Era una plumbea giornata della fine del mese di gennaio del 1910 quando la Senna uscì dagli argini e allagò numerosi quartieri di Parigi costringendo molti dei suoi abitanti a una evacuazione improvvisa e forzata.
La catastrofe, causata da eventi meteorologici imprevedibili, fu del tutto naturale, ma ben presto ci fu chi cercò di individuare possibili colpevoli.
Tra gli sfollati, costretto ad abbandonare il suo appartamento nel VII arrondissement, c’era Edouard Drumont, il giornalista autore del già citato pamphlet La France juive (1886), che, da venticinque anni, era promotore di una accanita campagna antisemita e che anche questa volta non aveva dubbi: «Il responsabile era l’ebreo, sempre l’ebreo, ancora l’ebreo».
La colpa dell’inondazione era il frutto malvagio dei disboscamenti messi in atto a opera di ebrei, nelle terre a monte. Le acque, non più trattenute, avevano provocato il disastro.
«I “tagli rasi” delle foreste francesi, segnalati ovunque,» disse Drumont «non furono altro che un nuovo “segno della fine” che andava ad aggiungersi a tutti gli altri sintomi di decomposizione che abbiamo avuto occasione di osservare da venti o trent’anni.»
Eletto deputato ad Algeri nel 1898, Drumont a molti poteva sembrare un tipo un poco fissato nella sua giudeofobia paranoica, magari un individuo folcloristico, ma la sua popolarità era diffusa, il suo giornale «Libre parole», che si compiaceva di descrivere con toni commossi la miseria delle classi lavoratrici, vendeva parecchie copie annoverando, tra i suoi lettori, molti operai e contadini.
Ne La France juive, che ebbe numerose riedizioni nel corso dei decenni successivi (centoquattordici edizioni in un anno) e vendette secondo alcune stime più di un milione di copie, Drumont, cavalcando la prima ondata politica di antisemitismo in Francia alla fine degli anni Ottanta, mostrò di sapere bene interpretare lo stato d’animo di un paese che, se da un lato viveva all’apogeo della sua civiltà e credeva ciecamente nel progresso, dall’altro, di fronte a una modernità composita e incalzante, provava un senso inconfessato, ma non per questo meno profondo, di ansietà. Nutrita di occultismo e di diffidenze, la degenerazione del paese, la sua decadenza, la decomposizione della sua purezza apparivano come una visione minacciosa all’orizzonte capace di travolgere tutto e tutti.
Che l’apocalisse fosse dietro l’angolo, fosse essa frutto di fantasia paranoica o conseguenza di una situazione ben reale, appare evidente non tanto dagli allagamenti provocati dalla Senna, e dalle reazioni che suscitarono, quanto piuttosto dalla tragedia dell’incendio, nel maggio 1897, del Bazar de la Charité, vissuto e interpretato in un modo che merita di essere descritto, sia pur sinteticamente.
Il Bazar, costruito interamente in legno, era una istituzione filantropica e mondana ben nota in tutta Parigi e in primavera offriva al Tout Paris l’occasione di un incontro memorabile ed elegante. La sua distruzione con il fuoco fu in un primo momento un disastro memorabile che aveva provocato la morte di 121 persone di cui 116 donne, poi acquistò sempre più connotazioni poetiche, letterarie, simboliche e, addirittura, metafisiche, mettendo inaspettatamente a nudo realtà profonde nutrite di una fantasia popolare impregnata di necrofilia e di feticismo. Qualcuno ricordò che non c’era da stupirsi per quanto era accaduto e che l’incendio era stato previsto da una celebre veggente esperta di scienze occulte.
«La Morte» commentò Drumont «ha scelto le teste più carine e più nobili.»
Sui giornali popolari e borghesi apparvero cronache in cui si faceva a gara nel riferire i particolari, capaci di far rabbrividire i lettori, sui cadaveri calcinati, bruciati e storpiati dal fuoco. Ci fu anche chi sottolineò che molte donne erano morte per la prepotenza degli uomini che avevano cercato di salvarsi a ogni costo travolgendole e ci fu chi colse l’occasione e chiese alle donne di rinunciare a un ruolo che non competeva loro e che aveva causato la tragedia come punizione per una condotta non esemplare. Qualcun altro non ebbe dubbi e puntò diritto allo scopo: l’incendio era scoppiato e aveva avuto così terribili conseguenze perché Dio aveva voluto lanciare un segnale. La Francia stava perdendo, a causa degli ebrei e dei franco-massoni, le sue tradizioni più autentiche ed era così stata punita nel suo orgoglio.
Le reazioni a queste ardite affermazioni furono numerose e al dibattito parteciparono molti giornali, molte riviste.
«Non c’è remissione senza spargimento di sangue,» scriveva il giornale «La Croix» il 7 maggio 1897 «e se la fondazione della Chiesa è stata suggellata dal sangue di tre milioni di martiri eletti andati in corteo dietro il Crocifisso, perché lo ristabilimento di una vita più cristiana nella nostra Francia non dovrebbe essere annunciato da questo rogo, in cui i gigli della purezza sono stati mescolati alle rose della carità?»
Inutile dire, lo ha ben sottolineato Michel Winock, che questa interpretazione cattolica, che considerava l’avvenimento come un sacrificio necessario alla ricristianizzazione della Francia, fu rigettata con veemenza dalla stampa repubblicana, radicale e socialista.
Il dibattito, in ogni caso, restava aperto e anche in questo caso Drumont si lasciò andare a un antisemitismo delirante.
L’occasione fu davvero singolare.
All’origine vi fu la sottoscrizione, organizzata da «Le Figaro», per raccogliere del denaro da destinare ai soccorsi delle vittime e un anonimo donatore offrì un milione di franchi suscitando curiosità e scalpore. «Le Figaro», credendo di far bene, raccontò che l’autrice del gesto era stata la baronessa Hirsch. Non passò molto tempo e ci fu chi sottolineò che la nobildonna aveva il difetto di essere ebrea.
Intervenne, allora, sulle colonne de «L’Aurore», Paul de Cassagnac che, in sintesi, sostenne la tesi: Trop des Juifs, «troppi ebrei». A suo dire gli ebrei non erano più generosi dei cristiani; semplicemente avevano più soldi. Deprecabile che «Le Figaro» avesse cercato di mettere in bella mostra gli ebrei. «Libre parole» rincarò la dose: cinica l’ostentazione della ricchezza da parte della plutocrazia giudaica.
Drumont, ancora una volta, non perdeva l’occasione per perseguire il suo scopo: espellere gli ebrei dalla Francia nella convinzione che solo così sarebbe stato possibile instaurare una autentica giustizia sociale perché le proprietà ebraiche sarebbero state confiscate e ridistribuite ai veri francesi. Convinto che gli ebrei fossero i veri padroni della Francia, pensava infatti che la loro cacciata avrebbe potuto risolvere, con una rapina di massa, ogni problema sociale.
Come si può intuire Drumont giocava la sua partita su più tavoli: ai cattolici lasciava intendere che l’incendio del Bazar era un segno premonitore, alle classi popolari invece prometteva una nuova prosperità se ebrei, ma anche massoni e protestanti, fossero stati espulsi dalla vita francese. In realtà, pur cercando alleati in ogni campo, disprezzava il clero cattolico che gli pareva debole e al soldo degli ebrei, né si identificava nelle classi più umili che erano solo utili alla sua propaganda.
