca delle loro proprietà, a sostenere che gli ebrei erano riconoscibili dai segni del loro decadimento fisico, specchio di quello morale, a diffondere la calunnia del sangue in Francia e a fondare nel 1890 la Lega antisemita.

Dal 1881 al 1910 le stesse idee, con sfumature diverse da paese a paese, si diffusero in tutta Europa. In Russia le difficoltà politiche erano all’origine dei pogrom sempre più numerosi organizzati dal potere politico zarista; in Austria il movimento pangermanista di Georg von Schönerer, con toni e obiettivi simili a quelli di Drumont, lanciava lo slogan Los von Rom (Liberi da Roma), che esprimeva l’inimicizia contro la Chiesa romana, considerata un sostegno dell’Impero asburgico e quindi un nemico da combattere. Tra Drumont e Schönerer la differenza era una sola: il primo era ostile ai protestanti, il secondo ai cattolici, ma entrambi odiavano gli ebrei. Convinto razzista, Schönerer sosteneva che contro di loro fosse necessario applicare la regola del taglione e che il battesimo non servisse a nulla.

In Germania le dottrine elaborate da Eugen Dühring (1833-1921) nel libro La questione ebraica come problema di carattere razziale e il danno da essa arrecato all’esistenza, alla morale, alla cultura dei popoli (1880) si diffusero in molti ambienti e conquistarono numerosi adepti. La polemica non toccava solo gli ebrei, ma anche il cristianesimo, ritenuto un’invenzione ebraica per asservire il mondo. Dühring considerava la guerra razziale come un possibile sbocco di nuove prospettive politiche. Ma il suo feroce radicalismo lo emarginò e gli impedì di avere successo.

In un primo momento parve dunque che i sussulti nazionali e socialisti si affermassero più in Francia, terra del caso Dreyfus e dello scandalo finanziario di Panama, piuttosto che in altri paesi europei.

«La Prima guerra mondiale e le sue conseguenze» ha scritto George L. Mosse «rivitalizzarono il razzismo in tutte le sue forme sia nazionalsocialiste, conservatrici o semplicemente nazionaliste sia come scienza o mistero della razza. Tutto ciò non era prevedibile nel 1914 quando una relativa sicurezza e il benessere prevalevano tra le classi medie e quando le divisioni che avevano lacerato nazioni come la Francia sembravano essersi concluse in un compromesso.»

Le comunità ebraiche tedesche affrontarono lo sforzo bellico con la speranza che l’avvenuta emancipazione trovasse nei campi di battaglia una sanzione definitiva. Gli ebrei tedeschi che parteciparono alla mobilitazione furono 100.000, di cui 70.000 andarono al fronte, 12.000 morirono, 30.000 ottennero una medaglia al valore. Industriali potenti come Walther Rathenau, Franz Oppenheimer e Fritz Haber parteciparono con entusiasmo alla difesa della patria, ma tanto patriottismo non ebbe le conseguenze sperate. Dopo la sconfitta le accuse diventarono roventi: si parlò di scarsa partecipazione ebraica, del ruolo di alcuni pacifisti ebrei, di una presunta preferenza degli ebrei per le retrovie. Dopo la guerra i tedeschi avevano dovuto subire a Francoforte l’occupazione militare da parte delle truppe marocchine e senegalesi inviate dal governo francese e questo fatto era stato vissuto in modo traumatico dalla popolazione. Il timore di incroci razziali e di violenze alle donne della Renania aveva scatenato reazioni popolari estremamente aspre e questi episodi favorirono il risveglio di una coscienza razzista. In numerosi romanzi il motivo della donna tedesca preda o dell’ebreo o dell’uomo di colore diventò comune e queste fantasie ossessive favorirono la nascita di violenti pregiudizi. Lo scrittore Artur Dinter per esempio pubblicò nel 1918 un romanzo, Peccato contro il sangue, che racconta la storia di una donna tedesca bionda con occhi azzurri, razzialmente pura, sedotta da un ebreo. L’eroina riesce a sfuggire al seduttore e a sposare un ariano, ma i bimbi nati dal suo matrimonio hanno un aspetto tipicamente ebraico perché ormai i suoi caratteri ereditari sono irrimediabilmente compromessi dall’incontro di tanto tempo prima. Una simile storiella vendette centinaia di migliaia di copie e conquistò una popolarità enorme.

Se prima della guerra era parso che l’ideologia della razza fosse stata espulsa dalla cultura europea e relegata nelle colonie d’Oltremare, nel dopoguerra riemerse con rinnovato vigore. La violenza del conflitto europeo e della Rivoluzione russa avevano segnato le coscienze di moltitudini di uomini, alterato antichi equilibri e offerto le loro paure come nutrimento all’ideologia razzista.

Le sommosse rivoluzionarie che si verificarono nel 1918-1920 a Monaco, provocate da gruppi di estrema sinistra in cui gli ebrei erano ben rappresentati, favorirono la reazione della destra radicale. I rivoluzionari di Monaco non erano numerosi e furono sconfitti, ma il mito dell’ebreo legato al comunismo internazionale ne uscì rafforzato, anche se moltissimi ebrei erano decisamente conservatori. La diffusione di queste idee coincise con un momento cruciale della vita tedesca, in cui l’ansia nazionalista era acuta e l’opinione pubblica era alla ricerca di un capro espiatorio della sconfitta. Mentre nei paesi vincitori le tensioni che erano state forti nell’anteguerra si stemperarono alla luce della vittoria, in quelli sconfitti si diffuse uno stato d’animo di profondo malessere. Le tensioni militari, economiche e sociali sconvolsero la Germania, dove il Secondo Impero dovette lasciare spazio alla Repubblica; l’Austria, dove il crollo della monarchia fece nascere tanti piccoli Stati; la Russia, in cui al potere dello zar subentrò la Rivoluzione e il bolscevismo; e l’Italia, dove trionfò il fascismo. La caduta del regime zarista favorì l’emancipazione degli ebrei, ma ben presto le forze reazionarie furono contagiate dalla giudeofobia e tra il 1918 e il 1921 i Bianchi, nel corso della loro campagna controrivoluzionaria, cominciarono a perseguitare gli ebrei. Anche l’Ungheria aveva i suoi ricordi giudaico-bolscevichi: il breve regime di Béla Kun scatenò la reazione antisemita degli oppositori di destra, che ben presto ebbero partita vinta aprendo la strada alla reggenza di Horthy.

