«Fra tutti gli Stati di entrambi gli emisferi» scrisse Anatole Leroy Beaulieu nel 1893 «quello dove l’assimilazione degli ebrei è più completa è forse l’Italia, terra d’origine del ghetto.» Pochi anni dopo Max Nordau, uno dei capi del movimento sionista, collaboratore di Theodor Herzl, osservò nella Lettera agli ebrei d’Italia che nessun altro ebreo sulla terra era capace di adattarsi profondamente quanto l’ebreo italiano: «Voi siete italiani fino in fondo all’anima».
Vittorio Emanuele III dichiarò allo stesso Herzl, ricevuto in visita ufficiale nel 1904: «Gli ebrei possono occupare qualsiasi posizione come del resto avviene. Esercito, pubblica amministrazione, corpo diplomatico, tutte le carriere sono aperte dinanzi a essi. Gli ebrei per noi sono italiani in tutto e per tutto». Che la parità dei diritti civili fosse ormai acquisita in Italia lo dimostrano anche le carriere politiche di alcuni ebrei nei primi decenni del secolo: Luigi Luzzatti divenne primo ministro; Sidney Sonnino, di padre ebreo, primo ministro; il generale Ottolenghi ministro della Difesa; Guido Jung ministro delle Finanze.
L’avvento del fascismo in un primo momento non danneggiò in modo specifico le condizioni di vita della comunità ebraica italiana. Ci furono ebrei che aderirono e altri che si opposero con grande vigore e con sprezzo del pericolo. Tra l’ottobre 1928 e l’ottobre 1933 gli ebrei che avevano la tessera fascista erano 4920, circa il 10% della popolazione ebraica, press’a poco la stessa percentuale di adesione dell’intera popolazione italiana. Altrettanto numerosa era l’adesione ebraica ai gruppi socialisti e antifascisti ben prima delle leggi razziali.
Ancora nel 1934 non esisteva in Italia un movimento antisemita organizzato. Gaetano Salvemini ammise che l’atteggiamento di Mussolini era stato opposto a quello di Hitler: «Gli ebrei sono soltanto 40.000 su una popolazione di 42 milioni, ovvero meno dell’uno per mille».
Eppure aveva visto giusto Camillo Berneri in El delirio racista pubblicato a Buenos Aires nel 1935: «Se l’antisemitismo diventasse necessario alle esigenze del fascismo italiano, Mussolini, peggio di Machiavelli, seguirebbe Gobineau, Chamberlain e Woltmann e parlerebbe anche lui di razza pura». E Chaïm Weizmann, presidente dell’Organizzazione sionista mondiale, futuro presidente dello Stato di Israele, dopo un lungo incontro con Mussolini disse: «Oggi una tremenda ondata chiamata fascismo ha coperto l’Italia. Come movimento italiano, non è affar nostro, ma è affare del governo italiano. Ma questa ondata si infrange contro la piccola comunità ebraica e questa piccola comunità che non si è fatta mai notare soffre ora l’antisemitismo».
La questione ebraica non era stata ancora posta dalla propaganda del regime, eppure segni di un peggioramento si potevano intravvedere nelle continue polemiche che affioravano qua e là nei giornali. Negli ultimi due decenni del XIX secolo l’antisemitismo clericale si era fatto vivace e anche nei primi anni del nuovo secolo non si era assopito completamente. Molti fautori dell’intervento italiano nella Prima guerra mondiale avevano visto nelle posizioni pacifiste dei due leader socialisti Claudio Treves e Giuseppe Emanuele Modigliani, che erano anche ebrei, i segni di una politica antinazionale ed era stato insinuato che la Germania cercava di usare gli ebrei per condizionare la politica italiana. Dopo la guerra si erano diffuse le leggende de I Protocolli e si sviluppò la tendenza ad associare ebrei e bolscevichi, anche alla luce del grande ruolo assunto da gruppi rivoluzionari ebrei non solo nella rivoluzione sovietica, ma anche nei movimenti di sinistra in Germania, in Ungheria e in altri paesi europei. Lo sviluppo dell’idea sionista inoltre aveva spinto molti nazionalisti ad accusare gli ebrei italiani di doppia lealtà, benché il sionismo, appena agli albori, non fosse poi così popolare nei gruppi assimilati e borghesi italiani, e nonostante la lunga tradizione risorgimentale che aveva visto in prima linea una percentuale di ebrei molto alta. Solo nel 1920 si sviluppò l’ideologia antisemita propagandata da Giovanni Preziosi, che tradusse I Protocolli e fece della rivista «La Vita Italiana» il portabandiera dell’odio contro gli ebrei.