Ossessionato dall’angoscia e dalle sue fobie che gli impedivano una valutazione corretta della realtà politica, Drumont detestava la modernità, temeva il cambiamento causato dalle industrie e dalle nuove aree urbane che si stavano sviluppando. Considerato uno dei più brillanti esponenti tra i divulgatori di quella corrente di pensiero che vedeva in ogni dove complotti diabolici organizzati dagli ebrei, egli sapeva sfruttare i pregiudizi della tradizione antigiudaica cristiana, approfittava della giudeofobia socialista e anticapitalista, manipolava la moderna antropologia e le sue tesi razziste, e, sfruttando parole e concetti frutto della nuova scienza (microbo, malattia), adoperava metafore semplificate che, a onta delle sue molte e vistose contraddizioni, gli permettevano di esaltare le ossessioni e le paure latenti nella società francese. Usando argomenti semplici e parole d’ordine efficaci e brevi, descriveva il malvagio ebreo con tratti caricaturali mettendone in luce i segni del decadimento fisico e morale: prima il naso adunco, lo sguardo sfuggente, le orecchie sporgenti, il corpo allampanato e le mani umidicce, poi la malvagità della sua anima, quella di «un beduino capace di dar fuoco a una città per bollirsi un uovo». Parlando di decadenza, probabilmente egli sapeva bene di manipolare un concetto sfuggente e incerto, carico di ambiguità, nutrito di odio del presente e di nostalgia dell’età dell’oro, ma intuiva che i suoi ascoltatori erano pronti ad accettare quella sua proposta di identità nazionale che si nutriva di buoni sentimenti, di conservatorismo, di nostalgia del sacro e che favoriva non l’individuo, bensì il gruppo. Degli ebrei Drumont non attaccava la religione o i riti, ma il loro posto razziale all’interno della società, la loro mancanza presunta di moralità, la loro sete di potere.
L’idea della razza, emersa esplicitamente con grande vigore negli ultimi due decenni dell’Ottocento, aveva una conseguenza sottaciuta, ma evidente: gli ebrei che avrebbero potuto esserlo per motivi religiosi o culturali, non erano assimilabili per motivi biologici. Inoltre dovevano essere considerati particolarmente temibili perché perseguivano lo scopo di controllare il mondo cercando di mettere in atto un complotto e una cospirazione internazionale fondati sul dominio dell’economia e dell’informazione. Lo stesso Charles Maurras, teorico del «nazionalismo integrale», che era personalmente ostile alla teoria delle razze, lo ha messo bene in evidenza Pierre-André Taguieff, avrebbe riconosciuto l’importanza per l’Action Française dell’esperimento di Drumont: «La reazione antisemita costituisce uno dei punti di partenza essenziali… tutto sembrerebbe impossibile o terribilmente difficile senza questa provvidenza dell’antisemitismo. Grazie a ciò tutto si accomoda, si appiana e si semplifica».
Ne La France juive devant l’opinion publique, stampato qualche mese dopo La France juive, lo stesso Drumont ribadì che «l’antisemitismo non è una questione religiosa» e che «la questione antisemita è sempre stata ciò che è oggi, una questione economica e di razza».
La sua propaganda registrò il momento di maggiore successo agli inizi del 1903 quando il sindacato chiamato Les jaunes, forte di 100.000 iscritti, finì sotto il suo controllo diretto. Fu questo l’unico caso in cui la destra riuscì in quegli anni in Europa a ottenere un risultato così rilevante e che poteva considerarsi come il coronamento di un lungo processo sviluppatosi negli ultimi trent’anni dell’Ottocento in coincidenza con numerosi fallimenti economici e borsistici e con il diffondersi di un senso di sfiducia e di precarietà crescente.
In Germania e in Austria era stato proprio il crollo delle quotazioni di borsa nel 1873 che aveva spinto Adolf Stoecker ad attaccare gli ebrei e Eugen Düring a scrivere un libro che sarebbe diventato celebre, La question juive, question de race, de moeurs et de culture. Appena qualche anno dopo, nel corso degli anni Ottanta, si registrò in Francia la prima ondata antisemita favorita dal crac dell’Union Générale, una banca cattolica considerata vittima di una banca ebraica. A seguito della enciclica Humanum genus dell’aprile 1884, che condannava la franco-massoneria, il quotidiano cattolico «La Croix» intensificò una campagna lunga e sistematica, che era già iniziata l’anno prima, contro l’invasione ebraica: l’ebreo emancipato veniva considerato come l’ispiratore occulto degli avvenimenti del 1789 culminati con la Rivoluzione e con la distruzione delle vecchie istituzioni.
L’ebreo era l’unico che aveva goduto dei benefici della Rivoluzione: «Tutto viene dall’ebreo, tutto torna all’ebreo».
Le paure e le angosce cui si affidavano alcuni ambienti politici francesi lasciavano scaturire antiche radici popolari intrise di occultismo e di sospetti su immaginari complotti e cospirazioni. L’abate Augustin de Barruel scrisse, nel suo Mémoire pour servir à l’histoire du jacobinisme, di aver ricevuto una lettera di un certo Simonini in cui si affermava che i veri colpevoli, nascosti dietro i franco-massoni e gli illuministi, fautori della Rivoluzione, erano gli ebrei. Simonini sosteneva, anche lui, che gli ebrei volevano impadronirsi del mondo e sulla sua scia molti altri imitatori mescolarono l’antigiudaismo cristiano con l’antiliberalismo conservatore. Tra questi Gougenot des Mousseaux, che divenne noto per le tesi del suo libro Le juif, le judaïsme et la judaïsation des peuples chrétiens dove analizzò, meritandosi il plauso di Pio IX, soprattutto la lotta tra la Chiesa, da una parte, e gli ebrei e i massoni, dall’altra.
Molti eventi internazionali contribuirono in quegli anni a creare le condizioni, in Francia, ma anche in altri luoghi d’Europa, per una radicalizzazione della giudeofobia: la guerra del 1870-1871, la presa di Roma, la Terza Repubblica.
«Civiltà cattolica», una delle riviste più autorevoli e molto vicina alla Santa Sede, manifestò a più riprese i propri timori per la minaccia di un complotto giudeo-massonico e in Francia si arrivò alla equazione esplicita tra Repubblica, franco-massoneria ed ebraismo.
Il divorzio – questa la tesi di Drumont – è una idea ebraica, la cremazione dei morti anche, nel tentativo di «impedire persino i nostri bei funerali», e l’insegnamento laico doveva essere considerato alla stregua della profanazione delle immagini messa in atto dagli ebrei nel Medioevo.
«Quel che si adora nel ghetto non è il dio di Mosè, è l’orribile Moloch fenicio al quale necessitano, come vittime umane, dei bambini, delle vergini.»
Era la Francia onesta, laboriosa, contadina che era caduta nelle mani di tanti Rothschild pronti a usarle violenza.
Con La France juive, stampata nella prima edizione del 1886 in due volumi di ben 1200 pagine, Drumont, da oscuro giornalista, divenne poco dopo una celebrità.
Pur senza raccontare nulla di veramente nuovo in questo suo pamphlet l’autore attaccava l’Ebreo moderno ormai non riconoscibile e lo denunciava come se egli volesse mascherarsi. Se la Rivoluzione aveva emancipato gli ebrei, ebbene essa non poteva che essere opera degli ebrei e quanto alla franco-massoneria essa era solo una setta ebraica: una tesi semplice a cui tutti potevano dar fiducia.
Come ha scritto Pierre-André Taguieff «è soltanto per indicare questa “sintesi” ideologica del razzismo biologico e della visione del complotto giudaico contro la “vecchia Francia” che si può, in senso stretto, utilizzare la parola “antisemitismo” in questa prospettiva, e a queste condizioni l’“antisemitismo” indica il razzismo che mira specificamente agli ebrei come popolo-nazione, razza o, più tardi, etnia. E li individua in modo negativo e demonizzante: come individui di un antipopolo, di una nazione straniera a tutte le nazioni, di una razza nemica di tutte le altre razze, una pseudorazza dotata dello statuto di controrazza, etnia pericolosa per tutte le altre etnie.»
L’ebreo diventa quindi il nemico assoluto, l’estraneo assoluto, il pericolo permanente, il negativo invisibile; la sua segregazione, la sua assimilazione, la sua conversione non bastano più e infatti le soluzione proposte, alla luce del delirio imperante, diventano o l’espulsione o lo sterminio.