L’accusa paradossale agli ebrei di incarnare l’anima capitalista e l’anima socialista rivoluzionaria, nata come uno slogan, acquistò via via una consistenza inaspettata, diventò un vero mito moderno: il complotto demo-pluto-massonico-giudaico-bolscevico. Nel 1921 ebbe grande fortuna un romanzo di Fritz Halbach dal titolo Kamerad Levi: protagonisti erano un padre e un figlio, il primo finanziere, il secondo rivoluzionario, entrambi combattenti per il possesso del mondo; così padre e figlio potevano raccogliere l’odio dei rivoluzionari e dei capitalisti in uguale misura. Eppure, mentre le accuse si infittivano sulle prime pagine dei giornali, gran parte dell’intellettualità tedesca era costituita da ebrei, come Jacob Wassermann e Albert Einstein, Gustav Mahler e Arnold Schönberg, Edmund Husserl e Georg Simmel.

Il crollo militare aveva portato alla nascita della Repubblica di Weimar e il nuovo regime favorì la piena partecipazione degli ebrei alla vita politica, artistica e sociale suscitando gelosie e risentimenti soprattutto nella destra più radicale, che aveva fatto dell’antisemitismo una vera e propria arma politica. La Repubblica veniva definita «Juden Republik», una repubblica ebraica, dove la cultura ebraica faceva da padrona. In effetti, un avanguardismo audace aveva messo in difficoltà i valori tradizionali della cultura tedesca nel cinema, nel teatro, nella letteratura e nella musica. Uomini come Kraus a Vienna e Tucholsky a Berlino (che erano ebrei molto giudeofobi) dominavano la vita intellettuale e sottoponevano a feroce satira le certezze della società borghese. Simbolo della fusione ebraico-tedesca fu Walther Rathenau, erede di un grande gruppo industriale, che divenne ministro degli Esteri e fu subito considerato dalla destra eversiva come il simbolo dell’influenza ebraica su Weimar, anche se in realtà Rathenau aveva completamente assimilato la mentalità tedesca. Poco importava che l’illustre industriale avesse ottenuto notevoli successi in politica estera e che avesse avuto un ruolo importante, insieme ad Albert Ballin, nell’economia di guerra. Anzi, i suoi avversari gli rimproverarono di aver cercato di approfittare della situazione difficile in cui era caduta la Germania e di aver cercato di accrescere il suo potere. Rathenau fu assassinato nel giugno 1922; in quegli anni furono uccisi anche Rosa Luxemburg, Kurt Eisner, Gustav Landauer, esponenti di punta della sovversione ebraica marxista. Ancora una volta la destra radicale, che aveva ispirato la repressione e questi delitti, parlò di ebraismo internazionale collegato al comunismo rosso e sventolò la bandiera della purezza del sangue e della razza contro ogni contaminazione.

Alla fine degli anni Venti molte associazioni studentesche stabilirono che per essere ammessi al loro interno fosse necessario essere di razza ariana e chiesero che fosse istituito il numero chiuso per gli studenti ebrei. Gli ebrei diventarono così eccellenti capri espiatori per una Germania che aveva preferito credere nelle teorie del complotto anziché affrontare i problemi posti dalla realtà sociale. Il modernismo reazionario di cui Werner Sombart fu interprete trasformò le idee di categorie sociali in archetipi razziali e sviluppò una serie di stereotipi che in seguito avrebbero profondamente influenzato l’opinione pubblica: gli ebrei erano dispersi in tutti i paesi ed erano legati tra di loro; la loro esistenza di eterni stranieri li portava a contatto con realtà internazionali e non con l’animo völkisch del popolo tedesco; l’esclusione dalla piena cittadinanza li aveva spinti a occuparsi di economia e non di politica; la ricchezza ebraica era alla base del capitalismo moderno. Le affermazioni stereotipe di Sombart si concludevano con una nota involontariamente umoristica: «Il cristiano va in paradiso come ingegnere e l’ebreo come commesso viaggiatore o negoziante».

La paura dei tempi moderni si nutriva di antisemitismo, senza riuscire a comprendere che l’antisemitismo era un prodotto della modernità. Numerosi studiosi hanno messo a fuoco quel singolare fenomeno sociale che è stato descritto come la paura del nuovo e della civiltà: nell’Ottocento il contrasto tra vecchio e nuovo in campo sociale, tra le vecchie classi reazionarie che volevano conservare i loro privilegi e i ceti emergenti, liberali o socialisti, aveva causato turbamenti profondi e in Germania era sfociato in una contrapposizione tra natura e civiltà. I nazionalisti seguaci delle teorie del Volk avevano scelto la prima e consideravano gli ebrei come rappresentanti della seconda, favoriti non solo da un’emancipazione ogni giorno più completa, ma dalla loro capacità di adattarsi ai tempi nuovi.

«La distruzione su larga scala e praticamente indiscriminata della comunità europea, perpetrata principalmente dalla Germania nazista,» ha scritto Arno J. Mayer «non fu che la manifestazione ultima degli orrori e delle atrocità di un cinquantennio particolarmente violento e selvaggio della storia del mondo. Senza questo cataclisma la rovina che si abbatté sugli ebrei sarebbe stata storicamente impossibile. Per questo motivo non si può spiegare il recente sterminio degli ebrei senza far riferimento al singolare contesto storico in cui esso fu concepito e attuato.»