Le diffidenze naturali del fascismo furono alimentate anche da un episodio accaduto nel 1934 a Ponte Tresa, dove furono arrestati alcuni antifascisti torinesi del gruppo Giustizia e Libertà quasi esclusivamente ebrei: tra loro Sion Segre Amar, Carlo Levi, Mario e Gino Levi, figli di Giuseppe Levi padre di Natalia Ginzburg, e infine Leone Ginzburg. La stampa di regime non ebbe difficoltà a sottolineare questa singolarità e ben presto Farinacci contribuì a diffondere l’equazione «antifascista = antipatriota = sionista». In realtà gli aderenti a Giustizia e Libertà non erano affatto sionisti, ma il titolo del giornale «Il Tevere» di Telesio Interlandi suonava così: L’anno prossimo a Gerusalemme: quest’anno al Tribunale Speciale. Nel 1936 Mussolini strinse una solida alleanza con Hitler. È dello stesso periodo il primo scritto intensamente antisemita frutto della propaganda di regime: Ebrei, Cristianesimo, Fascismo di Alfredo Romanini, in cui non vengono attaccati solo i sionisti, ma tutti gli ebrei italiani in blocco. Il peggioramento della situazione fu influenzato da numerosi fattori concomitanti: agenti nazisti e fascisti che fomentavano disordini, organizzazioni di destra, ostili al bolscevismo e all’intervento in Spagna, che paventavano un ipotetico pericolo ebraico, riviste come «Civiltà cattolica» e «Vita e Pensiero» dell’Università Cattolica di Milano che mettevano continuamente in guardia i lettori dall’influenza ebraica.
Nel 1937 il regime promulgò un primo atto legislativo razzista che non colpiva ancora gli ebrei, ma vietava agli italiani rapporti coniugali con i sudditi dell’Africa orientale. In quello stesso anno uscì il libello di Paolo Orano, Gli ebrei in Italia, che inaugurò una campagna d’odio dai toni virulenti.
Il Manifesto della razza uscì a opera di un gruppo di studiosi anonimi il 14 luglio 1938; l’elenco dei firmatari fu pubblicato solo dieci giorni dopo e il segretario del partito li ricevette ufficialmente il 26 luglio. Nel testo dai toni grotteschi si affermava tra l’altro che «l’attuale popolazione dell’Italia è di origine ariana e la sua razza è ariana». Il paragrafo 6 recitava: «Esiste oramai una pura “razza italiana” – questo enunciato non è basato sulla confusione del concetto biologico di razza con il concetto storico-linguistico di popolo e di nazione, ma sulla purissima parentela di sangue che unisce gli Italiani di oggi alle generazioni che da millenni popolano l’Italia. Questa antica purezza di sangue è il più grande titolo di nobiltà della Nazione italiana». Il punto 9 stabiliva che «gli ebrei non appartengono alla razza italiana».
Pio XI, il 28 luglio, in occasione di un incontro con gli alunni della Propaganda Fide, dichiarò che considerava il razzismo estraneo alla tradizione italiana e biasimò che l’Italia avesse seguito l’esempio della Germania, ma Mussolini, poco dopo, fece sapere che sulla questione della razza avrebbe «tirato diritto». L’espulsione degli studenti ebrei da tutte le scuole di ogni ordine e grado diventò realtà con un regio decreto del 5 settembre di quello stesso anno: duecento insegnanti persero il lavoro, duecento studenti universitari interruppero gli studi, mille ragazzi delle scuole medie e quattromilaquattrocento delle scuole elementari lasciarono i banchi vuoti. Altri provvedimenti furono presi nei confronti degli ebrei stranieri che avrebbero dovuto essere espulsi entro sei mesi. In un primo momento venne considerato di razza ebraica «colui che è nato da genitori di razza ebraica anche se professa religione diversa da quella ebraica», poi la materia fu rielaborata perché il fascismo desiderava accentuare gli elementi spirituali delle proprie concezioni razziste per differenziarsi da quelle biologiche dei nazisti.