«Tutta la Francia» scrisse Drumont «seguirà il capo, il quale sarà un giustiziere che invece di colpire gli sventurati lavoratori francesi, come gli uomini del 1871, colpirà gli ebrei ricchi sfondati e dirà ai poveri raccolti attorno a questa Miniera d’oro sfuggente che è il Semita nababbo: “Se vi occorre, prendete!”»
Padre Olivier, nel sermone pronunciato il 7 maggio 1897 nella chiesa di Notre-Dame davanti alle più alte autorità dello Stato, e tra queste il presidente della repubblica Félix Faure, in occasione dei funerali delle vittime dell’incendio del Bazar de la Charité, aveva sottolineato con forza che quell’avvenimento doveva essere interpretato come un avvertimento di Dio, che aveva voluto dare «una lezione terribile all’orgoglio di questo secolo, in cui l’uomo parla senza sosta del suo trionfo contro Dio».
Le forze laiche e repubblicane reagirono duramente, ma anche in campo cattolico si registrò qualche dissenso con le parole del domenicano. Per esempio Léon Bloy considerò l’accaduto come segno della condanna da parte della Chiesa del denaro.
Può forse stupire, lo ha ben sottolineato Ralph Schor, che quegli anni non fossero così razionali come ci si sarebbe potuto aspettare, ma le passioni e le paure si mostravano più forti di qualsiasi ragionamento.
L’antisemitismo, come un fuoco che covava sotto la cenere, pareva a molti una risposta ai problemi della decadenza francese, di un mondo cioè che viveva in condizioni di discreto benessere, ma che mostrava scricchiolii sinistri.
Il razzismo che ora stava condizionando la vita del paese era un fenomeno che si era sviluppato piuttosto lentamente grazie a una serie di «dottrine alla francese», come ha ben notato Taguieff, e quasi due secoli erano stati necessari perché si trasformasse in arma politica e in virulento antisemitismo.
Fu Jean-Baptiste de Lamarck che sottolineò l’influenza dei fattori ambientali capaci di determinare il carattere e la mutazione di ciascuna specie tanto che nessuna razza poteva restare immutata nelle sue particolarità: nulla, quindi, di interiore o di mistico in questo concetto.
Georges-Louis Buffon, da parte sua, nella Storia naturale dell’uomo, pur riconoscendo importanza alle teorie ambientali e collegandosi all’Illuminismo della seconda metà del Settecento, cominciava a risentire della necessità di non rifiutare gli aspetti spirituali della natura umana.
Per restare in Francia il conte Arthur de Gobineau, più che un pensatore originale, fu un abile tessitore di una trama che, traendo spunto da discipline differenti e tra queste antropologia e linguistica, dette vita a una costruzione in cui l’idea di razza si rivelò fondante perché permetteva di spiegare gli avvenimenti del passato, del presente e del futuro. Nel suo famoso Saggio sull’ineguaglianza delle razze umane (1853-1855) descrisse la propria visione del mondo, e del razzismo in particolare, utilizzando tutte quelle conoscenze scientifiche che erano disponibili. Il suo conservatorismo scaturiva dal timore che le masse potessero prendere il sopravvento e che la Francia più tradizionale, quella dei nobili e dei contadini, potesse essere travolta; del resto il colpo di Stato di Napoleone III del ’51 poteva essere interpretato in questo modo. Pur attribuendo all’idea di razza una grande importanza e ricalcando le idee dei suoi predecessori, egli dava molto peso alle caratteristiche linguistiche piuttosto che ai tratti fisici (alle misure del cranio, per esempio) e riteneva che, per capire quale potesse essere il ruolo svolto da ciascuna razza, bisognasse analizzare la sua struttura sociale e la sua cultura.
«L’importanza di Gobineau» ha scritto George L. Mosse «consiste non solo nell’aver fatto della razza la chiave della storia del mondo, ma anche nell’aver introdotto il concetto che l’osservazione delle razze straniere può essere d’aiuto a spiegare le frustrazioni del proprio paese; la Francia stessa era un microcosmo di pericoli razziali; la teoria dell’ambiente era respinta perché era possibile trovare sulla soglia della propria casa comportamenti tipici della razza gialla o nera.»
Incarnando le virtù della nobiltà, la razza bianca (detta anche ariana) poteva essere considerata la rappresentante delle virtù della terra francese, ma con il tempo, poiché la borghesia aveva corrotto la nobiltà, non era riuscita a restare pura, né del resto il mantenimento della purezza originaria sarebbe stato possibile per nessuna razza perché il mescolamento e la conseguente degenerazione dovevano essere considerati inevitabili: l’ascesa e la caduta di una civiltà erano il risultato di un vero dramma razziale. Gobineau non era un antisemita. A suo dire gli ebrei, malgrado fossero usciti da un miserabile angolo della terra, avevano mostrato che le condizioni ambientali non erano state determinanti: erano stati un popolo libero, di contadini e di guerrieri, e riuscivano nei loro intenti a raggiungere le mete che si prefiggevano. Naturalmente, come tutte le razze, avevano subito un declino frutto degli incroci razziali che li avevano indeboliti e degenerati.
L’amicizia con Richard Wagner rese le idee di Gobineau molto popolari, ma la Lega Pangermanica, che si impossessò delle sue idee e le diffuse, seppe anche distorcerle a proprio uso e consumo trasformando la condanna dei neri, che il conte francese aveva caldeggiato, in una condanna verso gli ebrei. L’opera di Gobineau, distribuita in Germania durante la Prima guerra mondiale in modo capillare, diventò il testo che riaffermava la superiorità ariana in salsa tedesca.
In patria Gobineau non ebbe la stessa popolarità perché l’Action Française fondata nel 1899 restava profondamente cattolica, legata al nazionalismo e alla unità nazionale piuttosto che a un astratto razzismo internazionale.
Il più importante teorico della razza in Francia fu, a cavallo tra XIX e XX secolo, Georges Vacher de Lapouge, seguace di Darwin, apocalittico come Gobineau, convinto che la degenerazione della razza fosse il male estremo da cui rifuggire e che da ciò scaturisse il predominio della plutocrazia. Nella sua opera L’aryen, son rôle social relegava la nazione a un ruolo minore e identificava l’uomo europeo come razza superiore. Influenzato da Lavater e dalla fisiognomica, considerò che i più puri fossero i biondi e, convinto darwinista sociale, ritenne il mondo industriale una espressione e una applicazione della concezione secondo cui il progresso era il frutto della selezione e della lotta per l’esistenza. Per questo l’ariano era uno straordinario lavoratore.
«Antisemita straordinario», secondo la definizione di Louis-Ferdinand Céline, Vacher de Lapouge era un socialista nemico del liberalismo che aveva assorbito le idee di antisemiti socialisti quali Charles Fourier (1772-1837), Alphonse Toussenel (1803-1885), Pierre-Joseph Proudhon (1809-1865), tutti guarda caso di origine contadina e istintivamente ostili al cosiddetto nomadismo ebraico.
Chi era il nemico razziale? «Secondo l’opinione di de Lapouge» ha scritto George L. Mosse «razze inferiori, come quella gialla e gli ebrei, non avevano scrupoli, né senso dei valori, essendo interamente votati al commercio. La borghesia, nella analogia razziale di de Lapouge, sembra ancora una volta rappresentare il nemico, ma, a questo punto, egli faceva una distinzione che costituisce un elemento essenziale del pensiero razzista; la società commerciale ariana vive di lavoro onesto, gli ariani hanno a cuore i valori e li rispettano, pur nelle loro attività speculative, mentre l’ebreo ama la speculazione per se stessa. Questa fatale distinzione tra la borghesia ariana e quella ebraica è presente perciò in Francia come in Germania, e la classe media ariana può sopravvivere solo annientando la borghesia ebraica.»