Negli anni Trenta i disordini antiebraici si estesero alle regioni orientali europee, in particolare alla Polonia e all’Unione Sovietica. Dopo il 1935 in Ungheria la controrivoluzione di Horthy portò al governo un partito della destra antisemita e in Polonia la dittatura militare favorì nuovi attacchi alle popolazioni ebraiche che costituivano una cospicua minoranza. Fu tuttavia la destra reazionaria che impedì a quella radicale di sovvertire l’ordine costituito e di commettere eccessi maggiori: né Horthy né il re di Romania né Ignaz Seipel in Austria né Pilsudski in Polonia erano razzisti, benché usassero spregiudicatamente gli slogan antisemiti come efficace arma politica, che permetteva loro di contare su un capro espiatorio a poco prezzo e a portata di mano. Essi volevano tenere gli ebrei fuori dal governo, ma non intendevano sottoporli a vessazioni particolari. Il rabbino Leo Baeck racconta di aver sperato che proprio queste forze reazionarie fossero costrette a intervenire anche in Germania per fermare l’ascesa della destra nazionalsocialista. Purtroppo il razzismo tedesco si era diffuso con tutta la sua carica di violenza nell’intera società e il colpo di Stato contro i nazisti non ci fu. Ormai gli stereotipi razzisti erano riusciti a penetrare in ambienti, in partiti, in strati sociali fino ad allora immuni: nel 1930 persino i socialdemocratici si mostrarono incerti se candidare degli ebrei alle elezioni e ci fu chi propose di valorizzare le teorie dell’ariano Engels, considerato più presentabile, piuttosto che quelle dell’ebreo Marx. Ben presto, nonostante queste preoccupazioni, tutta la sinistra fu definita indistintamente ebraica dalla destra. E la destra doveva cercare la propria identità in una condotta antiebraica e soprattutto antisemita.

Il conflitto mondiale e la rivoluzione favorirono la trasformazione delle idee razziste da esercitazioni teoriche e slogan di piazza in concreti atti discriminatori. Sopraffatti dalla crisi economica che colpì l’Europa e in particolare la Germania dopo il crollo di Wall Street del 1929, i deboli ed esautorati governi non furono più in grado di esercitare un controllo sociale che garantisse agli ebrei un minimo di protezione. La vita politica era diventata un coacervo di tensioni inespresse e una liturgia di massa copriva il vuoto di idee nelle assemblee e nelle adunate popolari. Miti e simboli si impossessarono sempre di più di un confronto politico che tendeva ad assumere tinte manichee e apocalittiche. Crisi economica e disoccupazione fecero precipitare la Germania nel caos esasperando le tendenze irrazionali presenti nei movimenti politici nazionalisti. Il desiderio di certezze, la voglia di idealizzare il passato e di trovare un capro espiatorio per i guai del presente spinsero i tedeschi ad accettare il nazionalsocialismo, nella convinzione che avrebbe potuto dare una risposta ai loro problemi.

Tuttavia quando Hitler prese il potere, il 30 gennaio 1933, nessuno avrebbe potuto prevedere che quello sarebbe stato l’inizio di un gigantesco assassinio di massa, sebbene qualche segnale fosse già riconoscibile. Ne ricordiamo alcuni: le canzoni studentesche degli estremisti grondavano di pugnali e di sangue ebraico e Joseph Goebbels aveva scritto, in un piccolo libretto di catechismo nazista del 1931, di non aver mai messo in dubbio che gli ebrei fossero esseri umani, ma anche la pulce è un animale e non per questo gli uomini la proteggono, ma anzi cercano di renderla innocua.

Nel 1933 il Mein Kampf vendette un milione e mezzo di copie ed è impensabile che i tedeschi non conoscessero le teorie hitleriane. Ossessionato dalla lettura de I Protocolli, il futuro dittatore aveva espresso con chiarezza gli obiettivi della propria azione politica: il punto centrale della sua visione del mondo era l’antisemitismo, che da elemento di risentimento diventava crociata. Dietrich Eckart, che fu suo amico e ispiratore, scrisse che Hitler era convinto che anche lo stesso cristianesimo fosse un elemento del complotto ebraico.

Quando presero il potere, i nazisti mantennero un margine di ambiguità, attaccarono l’ebreo internazionale ma come entità astratta, denunciarono complotti, ma si astennero dal mettere in pratica le farneticazioni che urlavano a gran voce. Molti tedeschi avevano maturato diffidenza nei confronti degli ebrei, soprattutto di quelli orientali, che vestivano in modo diverso e avevano tradizioni di cultura non tedesche, ma avevano anche amici ebrei che non consideravano esempi di malvagità: una cosa era denunciare il potente ebreo capitalista, un’altra prendersela con il negoziante della strada di fronte. Non tutti i nazisti, pur antisemiti, ritenevano che la questione ebraica dovesse essere risolta in modo cruento: Baldur von Schirach e sua moglie, esponenti di primo piano del regime, dopo una retata in Olanda protestarono per il modo con cui gli ebrei erano stati trattati; ma a poco a poco, con il rafforzarsi del regime, le voci di dissenso, già fievoli, sparirono del tutto.

William Sheridan Allen, che ha studiato la vita di Ortheim, una piccola città della Sassonia, negli anni precedenti all’avvento del nazismo, ha mostrato come nessuno pensava che le idee di Hitler potessero essere applicate agli ebrei del posto. Ma dopo pochi mesi di potere, le sue intenzioni si trasformarono in realtà: l’1 aprile 1933 decretò il boicottaggio di ogni attività economica degli ebrei. Lo slogan diffuso era: «Chi compra da loro è un traditore del popolo». Poco dopo, pur con qualche esenzione, gli ebrei furono esclusi da ogni impiego statale.