Il Gran consiglio del fascismo nella notte tra il 6 e il 7 ottobre gettò le basi della Carta della Razza che fissò i criteri per determinare la razza ebraica: a) è di razza ebraica colui che nasce da genitori entrambi ebrei; b) è considerato di razza ebraica colui che nasce da padre ebreo e da madre di nazionalità straniera; c) è considerato di razza ebraica colui che, pur essendo nato da matrimonio misto, professa la religione ebraica; d) non è considerato di razza ebraica colui che è nato da un matrimonio misto, qualora professi una religione diversa da quella ebraica alla data dell’1 ottobre 1938. Inoltre il Gran Consiglio emanò alcuni criteri che potevano essere invocati da ebrei di cittadinanza italiana per essere discriminati e non sottoposti alla violenza delle leggi razziali.
Il re non fece molte resistenze, mentre la Santa Sede manifestò perplessità maggiori; nel marzo 1938, con l’enciclica Mit Brennender Sorge, aveva apertamente condannato il razzismo nazista ateo e materialista. Le idee razziste dei fascisti non erano state però accolte con la stessa ostilità. «Civiltà cattolica» del 6 agosto aveva così commentato il Manifesto della razza: «Chi ha presenti le tesi del razzismo tedesco rileverà subito la notevole divergenza di quelle proposte da quelle del gruppo di studiosi fascisti italiani. Questo confermerebbe che il fascismo italiano non vuole confondersi con il nazismo o razzismo tedesco intrinsecamente ed esplicitamente materialistico e anticristiano». I Provvedimenti per la Difesa della Razza Italiana furono emanati poche settimane dopo, con un regio decreto legge del 17 novembre 1938. In particolare queste norme precisavano meglio le modalità dei divieti relativi alla frequenza nelle scuole, vietavano i matrimoni misti tra ebrei e cristiani, escludevano gli ebrei dalle forze armate, dalle industrie e dai commerci, dalle proprietà immobiliari, ne diminuivano le prerogative in materia di testamenti, di patria potestà, di adozione, di tutela e affiliazione, li cacciavano dagli enti pubblici e dagli spettacoli. Venivano inoltre individuati agli effetti di legge alcuni criteri di appartenenza alla razza ebraica nell’articolo 8:
a) è di razza ebraica colui che è nato da genitori tutti e due ebrei anche se appartiene a religione diversa da quella ebraica;
b) è di razza ebraica colui che è nato da genitori di cui uno di razza ebraica e l’altro di nazionalità straniera;
c) è di razza ebraica colui che è nato da madre di razza ebraica qualora sia ignoto il padre;
d) è considerato di razza ebraica colui che, pur essendo nato da genitori di nazionalità italiana, di cui uno solo di razza ebraica, appartenga alla religione ebraica o sia comunque iscritto a una comunità israelitica, ovvero abbia fatto in qualsiasi altro modo manifestazione di ebraismo;
e) non è di razza ebraica colui che è nato da genitori di nazionalità italiana, di cui uno solo di nazionalità ebraica, che alla data dell’1 ottobre 1938 apparteneva a religione diversa da quella ebraica.
«Le leggi di novembre» ha scritto Susan Zuccotti «affrontavano un problema molto sfuggente: chi era ebreo? In un paese dove i matrimoni misti e le conversioni erano frequenti, la confusione era un risultato inevitabile. In primo luogo nei casi apparentemente più semplici la legge decretava che i figli di due genitori ebrei erano ebrei anch’essi, pure se appartenevano a un’altra religione. Questo provvedimento, che negava la possibilità della conversione, finì per indispettire la Chiesa. In secondo luogo, anche coloro che avevano un genitore ebreo e uno straniero venivano dichiarati ebrei, e così pure i figli di madre ebrea e di padre ignoto. Nei casi di incontestabili matrimoni misti tra cittadini italiani ebrei e non ebrei, i figli erano ebrei se praticavano il giudaismo o se erano iscritti alla comunità… Infine la legge prendeva in considerazione altri casi. Ai figli dei matrimoni misti nati tra l’1 ottobre 1938 e l’1 ottobre 1939 veniva lasciato qualche tempo per il battesimo; quelli nati dopo l’1 ottobre 1939 dovevano essere battezzati entro dieci giorni. Coloro che erano nati prima dell’1 ottobre 1938, ma in seguito si erano sposati con ebrei, erano soggetti a varie disposizioni molto complesse.»