Razza inferiore, privi di spiritualità e di scrupoli morali, di onore e di forza, incapaci di combattere, privi di qualsiasi istinto politico, gli ebrei erano considerati, in quanto razza inferiore, perdenti, mentre gli ariani, che governavano con il loro esempio, essendo superiori, non avrebbero mai potuto essere sconfitti. Questo non significava affatto che la Francia non corresse pericoli, perché sull’albero della razza ariana c’era una muffa, che però si poteva e si doveva eliminare. Le colpe non erano solo e principalmente degli ebrei, ma anche dei cattolici deboli e parassiti che non parevano disponibili alla lotta. Solo l’assimilazione completa degli ebrei avrebbe potuto cancellare qualsiasi male ereditario e qualsiasi degenerazione fisica.
Ne Les sélections sociales (1896) de Lapouge sostenne, tuttavia, una tesi più radicale e cioè che il métissage avrebbe favorito pericolose contaminazioni razziali e che, per interrompere simili danni, sarebbe stata necessaria l’eutanasia. La sua visione del mondo era conservatrice e antimodernista: l’urbanesimo, la plutocrazia, nutriti di cupidigia, erano espressione della degenerazione ebraica, mentre il genio ariano autentico e contadino veniva sconfitto e il suo onesto lavoro schiacciato.
Alla fine del XIX secolo la dualità ariano-semita era diventata un concetto diffuso, una chiave conoscitiva per l’intero mondo. Considerata, a torto, degna di dignità scientifica, l’idea di razza, circonfusa di paura, si era trasformata in una cerniera capace di tenere insieme un antico antigiudaismo cristiano e un moderno antiliberalismo economico. Con un unico denominatore comune: la paura.
La lingua ebraica, poco comprensibile, suscitava timore. L’ebreo assimilato e indistinguibile suscitava timore. Quello che invece era distinguibile per la foggia dei suoi abiti e per il suo accento straniero suscitava ribrezzo perché era povero e puzzava.
Interprete acuto di queste sensazioni irrazionali, Drumont, capace di coniare parole semplici e univoche, scriveva ne La France juive: «Siamo rinchiusi nel mistero e il mistero ci controlla». La vittoria dei repubblicani alla fine del XIX secolo sembrava molto opportuna per convincere gli indecisi che ebrei, massoni e atei si erano alleati contro il mondo cattolico.
Post hoc, propter hoc: questa era la logica che usava magistralmente Drumont. Dopo aver creato il mito ebraico, dopo averlo trasformato in collante ideologico per commercianti, contadini e per tutte le vittime della difficile congiuntura economica, il passo successivo non poteva che essere quello di trasformare tutti gli ebrei in colpevoli e profittatori: di fronte a una minoranza aggressiva vi era una maggioranza di vittime ariane e cristiane.
L’uso dell’antisemitismo era diventato a poco a poco un modo di semplificare la vita politica, un metodo semplice di spiegazione universale.
Religione, patria, famiglia, proprietà: queste semplici parole d’ordine potevano da sole bastare.
Dopo il 1888 il fenomeno Boulanger era declinante e una nuova destra più radicale e aggressiva faceva capolino. Mettere gli ebrei al centro della scena finiva per giovare a molti: permetteva di conciliare posizioni non sempre coerenti, se non addirittura opposte, e l’odio contro gli ebrei diventava un catalizzatore per masse irrequiete.
Ai reazionari francesi, che pure si agitavano molto, non pareva probabilmente di essere troppo violenti: nella Russia di Nicola II i pogrom erano ben più sanguinosi dei proclami o degli incidenti sporadici.
Ideologico e letterario, il mito antiebraico era al servizio di forze politiche differenti e anche di classi antagoniste. Fu il marchese De Morel per primo a sostenere che l’azione violenta era una cosa nobile e che occorreva attaccare fisicamente gli ebrei, e fu il caso Dreyfus a rendere esplicito e visibile un malessere che da tanto tempo covava senza esplodere a livello di massa, tant’è che la stessa sinistra ne fu influenzata.
Ormai il capitalismo ebraico era diventato, dopo tanta propaganda, una certezza per molti. Nostalgici di un mitico passato considerato un’età dell’oro, i conservatori avevano trasformato Giovanna d’Arco nella loro paladina e nel prototipo del nazionalismo francese e quelle terre che lei aveva tentato di liberare con il suo sacrificio, gli ebrei ora le stavano invadendo proditoriamente. Lei era stata la contadina che aveva radici e che aveva amato la vita sana e naturale, mentre, per definizione, gli ebrei non avevano radici. Lei non aveva denaro o ideologia, ma solo passione patriottica, mentre loro avevano un unico desiderio: speculare e guadagnare, magari lagnandosi costantemente della loro infelice condizione. Lei era stata una donna del popolo e aveva mostrato sempre un grande ardimento, loro, gli ebrei, avevano cercato di essere degli intellettuali, ma sempre privi di coraggio. Lei era stata la patria e loro l’antipatria. Lei spirituale, loro antispirituali, lei vergine e loro prostituti, lei celtica e razzialmente pura, loro razza inferiore.
Occorre ricordare che l’affare Dreyfus, al di là della semplice vicenda personale e processuale, peraltro già complicata, aveva lasciato conseguenze persistenti ben più ampie e profonde della causa che lo aveva originato.
La reazione all’articolo J’accuse!, apparso su «L’Aurore», di Emile Zola era stata molto aspra e per taluni sorprendente.
L’anno 1898 fu un vero spartiacque: violente manifestazioni antisemite si svilupparono non solo in Francia, ma anche in Algeria.
«Pogrom senza vittime, il momento antisemita» ha scritto Pierre Birnbaum «fece vacillare la Francia; dalle strade, dalle città e dalle borgate dormienti si levarono, contro gli ebrei, urla e invettive, frutto di un moderno antisemitismo nutrito sia della idea di razza contemporanea sia di arcaismi antichi.
«Quella che si prepara a Parigi è una rivolta molto più pericolosa: avrà uno scopo preciso, il saccheggio dei negozi ebraici. Tutti sono disgustati da quel che è successo; ci si stupisce che non si arrivi a zittire i salariati giudeo-tedeschi e si prepara apertamente un movimento. Gli studenti? Lo sapete. La gente dei sobborghi? Ve lo spiego, magari.
«Ieri sono stato a Montmartre e a Clignancourt ad ascoltare le conversazioni nei caffè, nei baretti, nella strada; l’esasperazione è generale. A quelle brave persone, mosse da un sentimento comprensibile, si verrà ad aggiungere l’accozzaglia dei senza arte né parte, quelli che non hanno nulla da perdere, dei giovani esaltati, degli anarchici, dei nemici degli ebrei. Conosco personalmente più di una decina di stipendiati dagli ebrei che non chiedono altro che vendetta.
«Parigi vedrà ciò che hanno visto Algeri, Orano, quel che ha visto Vienna (Austria) qualche mese fa. Quando un moto di piazza ha un fine preciso, e questo è il caso, è pericoloso e lungo placarlo. Il borghese di razza francese non difenderà gli ebrei accaparratori.»
Chi avesse pensato a una esagerazione si sarebbe sbagliato. Dall’ironia greve alla derisione costante e caricaturale, dalle canzoni ai poemetti, talvolta scritti in patois locale, si passò, con una brusca fiammata, al boicottaggio, alle violenze, alla delazione e da Parigi questo pogrom senza vittime, ma non per questo meno carico di conseguenze psicologiche e sociali, si diffuse a Bourges, a Lione, a Rodez, a Limoges, da una parte, verso la Vandea, la Bretagna e la Normandia, dall’altra.