Un’altra data storica: il 10 maggio 1933 a mezzanotte, a Berlino e in molte altre città della Germania fu organizzata una cerimonia di stampo medievale, il rogo dei libri. Furono date alle fiamme opere di Einstein, Freud, Marx, Rathenau, Feuchtwanger, Wassermann, Schnitzler, Arnold e Stefan Zweig, Proust, ma anche di autori non ebrei invisi al regime, come i due fratelli Mann, Remarque, Gide, Zola, Jack London. Dalle gallerie d’arte furono tolti sedicimila dipinti e sculture, esempio di arte degenerata. Questi erano i segnali di una nuova atmosfera: grandi masse irrompevano sulla scena politica tedesca nella convinzione illusoria di essere protagoniste e partecipi di nuove battaglie, in una lotta che avrebbe dovuto riscattare le frustrazioni di ieri e di oggi. Il nazionalsocialismo inventò uno stile politico certamente molto diverso dal passato: nazionalizzò le proprie masse, le coinvolse facendo sì che ogni adunata, ogni corteo rivivessero, con una scenografia apocalittica, gli antichi miti e culti. Il nazismo creò una grande illusione, ma è difficile negare che essa sia stata anche una proiezione di sentimenti profondi e intensamente popolari, l’incarnazione delle aspirazioni di potenza di migliaia di uomini. La regia di quelle feste di massa colpiva i nuovi e i vecchi adepti, in un tripudio di folla che faceva da cornice a rappresentazioni, discorsi, cori, balli, bandiere al vento e fiamme sacre, mentre effetti di luce dominavano l’oscurità. Il giuramento pronunciato da tutti i presenti diventava una preghiera corale e un’abdicazione della personalità dell’individuo in nome di uno spietato gioco autoritario e totalitario.

«Il cerimoniale» ha scritto lo psicoanalista Erik Erikson «permette a un gruppo di comportarsi in un modo simbolicamente decorativo così da dare l’impressione di rivelare un universo ordinato; ogni particella acquista la sua identità mediante la semplice interdipendenza con le altre.»

Il nazionalsocialismo non si limitò a adoperare la propaganda scritta e parlata, ma sfruttò simboli, atteggiamenti, uniformi, parate militari, rituali politico-sociali: alla base di tutto si sviluppò un irrazionalismo che negava valore alla scienza, alla ragione e al progresso in nome di un ritorno a un passato idealizzato.

L’atteggiamento di Hitler nei confronti degli ebrei all’inizio non fu lineare o esplicito, o forse non venne correttamente interpretato. Tra coloro che non capirono vi fu certamente l’arcivescovo di Vienna Theodor Innitzer: nel 1933 si rallegrò perché «tornava a farsi sentire la voce del Volk germanico», ma tre anni dopo, spaventato da quanto stava accadendo, condannò senza riserve il razzismo che dilagava, anche se ciò non gli impedì di accogliere con entusiasmo l’Anschluss; ebbe nuove esitazioni solo quando si accorse che anche la Chiesa stava per essere minacciata.

Dopo il 1933 Julius Streicher, un gerarca del regime, scatenò una campagna propagandistica molto vasta e capillare: inondò la Germania di giornali e di libri antisemiti e lanciò la predizione che un giorno sarebbe stato necessario far scorrere del sangue. Quasi contemporaneamente il regime si sforzò di non suscitare troppi allarmi all’estero e iniziò così una politica del doppio binario. I più forti gruppi ebraici non furono infastiditi almeno nella prima fase: dal 1933 al 1939 l’emigrazione fu tollerata e incoraggiata tanto che centinaia di migliaia di persone abbandonarono i loro beni e la Germania. Alcuni rientreranno nel 1935 nell’illusione che la discriminazione antiebraica potesse essere solo un episodio destinato a spegnersi.

La prima legge razzista del 15 settembre 1935 venne emanata «per la protezione del sangue tedesco e dell’onore tedesco». Numerose le interdizioni: proibiti i matrimoni misti, i rapporti sessuali tra ebrei e non ebrei, proibito tenere a servizio donne di sangue tedesco di meno di quarantacinque anni e pene severissime contro ogni infrazione. Rimase per qualche tempo aperta la questione di chi fosse ebreo in una terra in cui sin dal Settecento vi erano stati numerosi matrimoni misti. La burocrazia tedesca definì ebreo chi aveva tre nonni ebrei, indipendentemente dalla religione praticata; chi aveva due nonni ebrei era ebreo se apparteneva a una comunità ebraica o aveva sposato un’ebrea. Chi aveva un solo bisnonno ebreo poteva chiamarsi orgogliosamente tedesco. Rimase aperta la questione dei Mischling, dei mezzo sangue, privi di legami con la religione: la loro sorte sarebbe stata oggetto di ulteriori riflessioni. Ci fu chi ancora sperò che fosse possibile tornare indietro, che ci fosse un colpo di Stato militare, che una legalità meno aleatoria potesse essere ripristinata.

«Oggi la Germania ci appartiene e domani ci apparterrà il mondo intero»: così cantavano le giovani SS marciando nelle strade delle città tedesche. La loro parola d’ordine era Blut und Boden (sangue e terra). Hitler seppe cavalcare il diffuso malessere, riunire aspirazioni confuse e trasformarle in parole d’ordine semplici, che ipnotizzarono milioni di persone. Le teorie pangermaniche e anticristiane favorirono uno slancio collettivo verso nuovi desideri di potenza: si formò una generazione di uomini disposti a obbedire a ogni ordine e a perdere la propria anima per una religione pagana che chiedeva sottomissione totale e assoluta in nome del mito della razza e del sangue. La tradizionale morale evangelica e la tradizione giudeocristiana dovevano essere cancellate. La radicalizzazione e la mobilitazione permanente della società diventarono le condizioni necessarie per l’esercizio del potere. Naturalmente perché queste idee potessero avere forza e coesione occorreva che esistesse un polo opposto: gli ebrei, l’antirazza, il simbolo di ogni male. Occorreva poi che il principio manicheo del bene e del male fosse prepotentemente alimentato: l’odio ossessivo per l’impuro poteva dare l’illusione di una purezza a portata di mano, anche se doveva essere ricercata attraverso incroci razziali pianificati tra uomini e donne.

La propaganda nazista inculcò nei cittadini l’idea che l’ebreo poteva contaminare ogni cosa solo con il contatto delle proprie mani e si arrivò all’assurdo di vietare ai tosacani tedeschi di tosare i cani degli ebrei. «Così un’atmosfera di sacro orrore» ha scritto Léon Poliakov «poté impregnare in diversa misura milioni di menti tedesche. Se una minoranza esecrava l’ebreo nutrendo verso di lui un odio omicida vi era una maggioranza, non fondamentalmente antisemita, che permetteva lo si uccidesse e vi prestava la mano perché lo vedeva oggetto di esecrazione. Essa aveva imparato a non guardare: si tratta del destino degli ebrei, non del nostro. Una vecchia sentinella a uno che confessava di essere ebreo rispose: “Ma perché me lo dici? Io al tuo posto sarei morto di vergogna”.»