All’ombra del disagio sociale e dell’antisemitismo, come fatto politico di massa, l’antitesi Rivoluzione e Restaurazione era stata enfatizzata e lo scontro tra proletariato e borghesia si era radicalizzato. Molti veleni, sparsi in abbondanza all’interno della società francese, avevano influenzato anche chi avesse pensato di restarne immune: il nazionalismo aveva esasperato le sue fobie, il parlamentarismo aveva rivelato le sue debolezze, l’idea del timore dello straniero si era diffusa tant’è che molti consideravano l’invasione ebraica una triste realtà incontestabile. La drammatizzazione popolare del caso Dreyfus era diventata un evento compiuto e fortemente simbolico; che l’identità francese fosse minacciata, che il métissage razziale fosse un pericolo serio lo pensavano in molti, tanto che, con facilità, Maurras poteva accusare gli ebrei di essere traditori in potenza e Barrès poteva teorizzare che la condanna di un uomo, anche se fosse stato innocente, era ben poca cosa quando la coesione politica di un paese era in pericolo. La sorte di un singolo individuo non poteva essere messa a confronto, in ogni caso, con l’onore dell’esercito francese. Erano ridicoli quegli intellettuali che fondavano la loro visione di società su valori come verità, giustizia, ragione e diritti dell’uomo. Avevano ragione i nazionalisti che, invece, davano importanza all’autorità, all’ordine, alla gerarchia e alle leggi naturali e che credevano nella famiglia, nella Chiesa e nell’esercito.
Come ha notato più di uno studioso, in definitiva, l’affare Dreyfus fu il catalizzatore di una cristallizzazione di valori e di schieramenti che diventarono persistenti e capaci di creare, agli inizi del XX secolo, due blocchi di destra e di sinistra opposti e antagonisti.
Durante la Grande Guerra il fenomeno antisemita, sovrastato da ben altre emozioni, rimase latente, anche perché lo sforzo bellico suscitò tutt’altro tipo di attenzioni; successivamente, però, riprese maggior vigore.
«Su dieci francesi, nove sono antisemiti per istinto, o per ragionamento, ma non ce n’è uno su mille che lo affermi pubblicamente» scriveva Georges Batault. Una minoranza di antisemiti tuttavia era molto combattiva e si dava da fare suscitando, con una propaganda capillare, un notevole allarme all’interno della comunità ebraica. Giornali e libri venivano diffusi dappertutto e la loro presenza era via via più radicata.
«Je suis partout», uno dei giornali più noti e dai toni più accesi, non perdeva l’occasione di spargere veleno e sosteneva che l’antisemitismo cresceva di giorno in giorno. Louis-Ferdinand Céline, che nel ’37 avrebbe pubblicato il suo virulento Bagatelles pour un massacre, affermava che l’opinione delle vittime coincideva con quella dei carnefici e che anche gli ebrei cominciavano a rendersi conto che la marea montava e che le masse francesi non volevano più essere colonizzate. A poco a poco le diffamazioni reiterate e fantastiche dei giornaletti quasi clandestini finivano per riversarsi sulla grande stampa più autorevole e i miasmi si diffondevano capillarmente favoriti dal crescere di una crisi economica che non risparmiava nessuno e faceva aumentare la disoccupazione. L’arrivo di nuovi profughi suscitava inquietudini anche nel mercato del lavoro.
Quanto alla consistenza delle pubblicazioni apparse negli anni Trenta si calcola che nei primi tre anni siano state il 20% del totale, nel quadriennio successivo, dal ’33 al ’37, il 33% e nell’ultimo triennio il 46%. Le organizzazioni di destra e antisemite, pur nella estrema frammentazione e sovrapposizione, erano numerose; tra le più note e vivaci c’erano molte leghe fasciste e contadine: Action Française, Solidarité Française, i Comités pour la défense paysanne, la Ligue franc-catholique, il Rassemblement antijuif de France diretto da Louis Darquier de Pellepoix, che sarebbe diventato negli anni successivi un triste protagonista della persecuzione antiebraica insieme ai nazisti invasori.
La loro composizione era molto articolata sia da un punto di vista sociale che culturale. Parecchi erano contadini, ma altri, invece, aristocratici, grandi borghesi o perfino intellettuali di grido, se non di prestigio, come Charles Maurras, Léon Daudet, che scrivevano su giornali di grande diffusione, ma anche sul «Je suis partout», che si distingueva per la sua reiterata violenza antisemita.
Gli anni Trenta erano teatro di avvenimenti nazionali e internazionali cruciali. Nel ’33 Hitler era andato al potere in Germania ed è ben noto che cosa cominciò ad accadere agli ebrei, nel ’36 Léon Blum, socialista ed ebreo, aveva portato al governo il Fronte popolare; nel ’38, in coincidenza con la conferenza di Monaco, in numerosi ambienti francesi si cominciò ad accusare gli ebrei di volere la guerra per colpire il dittatore tedesco. Quest’ultimo, che sin dall’inizio aveva cominciato a finanziare gli antisemiti in Francia, dopo la vittoria della sinistra aveva intensificato la sua pressione e favorito l’opera di gruppi infiltrati.
Osservatore acuto, Arnold Mandel constatava che l’agitarsi di un nuovo spettro antisemita era un fenomeno a più facce, non solo il risultato di una psicosi contingente, ma il riemergere di paure ancestrali e che perfino quegli ambienti che avevano favorito l’emancipazione ebraica non avevano cancellato completamente i loro pregiudizi e le loro diffidenze che, in un momento di crisi, finivano per riemergere. Lo stesso padre Bonsirven, appartenente alla Compagnia di Gesù, dotto esperto di giudaismo, esprimeva, pur con prudenza, la preoccupazione di veder nascere e farsi forte un giudaismo latente. Erano gli ebrei che arrivavano dai paesi dell’Est e dalla Germania in particolare che si rivelavano pericolosi concorrenti sul mercato del lavoro, anche perché, spinti dalla necessità, si mostravano più disponibili e più tenaci. Naturalmente la galassia antisemita non era affatto compatta: i più vecchi, conservatori e nazionalisti, seguivano gli insegnamenti di Drumont, mentre i più giovani, magari dopo l’esperienza traumatica della Prima guerra mondiale, in difficoltà per il mancato inserimento nella società del lavoro, vedevano nell’ebreo un concorrente. Entrambe le tendenze restavano tuttavia rumorose e capaci di creare un notevole malessere, anche se non è facile esprimere valutazioni complessive di tipo numerico: anche se la destra appariva come protagonista di questa battaglia non si può dire che l’odio antiebraico fosse solo una sua specialità. Alcuni illustri esponenti della sinistra, infatti, come Proudhon, Fourier, Toussenel, avevano identificato il giudaismo col capitalismo, sic et simpliciter, e molti loro seguaci erano stati indotti a vedere in Blum soltanto un ebreo borghese. Da parte loro i comunisti, pur non enfatizzando le origini del primo ministro, non parevano dimenticarle.
«È lei, col suo sottile bizantinismo,» lo aveva rimproverato Marcel Déat «che ci porta al fascismo. Io che la conosco bene, so qual è la sua passività tutta orientale. L’azione è esattamente l’opposto di ciò che lei è e vuole rappresentare.»
Déat, il socialista, Doriot, il comunista, Bergery, il radicale: questi uomini che occupavano nel ’33 posti di rilievo a sinistra furono appena pochi anni dopo i fautori di una stretta collaborazione con i nazisti di Hitler.
Quanto a Blum, presidente del Consiglio, se, da un lato, i comunisti gli rivolgevano epiteti come danseuse, grande conquette, reptile, laquais des banquiers de Londres, accusandolo di essere amico di Rothschild e di altri banchieri inequivocabilmente ebrei, non si può dire che i pacifisti fossero più teneri: secondo loro, infatti, Blum, Moch, Grumbach, Lévy, Bloch erano interventisti solo perché volevano attaccare Hitler.
«Il socialismo» dichiarò un deputato della sinistra «non è un ghetto. Io non marcio per la guerra degli ebrei.»
La galassia antisemita si nutriva di accuse e argomenti molto differenti tra di loro. Alcuni, per dar forza alle loro accuse, citavano frasi di Voltaire, Napoleone I, l’abbé Maury, Toussenel, Drumont; altri come Léon de Poncins preferivano adoperare le parole di illustri ebrei quali Disraeli, Rathenau, Crémieux, Nordau, Emil Ludwig e perfino Bernard Lazare. Tutti, comunque, gonfiavano le statistiche, attribuivano agli ebrei una supremazia economica e sociale del tutto inventata, o sovradimensionata, in Germania o in Francia, oppure sceglievano la strada della demonizzazione dipingendoli come violenti e assassini e, perché no?, come stupratori abituali. Non erano solo gli articoli che contribuivano a questa propaganda. Che i cognomi che finivano in sky, sco, heim e baun fossero oggetto di derisione era normale, che Mendès-France fosse chiamato Mendès-Egypte poteva sembrare un gioco magari non così violento. Caricature e iconografia facevano il resto: le caratteristiche somatiche e fisiche degli ebrei venivano enfatizzate e gli stereotipi più sgradevoli esagerati e oggetto di derisione.
Nella Histoire générale et Système comparé des langues sémitiques (1855) Ernest Renan mise in evidenza l’importanza della fisiognomica degli ebrei, anche se non accettava una impostazione, a proposito dell’idea di razza, di tipo biologico: il loro presunto naso adunco, la bocca di un certo tipo, le orecchie e i piedi così originali; un modo di affrontare il problema quasi medievale, quando gli ebrei, colpiti meno degli altri dalla peste e dal colera perché rispettavano le regole igieniche, venivano accusati in realtà di essere loro stessi una peste permanente. Renan, che mostrava di aver timore dei processi di métissage, descriveva con enfasi ed esagerazione ogni particolare fisico attribuito agli ebrei: la loro maturità sessuale era precoce, le patologie erano del tutto atipiche, la loro intelligenza vivace, ma sterile, verbosa, inconsistente, pronta al sofismo, priva di finezza e di educazione, priva di modestia. Non ragionavano come un buon cristiano francese perché avevano una percezione distorta frutto di un nomadismo mai finito. Per questo gli ebrei erano da considerare come dei materialisti che volevano sfoggiare la loro volontà di potenza, e lo facevano con ostentazione, senza alcuna modestia o pudore. Possibile che un ebreo a Parigi volesse essere più parigino di un parigino, possibile che non sapesse stare al suo posto suscitando una inevitabile reazione? Era per questo che gli ebrei, eredi delle antiche tribù nomadi, erano sempre preda dei loro istinti vagabondi. La polemica di Renan non era politica, ma culturale, e va compresa all’interno del mondo in cui si sviluppava: «Sono dunque il primo a riconoscere che la razza semita, comparata alla razza indoeuropea, rappresenta realmente una combinazione inferiore della natura umana».
Renan, come Lebon, lo ha notato Todorov, ha trasportato il pregiudizio della razza all’interno del più vasto mondo culturale e in qualche modo lo ha reso accessibile e più popolare. Peccato che questo pregiudizio si sia sviluppato, in coincidenza con un disagio sociale crescente, con una virulenza inaspettata e con conclusioni gravide di pericoli. Gli ebrei diventavano corruttori infaticabili, una vera e propria infezione permanente, una iena che cercava il suo nutrimento nel pattume e nei cadaveri, riportabili ai miasmi. In molti casi venivano assimilati alle malattie veneree.
Le parole d’ordine erano: «Non circoncidetevi, potreste essere considerati ebrei» e «La France aux Français».
Nel 1936 molti commercianti ebrei, a Digione, ricevettero una lettera anonima i cui contenuti possono essere considerati emblematici.
«Tu appartieni a una RAZZA che vuole distruggere la Francia e fare la RIVOLUZIONE nel nostro paese, che non è il tuo, poiché sei giudeo e i giudei non hanno patria.
«I francesi hanno tollerato che i giudei si riempissero le tasche sfruttando i francesi. Ora, con la sua abituale impudenza, il giudeo pretende di governare i francesi, di sottometterli alla schiavitù marxista e di instaurare il comunismo giudeo come in Russia.
«Noi siamo francesi e non dei mugichi, e vi faremo vedere come i francesi si sbarazzano del parassita giudeo.
«Sappi, sporco giudeo, che in città c’è un gruppo di francesi che han giurato di eliminarti. Sul loro onore, sulla loro vita, HANNO GIURATO DI SBARAZZARSI DEI GIUDEI CON OGNI MEZZO.
«Ti conoscono perfettamente. Non ignorano nulla delle tue abitudini, delle tue relazioni, dei tuoi affari, dei tuoi investimenti. Ti sorvegliano e ti seguono come la tua ombra. Niente di ciò che fai sfugge loro.
«La loro organizzazione segreta ha tessuto attorno a te e ai tuoi correligionari una rete da cui non potrete scappare. Si avvicina il giorno in cui libereremo la nostra Città e il nostro paese dalla vostra razza maledetta.
«Ah, i giudei trascinano la Francia verso la rovina e la Rivoluzione? Be’, sporco giudeo che mi stai leggendo, le vostre teste risponderanno dei vostri misfatti. Noi vi schiacceremo, fetide bestie, distruggeremo i vostri magazzini e un ENORME POGROM CI LIBERERÀ DEFINITIVAMENTE DELLA VOSTRA RAZZA MALEDETTA.
«In attesa, come primo avvertimento, ti informiamo che se non sistemi davanti alla tua vetrina dei nastri tricolori in segno di sottomissione, essa verrà completamente distrutta entro breve.
«Arrivederci?»
Il regolamento di conti, che in quel momento pareva solo una lontana minaccia, appena qualche anno dopo, con l’aiuto dei nazifascisti, sarebbe diventato realtà.
L’antisemitismo non si esprimeva solo con lettere anonime o con articoli su giornali, ma anche con caricature che avevano una grande diffusione. La sua virulenza inoltre aumentava con il crescere della tensione internazionale: nel ’33 Hitler aveva fatto scappare molti ebrei tedeschi, nel ’38 Mussolini aveva varato le leggi cosiddette razziali e in Francia la pressione dei fuoriusciti era cresciuta: gli antisemiti dicevano che i Levy erano ormai il doppio dei Dupont e dei Durand, che molti poi si nascondevano con nomi falsi e che il loro numero, arrivato a seicentomila, cresceva di mese in mese di trentamila unità.
Céline diceva che gli enjuives erano oltre due milioni.
«Gli antisemiti» dice Schor «superavano facilmente la contraddizione che opponeva due delle loro affermazioni: da un lato il carattere inassimilabile degli ebrei rinforzato da un comportamento endogamico e, dall’altro, la volontà semita di corrompere il sangue ariano… L’assimilazione degli ebrei a un’orda di invasori inassimilabili e fondamentalmente razzisti occupava un posto centrale nel pensiero antisemita.»
L’odio antiebraico, secondo gli antisemiti, non voleva essere espressione di violenza, quanto piuttosto un atto di amore verso il proprio paese. Jouhandeau si offese quando Jacques Maritain disse che non si poteva essere contemporaneamente antisemita e intelligente. L’opinione comune riteneva che chi si esprimeva per gli ebrei non poteva che essere corrotto e che, se non ci fossero stati eccessi ebraici, non vi sarebbero stati neanche antisemiti. Prendendo a prestito una immagine scientifica si diceva che solo un corpo avvelenato poteva creare le proprie antitossine per immunizzarsi e Céline diceva che non era lui il razzista: la sua era una ribellione al razzismo degli ebrei.
«Tirate un orecchio a un ebreo e tutti sentiranno male» diceva Bismarck e in Francia l’espressione aveva avuto enorme successo, ben di più che in Germania.
Rue des Rosiers e rue Charlemagne venivano considerate come villaggi della Bucovina e dei Carpazi.