È evidente che per arrivare allo sterminio sistematico e di massa occorreva formare negli esecutori una mentalità adatta a quel turpe lavoro, convincerli che coloro che dovevano essere sterminati non erano degni di vivere: non c’è dubbio che siano stati necessari condizionamenti psicologici profondi. Le SS e la Gestapo non furono i soli protagonisti dello sterminio: se non ci fosse stata una connivenza totale dell’esercito, della Wehrmacht, e in parte anche della popolazione, lo sterminio di milioni di civili, ebrei e non ebrei, non sarebbe stato possibile.

La bufera non arrivò improvvisa, i segni premonitori di un cambiamento non mancavano: i nazisti avevano preparato meticolosamente le liste degli ebrei tedeschi, i conservatori meno radicali venivano via via espulsi dal potere tra la fine del 1937 e l’inizio del 1938, mentre Himmler diventava capo delle SS. Nell’inverno del 1937 la persecuzione antisemita si inasprì; le autorità tedesche cercarono di provocare l’emigrazione coatta degli ebrei, ma l’operazione fallì perché molti non sapevano dove andare. Allora le autorità tentarono di espellere prima gli apolidi, poi gli ebrei polacchi che agli occhi dei tedeschi erano la vera immagine del giudaismo, mentre gli ebrei tedeschi assimilati venivano considerati una quinta colonna.

Il 28 marzo 1938 fu tolta alla minoranza ebraica la protezione legale: gli ebrei furono praticamente messi fuori legge. Nell’aprile fu imposta la denuncia obbligatoria dei beni posseduti, preludio alla confisca generale. Nei mesi successivi venne attribuito un nome a tutti gli ebrei: Israele per ogni uomo, Sara per ogni donna. La lotta contro il popolo di Israele fu collegata alla lotta contro la tubercolosi, che era una delle grandi preoccupazioni dell’epoca. Nell’ottobre del 1938 il giornale «Der Stürmer» di Streicher paragonò gli ebrei a dei microbi temibili: «Non bisogna tollerare i batteri, i parassiti e la peste. La pulizia e l’igiene ci obbligano a renderli inoffensivi e a sterminarli».

I sottouomini sono la giustificazione dei superuomini. Nella primavera del 1938 alcuni ebrei ed ebree furono aggrediti e costretti a spogliarsi nella pubblica via; i nazisti si divertivano a vederli correre nudi davanti alla folla che rideva. Volevano umiliarli, metterli in situazioni ridicole e degradanti, spingerli a compiere esercizi che li esponessero al ludibrio della gente. Simili divertimenti furono frequenti; i sadici si divertivano, gli altri si sentivano rassicurati di non appartenere a quella genia.

Nell’autunno dello stesso anno fu tolto ogni privilegio agli ex combattenti che in un primo momento avevano goduto di un trattamento di favore per meriti patriottici e verso la fine di ottobre sulle carte d’identità e sui passaporti fu impressa la scritta «Jude». Goering fece sapere che gli ebrei dovevano andarsene dalla Germania senza alcun bene; se fosse stato necessario sarebbero stati organizzati dei ghetti nelle grandi città. Ventimila ebrei apolidi di origine polacca furono arrestati per ordine di Himmler ed espulsi, ma il governo polacco rifiutò di accoglierli ed essi restarono per settimane nella terra di nessuno tra i due paesi.

Un giovane ebreo di diciassette anni, Herschel Grynszpan, i cui genitori erano tra gli espulsi, decise di protestare e nel novembre con due colpi di pistola uccise il consigliere dell’ambasciata tedesca a Parigi Ernst vom Rath. I nazisti, che si accingevano a celebrare il putsch del 9 novembre 1923, decisero di approfittare dell’avvenimento per dare una risposta adeguata. Fu l’inizio della famosa «notte dei cristalli».

Il gerarca Reinhard Heydrich inviò un messaggio urgente in cui annunciava che erano previste manifestazioni antisemite in tutto il Reich e impartiva le seguenti direttive: «Saranno adottate solamente quelle misure che non recheranno danno alla vita o ai beni dei tedeschi (per esempio bruciare sinagoghe sarà possibile solo nel caso che non ci sia pericolo che il fuoco si propaghi nelle zone circostanti); i negozi e le residenze degli ebrei possono essere distrutti, ma non saccheggiati. La polizia ha ricevuto l’ordine di controllare che questo avvenga come prescritto e di arrestare i saccheggiatori; si farà particolare attenzione nelle strade commerciali che non vengano danneggiati in nessun caso i negozi non gestiti da ebrei; gli stranieri non devono subire molestie neppure nel caso si tratti di ebrei. I commissari non devono opporsi alle manifestazioni, ma limitarsi a sorvegliare». Il testo proseguiva: «Appena gli avvenimenti della notte avranno reso disponibili gli ispettori di polizia, sarà opportuno trarre in arresto tanti ebrei di preferenza ricchi quanti possono esserne accolti nelle camere di sicurezza. In primo luogo dovranno essere arrestati ebrei di sesso maschile in buone condizioni fisiche e non troppo anziani. Dopo l’arresto sarà opportuno prendere contatti immediati con i campi di concentramento corrispondenti al fine di sistemare rapidamente questi ebrei».

L’operazione fu accuratamente preparata: Gestapo, SA, SS, SD, polizia criminale, sedi di partito e altre strutture dello Stato parteciparono alla gigantesca caccia all’uomo e la giornata di boicottaggio degenerò in violenze e saccheggi. I disordini si propagarono a macchia d’olio: tutte le sinagoghe e i negozi degli ebrei furono attaccati. polizia e SD avevano avuto istruzioni dettagliate, mentre alle SA non vennero impartiti ordini precisi per dar loro l’impressione di avere carta bianca. Del resto era buona norma non dare istruzioni specifiche quando il partito non voleva essere coinvolto e apparire come istigatore. Il corrispondente del «Daily Telegraph» riferì: «La legge della piazza ha dominato Berlino per tutto il pomeriggio e la serata, mentre orde di teppisti si abbandonavano a un’orgia di distruzione. Negli ultimi cinque anni ho assistito a parecchie esplosioni antisemite, ma mai disgustose come queste. Sembrava che isteria e odio razziale si fossero impadroniti di persone peraltro rispettabili. Ho visto signore vestite alla moda che battevano le mani e gridavano di gioia mentre rispettabili madri borghesi sollevavano i bambini perché vedessero la festa».