«Sono stato estremamente colpito dalla lettura dei nomi degli imputati o accusati» esclamò Xavier Vallat in un suo discorso alla Camera dei deputati dopo lo scoppio dello scandalo Stavisky nel ’33 «nei casi per i quali la banda Stavisky è stata perseguita nel 1926: Stavisky, il padre del quale veniva da Odessa, Zweifel, che veniva dalla Lituania, Smilovici, Margaritopol, Davidoviči, Popovici, Tranparidesco e Johanid, che veniva dalla Romania. Se a ciò si aggiungono gli scandali dei casi Poullner, Costachesco, Danowsky, Moeller, potrete ben constatare che in questi due elenchi non ci sono molte persone nate in Alvernia, in Savoia o in Bretagna. Credo inoltre che non ci siano molti cristiani…»
I nemici degli ebrei ritenevano che essi fossero spregiudicati e troppo attivi e che la loro natura di intermediari senza patria li spingesse a raccogliere quello che non avevano seminato, a mangiare quello che non avevano prodotto.
Avevano portato il divorzio che aveva distrutto la famiglia: bastava leggere Du mariage di Léon Blum. Avevano esaltato i piaceri sessuali, favorito l’aborto e introdotto la sessuologia; in poche parole avevano tentato di distruggere la civiltà europea. Da Giuda a Dreyfus avevano solo creato dei traditori.
Anche i caduti nella Prima guerra mondiale erano sotto osservazione. Secondo i polemisti antisemiti gli ebrei caduti erano stati dai mille ai tremilacinquecento, uno su trentacinque e non uno su tre come era accaduto ai veri francesi. Gli ebrei sapevano copiare, sapevano camuffarsi ma restavano dei materialisti capaci di produrre qualche genio come Heine e Spinoza, ma anche malpropres come Mendelssohn, Meyerbeer, Offenbach, Schönberg, Milhaud, Bergson, Lévy-Bruhl, Durkheim e Freud. Non che non fossero abili: si infiltravano dappertutto, cercavano le cariche più prestigiose nelle università, erano direttori di grandi giornali, si sforzavano di mostrarsi sperimentatori in ogni campo: il dadaismo, il cubismo, la cosiddetta Ecole de Paris erano stati i risultati artistici più evidenti e decadenti e bene aveva fatto Hitler a combattere i falsi artisti e le loro folli produzioni.
Setta odiosa, capace di riti strani come la circoncisione e le leggi alimentari, in realtà gli ebrei avevano tradito la Legge di Mosè e se ne erano allontanati a causa dell’influenza egiziana e caldea contenuta nella Kabbalàh tanto che ormai essi erano preda di un esoterismo pagano che aveva snaturato l’insegnamento divino originario. Fonte di ogni deviazione era il Talmùd, poi, con l’aggiunta della Kabbalàh, le asinerie erano diventate insopportabili fino a superare ogni limite. In questi ambienti oggetto di critiche feroci erano anche gli esponenti della Chiesa che erano ritenuti soggetti alla influenza ebraica; Pio XI e il suo collaboratore Pacelli venivano considerati da Céline come ebrei: «Niente di più ebreo che l’attuale papa. Che è in realtà Isaac Ratisch. Il Vaticano è un ghetto. Il segretario di Stato Pacelli, ebreo quanto il papa». Nel loro delirio gli ambienti ultrareazionari consideravano enjuive o di sangue ebraico tutti coloro che avessero osato dire una parola in difesa degli ebrei, tant’è che si cercava, magari grossolanamente, di dire che lo stesso Gesù non era mai stato veramente ebreo e veniva dalla Galilea perché colà gli ebrei non vi avevano mai abitato. In ogni caso, a poco a poco, si faceva strada l’idea che gli ebrei non potessero in alcun modo salvarsi dal loro destino, neanche con la conversione: anche se battezzati infatti restavano ebrei e tali li ritenevano gli stessi correligionari.
Il triangolo massonico veniva considerato come metà stella gialla: non a caso i massoni erano numerosi nel governo Blum dove, peraltro, vi erano anche dodici ebrei in rappresentanza delle dodici tribù di Israele. Che tutto questo corrispondesse al vero o no non aveva troppa importanza. Quello che bastava era lanciare le accuse, anche le più fantasiose: non avevano voluto gli ebrei uccidere san Paolo? Ebbene avevano continuato su questa strada, avevano ucciso nei primi secoli molti cristiani e agli inizi del Novecento tutti gli attentati più famosi erano stati ispirati dagli ebrei. Le vittime erano state, tra le altre, Francesco Ferdinando a Sarajevo nel ’14, l’hetman Petliura a Parigi nel ’16, Alessandro di Jugoslavia a Marsiglia nel ’34. Come dimenticare poi le vittime di Béla Kun in Ungheria e l’assassinio della famiglia imperiale russa, gli assassinii di Gambetta, Faure e del marchese di Morès? Non era un caso che a capo del marxismo europeo ci fossero solo ebrei visto che questi erano da considerarsi rivoluzionari per temperamento: Marx, Bernstein, Lassalle, Viktor Adler, Otto Bauer, Eisner in Baviera, Clara Zetkin a Berlino, Béla Kun e i suoi in Ungheria, Trockij, Kamenev, Zinov’ev e Lenin per metà.
Queste affabulazioni confuse e ricorrenti, ma ripetute e insistenti, dal punto di vista propagandistico erano molto efficaci perché il veleno sparso a piene mani non solo convinceva coloro che desideravano già in partenza esserne convinti, ma lasciava effetti anche in coloro che erano contrari a questa visione del mondo.
Gli stessi antisemiti ammettevano che I Protocolli fossero un falso, ma subito dopo riconoscevano che, pur tuttavia, erano assolutamente verosimili. Infatti gli ebrei arrivavano in Francia come poveri profughi e, chissà come mai, in pochi anni diventavano padroni di terre e di castelli, ottenendo perfino la Legion d’onore. Gli ebrei professori alla Sorbona mostravano un totale attaccamento alla Francia? Non bisognava stupirsi perché tutti sono legati alla loro amante. Un cacciatore non ama il suo cane da caccia?
La Francia non veniva assalita a caso dagli ebrei: era e restava l’anello forte dell’autentica cristianità. Ora però rischiava di diventare una colonia di Israele e gli ebrei francesi trattavano i francesi come i bianchi trattavano i neri. Céline diceva che il goy era il sonnambulo della volontà ebraica e il giocattolo nelle mani di una razza insolente. L’unica speranza? Che gli schiavi si ribellassero contro quelle organizzazioni ebraiche, la Ligue Internationale contre l’Antisémitisme, la LICA, l’Alliance Israélite Universelle, considerate espressione di un potere internazionale e parassita. Nella loro ossessione, che non ammetteva repliche, gli antisemiti erano dell’idea che fosse il possesso dell’oro l’arma segreta che permetteva agli ebrei di ottenere risultati rapidi e importanti. Ai loro occhi bastava citare i nomi delle grandi banche Louis-Dreyfus, Daniel-Dreyfus, Worms, Seligmann, Stern, Heine, Rothschild, per ricordare a tutti chi erano gli intermediari parassiti della Repubblica, capaci di coniugare la rivoluzione con il capitale in nome del giudaismo. Léon Blum era la massima espressione di questa sintesi di socialismo e di capitalismo, che aveva trasformato i ministeri in concistori di circoncisi. L’arrivo, negli anni Trenta, di tanti umili emigranti aveva aumentato le tensioni anche nel difficile mercato del lavoro, e nel campo delle professioni liberali erano i medici e gli avvocati ebrei che sostenevano l’aborto e il divorzio.
Maurras si fece zelante paladino della lotta che voleva escludere dalla professione della medicina i medici stranieri, ma anche quando il governo optò per una serie di restrizioni a tutela dei medici francesi, la polemica rimase vivace perché lo stesso governo fu accusato di voler naturalizzare i medici che arrivavano dagli altri paesi eludendo così le stesse misure che aveva stabilito in precedenza.
Nessun lavoro agli stranieri fintanto che un francese avrà fame: questo era lo slogan degli ambienti nazionalisti che, pur tuttavia, restavano tiepidi nei confronti della aggressività tedesca e consideravano la guerra come un tentativo degli ebrei per combattere Hitler. Céline vedeva nel dittatore nazista un vero alleato e, quando a Parigi nel 1938 Herschel Grynszpan assassinò Ernst vom Rath, il fronte antisemita finì per compattarsi, pur con qualche distinguo. Maurras, infatti, non amava affatto i tedeschi, anzi diffidava della loro potenza militare. Action Française parlava di barbarie ebraica e tedesca ed esagerava di proposito il numero di ebrei e tedeschi che continuavano nel corso degli anni Trenta a cercare scampo in Francia per fuggire a Hitler. Si diceva che tra loro vi fossero molti infiltrati e spie al soldo tedesco e che quelli che non lo erano arrivavano in terra francese e con i soldi potevano fare quello che volevano. Se i pacifisti continuavano a credere che la guerra fosse un problema agitato dagli ebrei, molti elementi di destra proclamavano chiaramente che la loro preferenza andava a Hitler piuttosto che a Blum. Proprio la vittoria del Fronte popolare sembrò essere la materializzazione di tante paure. Questo il commento dell’Action Française: siamo caduti in mano di una nazione straniera e Dupont e Durand sono diventati dei servi di uomini venuti da fuori e dai nomi impronunciabili e il vero nome di Blum è Karfurkelstein e vuole giudeizzare il paese facendo entrare molti dei suoi confratelli.
Cominciò a farsi strada allora l’idea che l’unica soluzione possibile fosse quella di sbarazzarsi degli ebrei mandandoli da Hitler. Céline suggeriva che la loro terra fosse la Polonia o la Palestina, che si potesse tenerne trecento e mandarne via cinquecento perché il peso di questa casta fosse ridotto e i loro privilegi annullati: né elettori, né eleggibili. All’Alliance Israélite Universelle e alla Ligue Internationale contre l’Antisémitisme bisognava confiscare i beni e impedire l’azione.
Il dibattito sulla questione ebraica si arricchì di nuovi risvolti: c’era chi voleva favorire i matrimoni misti per arrivare alla scomparsa degli ebrei come tali e chi temeva che così facendo si favorisse in modo inequivocabile il métissage. Quanto al sionismo, questo era un altro elemento che dava fastidio al francese medio che paventava una doppia lealtà e che reagiva offrendo, invece che la Palestina, la Patagonia o la Nuova Guinea.
La reazione delle comunità ebraiche non fu rapida, anzi nel corso degli anni Trenta le esitazioni a intervenire in un dibattito spesso dai toni sgradevoli furono numerose e solo verso la fine del decennio più voci si fecero sentire. «Le Droit de vivre», organo della Ligue Internationale contre l’Antisémitisme, nel ’38 intervenne per la prima volta con una energia particolare affermando che gli ebrei erano francesi come gli altri e che il loro amore per la Francia era del tutto speciale. Anche all’interno del mondo ebraico, tuttavia, la reazione nei confronti dei nuovi arrivati dai paesi dell’Est non fu unanime: le asprezze della lingua yiddish suonavano sgradevoli e alcuni inevitabili comportamenti eccessivi, non solo semplici truffe, ma anche interminabili soste a leggere i giornali al caffè, suscitavano fastidio se non addirittura allarme. Alfred Berl, per esempio, non aveva esitato a considerare questa ondata di immigranti straccioni alla stregua di una vera catastrofe. André Spire confessava di non sentirsi affatto attirato dagli ebrei immigrati: «Li aiutavo quando forzavano la mia porta ma senza slancio: poveri e ricchi, il loro arrivo mi esasperava». Robert de Rothschild, presidente del Concistoro centrale, più drastico, aveva affermato: «Se non sono contenti che se ne vadano».
In definitiva pareva troppo audace agli ebrei borghesi e integrati farsi coinvolgere in una battaglia a favore dei nuovi arrivati e la vicenda veniva vissuta più dal punto di vista umanitario che da quello politico. I più timorosi consideravano l’antisemitismo come l’inevitabile prodotto di proteste troppo esagerate, mentre solo i più lungimiranti percepivano il senso di una minaccia crescente e capivano che in Europa si stava preparando una tempesta terribile. I francesi non ebrei più illuminati, da parte loro, consideravano l’antisemitismo come un segno di imbarbarimento generale, mentre quelli comunisti assicuravano che con il sorgere del sole dell’avvenire tutto si sarebbe risolto in una giustizia sociale globale che non avrebbe lasciato spazio alle intemperanze. Molti cristiani borghesi e di destra, di fronte a tanti eccessi, seppero prendere le distanze, cominciarono a pensare alle origini del cristianesimo in modo differente e nacque una forte corrente di simpatia da parte di molte organizzazioni cattoliche sotto l’influsso di uomini come Jacques Maritain, Père de Lubac e il cardinale Verdier, arcivescovo di Parigi: in fondo i razzisti, si diceva con una punta di ironia, avevano avuto il merito di far capire che il pensiero giudaico-cristiano era un tutto unico.
Il Tout Paris, in fondo, liberatosi dei piccoli pregiudizi, si rendeva conto che gli antisemiti erano chiassosi e volgari e nella vita quotidiana i grandi borghesi ebrei vivevano una totale uguaglianza di diritti senza avvertire minacce di alcun tipo. Ancora una volta, come ai tempi del processo Dreyfus, la Francia libertaria e quella reazionaria si trovavano, quasi fatalmente, l’una dinanzi all’altra, mentre il grande rabbino di Parigi di fronte a questo dibattito così complicato, per non scontentare nessuno, si dichiarava incompetente. Negli ambienti ebraici, tuttavia, nel corso degli anni Trenta, dopo un momento di sconcerto e di sorpresa, cominciò a crescere una produzione di pubblicazioni filosemite in cui si tentava di smontare con razionalità gli argomenti polemici, le cifre e le statistiche sull’invasione ebraica, del tutto fasulle, che gli avversari fornivano. C’era chi riteneva che fosse necessario far crescere una conoscenza reciproca, chi invece credeva che le manifestazioni di massa potessero far nascere un movimento ebraico più forte e più presente e chi infine era dell’idea che bastasse essere cittadini modello.
Nel ’36 nacque il Comitato di documentazione e di vigilanza del Concistoro centrale e divennero regolari le riunioni organizzate da Robert de Rothschild con lo scopo di favorire una propaganda efficace che potesse contrastare efficacemente quella antisemita che, verso la fine degli anni Trenta, diventava via via più insistente e virulenta.
Giovani attivisti con pezzi di carta da incollare giravano per i quartieri di Parigi con l’intento di cancellare le caricature e le affiches antisemite, e mentre i moderati all’interno dei gruppi ebraici restavano timorosi, nascevano e si organizzavano comitati di reazione da parte di coloro che non erano disposti a subire impunemente lo stillicidio di provocazioni e di vessazioni.
La lotta alla vigilia degli anni Quaranta era diventata sempre più calda e una frase era divenuta molto comune all’interno degli ambienti ebraici:
«Il giorno in cui l’antisemita diventerà un pericolo non si occuperanno più di sapere se andate o non andate alla sinagoga, se siete biondi o bruni, sarete tutti messi nel sacco.»
«Dunque la persecuzione che si sviluppò a partire dal 1940» ha scritto Ralph Schor «prova bene che non bisognava considerare con distacco i propositi portati avanti nel corso degli anni precedenti dagli antisemiti. I principi sui quali il regime di Vichy fondò la sua politica verso gli ebrei erano chiaramente inscritti nello spirito degli anni Trenta.»