Il filosofo Karl Jaspers ha raccontato: «Nel novembre del 1938, quando le sinagoghe andavano in fiamme e per la prima volta gli ebrei vennero deportati, i generali erano presenti; in ogni città il comandante aveva la possibilità di intervenire. Nessuno mosse un dito».

I fanatici ebbero la possibilità di sfogarsi, poi il governo ristabilì l’ordine. Il giorno dopo Heydrich presentò a Goering il bilancio dell’operazione. A Buchenwald tra il 10 e il 13 novembre arrivarono 10.454 ebrei, accolti con sadismo, messi a dormire all’aperto, al freddo, percossi e torturati mentre un altoparlante scandiva: «Ogni ebreo che desideri impiccarsi è pregato di avere la cortesia di introdurre nella bocca un pezzo di carta con il proprio nome al fine di poter procedere all’identificazione».

Le cifre della devastazione furono comunicate ufficialmente qualche giorno dopo: oltre ottocento negozi distrutti, circa centosettanta abitazioni devastate, quasi duecento sinagoghe assalite e quasi ottanta distrutte dagli incendi. Gli ebrei arrestati erano circa ventimila, gli assassinati trentasei e altrettanti i feriti gravi. In realtà il numero dei morti e dei feriti, come si seppe in seguito, era diverso: i morti furono 236 di cui 43 donne e 13 bambini, oltre seicento subirono invalidità permanenti. Altre centinaia di vittime morirono nei mesi successivi nei campi di concentramento.

Fu una svolta: ormai in Germania era permesso uccidere impunemente. «In tutto, in conseguenza della notte dei cristalli» hanno scritto Anthony Read e David Fischer «morirono duemilacinquecento uomini, donne e bambini, la maggior parte di loro morì nel lungo periodo successivo al rilascio. Paragonato ai sei milioni del successivo Olocausto sembra un numero insignificante. Ma per i nazisti era solo l’inizio. E per il resto del mondo era un monito chiaro e visibile sulla malvagità di chi reggeva la Germania e di ciò che era capace di perpetrare.»

Alcuni settori del clero cattolico e protestante fecero sentire la loro protesta. Tra coloro che rifiutarono di prestare il giuramento di fedeltà a Hitler ci furono migliaia di preti, suore e laici. Ottocento furono arrestati nel 1937 e circa cento nel 1938. Il papato però non reagì, altre autorità religiose non aprirono bocca. Julius Streicher su «Der Stürmer» definì la crocifissione di Gesù come il primo caso di assassinio rituale ebraico e molti cristiani videro in quei sanguinosi pogrom antiebraici la prova della maledizione di Dio verso gli ebrei. Un canto delle SA aveva un ritornello che suonava così: «Camerati delle camicie brune, ebrei sulla forca e preti al muro». A Vienna, a Monaco e in altre città i nazisti accatastarono davanti alla cattedrale molto materiale da ardere: le fiamme non furono appiccate, ma la minaccia era esplicita.

Il 30 gennaio 1939 Hitler proclamò la necessità dell’annientamento: «Oggi voglio essere ancora una volta profeta: se il capitalismo ebraico internazionale in Europa e fuori di essa dovesse ancora una volta riuscire a gettare le nazioni in una guerra, allora il risultato sarà non la bolscevizzazione della terra, ma la distruzione della razza ebraica in Europa». La guerra scatenata dal dittatore tedesco sarebbe stata colpa degli ebrei che avrebbero pagato con l’annientamento.

La conferenza tenutasi dal 6 al 15 luglio 1939 a Evian, voluta dal presidente Roosevelt per indagare sulle possibilità di emigrazione degli ebrei dalla Germania, non portò a risultati concreti. Un giornale tedesco scrisse in prima pagina: «Ebrei a basso prezzo: chi li vuole?».

Che non si trattasse di un’esagerazione, lo avevano ben capito i 930 passeggeri ebrei della nave Saint Louis che nel maggio avevano lasciato la Germania poiché Cuba aveva concesso loro un visto di soggiorno. Nel corso del viaggio il governo dell’isola aveva cambiato idea e solo ventotto persone avevano potuto sbarcare a L’Avana. Dopo una lenta navigazione in vista delle coste americane della Florida essi furono costretti a dirigersi nuovamente verso l’Europa. Il «New York Times» scrisse che quella crociera era stata l’esempio della inumanità dell’uomo verso l’uomo. Alla fine la nave arrivò ad Anversa: 287 furono ammessi in Gran Bretagna, altri in Francia, Belgio, Paesi Bassi. Dopo il giugno 1940 molti finirono ad Auschwitz, vittime della ferocia dei nazisti e della indifferenza degli altri.

L’entrata delle truppe tedesche in Polonia l’1 settembre 1939 fu il segnale dello scoppio delle ostilità e tre milioni di ebrei finirono sotto il tallone della Germania nazista.

Quando Hitler impartì alle SS l’ordine di annientare e distruggere gli ebrei forse suscitò qualche sorpresa nelle stesse squadre speciali. Eppure le sue intenzioni erano già chiare: nel 1933 il programma di eugenetica aveva fatto significativi passi in avanti e l’idea che chi non era socialmente utile dovesse essere ucciso senza pietà liberando la società dai parassiti era già acquisita come normale dal popolo tedesco. Inoltre, nel 1939, i nazisti avevano cominciato a mettere in pratica il progetto che prevedeva la soppressione di individui affetti da malattie mentali e fisiche. Il «progetto eutanasia» portò alla morte settantamila persone e diffuse l’idea che si dovesse sterminare chiunque fosse considerato indegno, degenerato e socialmente improduttivo.

Queste idee non erano il frutto di fantasie estemporanee. Un avvocato e un medico, Karl Binding e Alfred Hoch, avevano scritto nel 1920 La rinuncia alla vita indegna affinché essa possa essere distrutta. Secondo le loro teorie mantenere chi non era utile alla società significava sprecare ricchezze di persone sane e produttive. Il loro punto di partenza era utilitaristico, ma ben presto fu inglobato in una visione più compiutamente razzista e l’eutanasia diventò un modo per liberare la società dai parassiti. Non è stata una coincidenza che il dittatore tedesco abbia dato ai medici ampi poteri di applicare il programma nazista proprio l’1 settembre del 1939: il decreto sull’eutanasia era un momento della lotta ariana e doveva essere collegato con lo scoppio della guerra, anche perché la guerra agli occhi suoi e dei suoi accoliti era una straordinaria occasione di rigenerazione della razza. Nel dicembre fu fatto un censimento in tutti i manicomi tedeschi e in seguito cominciarono le uccisioni dei pazienti irrecuperabili; nel 1940 una nuova inchiesta fu organizzata per vedere quanti pazienti fossero abili al lavoro e furono autorizzati a intervenire nelle selezioni medici non specialisti (e certo più compiacenti). Il vescovo di Monaco protestò contro questi provvedimenti nel 1941 esclamando: «Guai a noi quando saremo vecchi e deboli», ma invano. Un senso di insicurezza e di crudele bestialità si era impadronito della società tedesca.

Se da un lato il regime cercava di eliminare le imperfezioni della razza ariana con la soppressione fisica delle sue vittime, dall’altro cercò di migliorarne le caratteristiche e furono incoraggiate le nascite di figli razzialmente puri tra uomini e donne selezionati a questo scopo. Nell’operazione Lebensborn (Fonte di vita) furono applicate le stesse idee che avevano portato alla diffusione dell’eutanasia e furono eliminati senza pietà quei bimbi che non corrispondevano ai modelli ideali della razza pura. Considerati alla stregua di topi, gli ebrei, dopo handicappati e malati mentali, furono tutti condannati senza esitazione allo sterminio. I sinti e i rom, conosciuti comunemente come zingari, non furono invece trattati allo stesso modo: considerati nomadi primitivi e da alcuni punti di vista di razza pura, riuscirono in qualche caso a salvarsi, pure se alla fine della guerra anche tra queste popolazioni le vittime della follia razziale furono centinaia di migliaia; nessuno – disse Eichmann al processo di Gerusalemme – intervenne mai a loro favore. Gli omosessuali non avevano scampo: erano considerati dei depravati che meritavano la morte. I polacchi invece, secondo i programmi dei gerarchi nazisti, dovevano diventare un popolo di schiavi.

Il 21 settembre 1939 Heydrich comunicò alle SS le istruzioni per risolvere il problema ebraico in Polonia: tutti gli ebrei dovevano essere concentrati in città vicine alle strade ferrate o a nodi ferroviari e il trasferimento doveva essere motivato a causa della loro partecipazione ad azioni di sabotaggio e di saccheggio. A capo di questa riserva ebraica posta nella regione di Lublino dovevano essere messi dei Consigli (Judenräte), composti dalle personalità più rappresentative delle comunità ebraiche, che sarebbero stati completamente responsabili dell’esecuzione degli ordini emanati dalle autorità tedesche. I perseguitati furono prima isolati dagli altri polacchi e poi concentrati in ghetti e adibiti a lavori coatti in attesa della «evacuazione totale». Nel novembre 1939 fu creato il ghetto di Varsavia e nel febbraio 1940 quello di Łódz. Agli inizi del 1941 tre milioni di ebrei polacchi erano stati chiusi in ghetti sigillati. Chi veniva trovato all’esterno era condannato a morte.

Nel 1940 intanto la Germania aveva già sfondato anche a ovest: nei paesi occupati, Francia, Belgio, Olanda e Lussemburgo, vivevano seicentomila ebrei, difficili da riconoscere sia perché integrati nel tessuto sociale, sia perché diversi negli abiti da quelli orientali. Le autorità tedesche cercarono di stimolare la libera iniziativa degli alleati; il maresciallo Pétain tentò nel 1941 di conoscere l’opinione della Santa Sede a proposito dei provvedimenti di Vichy, ma l’ambasciatore francese inviò una relazione tranquillizzante.

Nel maggio 1941 tremilaseicento ebrei polacchi furono arrestati e internati; alle porte di Parigi fu istituito il campo di Drancy e nel marzo 1942 cominciarono le deportazioni verso est proprio in coincidenza con gli avvenimenti e le deportazioni ebraiche in Olanda, una nazione che il dittatore tedesco detestava particolarmente e il cui popolo egli aveva pensato di deportare in massa verso est.

In Germania, nell’autunno, la condizione degli ebrei, già precaria e al limite della sussistenza, cominciò ad aggravarsi ulteriormente: l’uso della stella gialla divenne obbligatorio in tutto il Reich dall’1 settembre 1941 e cominciarono le deportazioni sistematiche e lo sterminio. Alla fine della primavera precedente Goering aveva ordinato a Heydrich di iniziare il processo di «soluzione finale» (Endlösung).

La strage che si stava preparando in modo meticoloso era al di là di ogni immaginazione e ben pochi tra coloro che venivano perseguitati pensavano che si stesse realizzando un genocidio di massa. A est le vittime, isolate in zone coatte e ridotte alla fame e alla miseria, cercarono di resistere alla bufera organizzando la loro esistenza in attesa della fine della guerra e della sospirata salvezza.

L’invasione dell’Unione Sovietica provocò un salto qualitativo nelle dimensioni della persecuzione antiebraica e nelle sofferenze inflitte; nel periodo novembre-dicembre 1941 la programmata «soluzione finale» cominciò veramente. Lo stesso dittatore dall’ottobre, in coincidenza con l’avvio della campagna russa, aveva lanciato avvertimenti terribili e appena pochi giorni dopo a Buchenwald cominciarono i primi massacri di milleduecento persone con il gas di scappamento di alcuni camion. In dicembre la stessa tecnica fu adoperata a Chełmno.

I campi isolati dal resto del mondo diventarono regni del terrore dominati dalla paura e dalla corruzione; la deportazione verso est fu organizzata in modo da strappare ai deportati ogni residuo di dignità. Furono torturati e seviziati e la loro personalità fu violentata e cancellata con un sadismo organizzato e perverso.

Nell’organizzare i massacri i nazisti si resero conto che occorreva rendere impersonali le esecuzioni e che i plotoni d’esecuzione (Einsatzgruppen) non erano sufficienti per lo sterminio di massa. Dopo aver usato i gas di scarico dei camion pensarono alle docce a gas come avevano fatto nell’«operazione eutanasia».

La sconfitta tedesca davanti a Mosca e la difficile ritirata segnò un cambiamento nella storia del Terzo Reich e della Seconda guerra mondiale. L’accentuata radicalizzazione della politica antiebraica coincise con il fallimento della campagna orientale; le SS e la Wehrmacht, non potendo piegare l’Unione Sovietica, decisero di sfogare all’interno gli sforzi per distruggere il nemico indifeso che era nelle loro mani. In un primo momento gli stermini furono caotici, poi i nazisti cominciarono a creare un’organizzazione che definire scientifica sarebbe insultante per la scienza. Nell’autunno 1941 gli Einsatzgruppen avevano eliminato in cinque mesi oltre mezzo milione di persone.

La conferenza di Wannsee del 20 gennaio 1942 fissò le linee organizzative dello sterminio, della «soluzione finale», in tutta Europa. Nel marzo Goebbels annotò che la profezia di Hitler sulla punizione degli ebrei per aver istigato una nuova guerra mondiale cominciava a realizzarsi nel modo più edificante e ribadì ancora una volta che il Führer era il più impavido patrocinatore di una soluzione radicale.

Nell’estate 1942 le prime camere a gas entrarono in azione. La disumanizzazione del processo di assassinio fece un passo in avanti e maggiore fu il distacco tra vittime e carnefici: qualche SS buon padre di famiglia poteva continuare a guardare, come raccontano alcune testimonianze, la lunga fila di prigionieri che sapeva essere destinati alla morte e pensare alla propria famiglia e sentirsi una persona rispettabile e non un volgare assassino.

Emmanuel Ringelblum, che viveva nel ghetto di Varsavia, riuscì a salvare una sua testimonianza di quei giorni nascondendola sottoterra. Il diario fu poi stampato con il titolo Sepolti a Varsavia. Nel 1942 egli scrisse di essere convinto che i tedeschi si stessero accanendo contro gli ebrei con maggiore sadismo perché ormai si erano convinti di andare verso la disfatta, osservò che lo sterminio era diventato programmato e che solo il miracolo della fine della guerra poteva salvare gli ebrei. A metà di giugno Ringelblum venne a sapere che i treni che trasportavano vecchi e bambini in direzione di Bełżvec li portavano a morire in un campo di sterminio.

Himmler fece di tutto per mantenere il segreto sulle operazioni di sterminio, ma la dimensione di questo disegno non poteva restare nascosta: forse è proprio per dare una risposta a questa esigenza di segretezza che i treni piombati percorsero migliaia di chilometri prima di scaricare il carico umano che li conteneva.

La metastasi del sistema dei campi di sterminio si diffuse soprattutto nell’Est, ma in numerosi altri paesi europei moltitudini di uomini, donne e bambini furono assassinati senza pietà. Fu un disegno preciso che segna il massimo livello di disumanizzazione raggiunto, certo non a caso, dall’ideologia nazionalsocialista.

Oggi c’è chi tenta di negare la verità di quello che è accaduto. Se non negando ciò che è stato chi potrebbe, con un minimo di coraggio, sostenere ancora ideologie così terribili? Chi potrebbe senza pudore dire: vogliamo altri stermini? Gli stessi nazisti fecero di tutto per non lasciar trapelare simili efferatezze.

Alcuni campi erano stati creati solo per sterminare: Chełmno, Bełżec, Sobibór, Treblinka. Altri invece, come Auschwitz e Majanek, furono campi di sterminio e di lavoro e i treni che vi arrivarono senza interruzione fino alla fine della guerra non portavano solo deportati da uccidere, ma schiavi da destinare a un lavoro coatto che si sarebbe concluso con la morte. Fame, torture, brutalità, esperimenti pseudoscientifici decimarono quelli che avevano avuto la fortuna o la sfortuna di sopravvivere alle prime ignobili selezioni.

Il genocidio di milioni di ebrei nel cuore d’Europa fu un evento unico e terribile, ma può essere pensato solo nel drammatico quadro della Seconda guerra mondiale: tra molti milioni di vittime, solo il loro destino fu segnato fin dall’inizio.

Altre domande più propriamente politiche suscitano interrogativi angoscianti: perché chi sapeva non parlò? O non lo fece abbastanza forte? O non riuscì a farlo? Perché gli alleati non intervennero in modo più deciso? Perché le comunità ebraiche americane non fecero sentire una solidarietà ancora maggiore nei confronti dei profughi? Questi interrogativi potrebbero moltiplicarsi a dismisura.

«Perfino in tempo di guerra» ha scritto Vittorio E. Giuntella «quando ancora dai paesi dell’Europa orientale e dalla stessa Germania sarebbe stato possibile far partire gli ebrei, le stesse incredibili resistenze dei paesi occidentali annullarono praticamente per molti ebrei ogni possibilità di scampo al massacro. Il simbolo tragico di questa chiusura è il caso del piroscafo romeno Struma affondato nel Bosforo in circostanze misteriose con a bordo 70 bambini, 260 donne e 428 uomini, tutti ebrei… I turchi avevano negato ai profughi di lasciare la nave se prima non avessero ottenuto dagli inglesi il permesso di sbarcare in Palestina. I permessi, limitati ai 70 bambini, arrivarono al consolato di Istanbul quando lo Struma, obbligato a lasciare il porto nonostante fosse in avaria, era già affondato.»