Alcune norme prevedevano che in taluni casi gli ebrei sottoposti alle leggi razziali potessero essere «discriminati». Furono esentate alcune categorie: parenti stretti degli ebrei caduti, feriti o decorati nella guerra di Libia, nella Prima guerra mondiale, nella guerra d’Etiopia e in quella di Spagna e anche i famigliari dei volontari di quelle guerre. Naturalmente le esenzioni erano soggette a una serie di limitazioni. La commissione del ministero degli Esteri preposta prendeva decisioni caso per caso e ben presto non furono tanto i meriti di guerra, ma le bustarelle e le corruzioni a decidere chi tra gli ebrei poteva essere discriminato e chi no. I benefici non erano in ogni caso complessivi, ma potevano riferirsi a qualche aspetto soltanto della legislazione fascista e potevano essere soggetti a revoca, senza la necessità di spiegazioni.
Negli anni successivi furono emanate numerose altre leggi che avrebbero dovuto servire a dipanare i vari contenziosi emersi dall’applicazione delle prime norme. Nel luglio del 1939 per esempio il governo favorì alcune iniziative dette di arianizzazione, cioè istituì una commissione che poteva dichiarare chi era ebreo e chi era ariano. Gli ebrei riconosciuti ariani venivano completamente liberati dall’incubo delle leggi della razza: una situazione grottesca in linea con la corruzione generale della burocrazia fascista che trovò nella nuova legge una comoda fonte di arricchimento illecito. In un primo momento furono concesse deroghe alle leggi razziali per coloro che avevano motivi fascisti o patriottici e sulla base di un censimento segreto dell’1 agosto 1938 non meno di 3500 famiglie su 15.000 ne beneficiarono. L’arianizzazione invece tornò a vantaggio di pochi ebrei ricchi e di pochi gerarchi corrotti. Nei mesi successivi, soprattutto dopo il Patto d’Acciaio, apparve chiaro che l’atteggiamento filosemita delle masse popolari italiane era molto forte anche tra coloro che si dichiaravano fascisti, e le presunte «discriminazioni» e «arianizzazioni» servivano a far ottenere un trattamento di favore a chi poteva pagare. Pare che i tedeschi, di fronte a queste leggi confuse, si fossero convinti che erano trucchi organizzati da una parte delle autorità fasciste per aiutare gli ebrei. Dopo il 1943 la situazione andò peggiorando. Le persecuzioni, pur prestandosi a equivoci, se non raggiunsero il livello di brutalità dei nazisti, non furono meno umilianti né meno sconvolgenti. La buffonata dell’antisemitismo italiano rivelava il volto opportunista, becero e incredibilmente cinico, anche se non per questo meno tragico, del fascismo italiano.
La legislazione razziale si protrasse comunque fino alla fine della guerra: Badoglio, dopo il 25 luglio 1943, non cambiò le leggi razziali e la Repubblica Sociale Italiana le applicò fino al momento in cui il Manifesto programmatico del Partito Fascista Repubblicano annunciò, nel dicembre del 1943, al punto 7: «Gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri. Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica» e fu ordinato a tutti gli ebrei di consegnarsi per entrare nei campi di concentramento. Nel gennaio del 1944 fu annunciata la confisca di tutti i loro beni mobili e immobili.
L’opinione pubblica italiana, nonostante l’intensa propaganda del regime, non accolse con entusiasmo le leggi razziali. Lo dimostra il fatto che ben presto i giornali del regime si scatenarono contro coloro che si erano schierati dalla parte degli ebrei e che venivano bollati come «pietisti», «cuori teneri», «giudei onorari» o «animule tenerelle». Gli ammonimenti non scoraggiarono gli oppositori e allora si fecero strada intimidazioni più aspre: coloro che difendevano gli ebrei dovevano essere considerati antifascisti e trattati di conseguenza. Starace bollò i pietisti come borghesi, come antifascisti dotati di «meticciato morale» e che andavano additati al ludibrio e alla vendetta fascista.
I rapporti con la Chiesa, già tesi dopo l’intervento di Pio XI contro i provvedimenti razzisti, non peggiorarono perché la Santa Sede scelse una linea ufficiale prudente, anche se all’interno del mondo cattolico le voci di dissenso furono numerose e ripetute. I fascisti replicarono con diverse pubblicazioni in cui veniva ricordato che la Chiesa aveva sempre perseguitato gli ebrei e che ora i fascisti non facevano nulla di nuovo o di così originale da dover essere condannati. Giovanni Preziosi stampò su «La Vita Italiana» ampi stralci di articoli apparsi tra il 1890 e il 1900 in «Civiltà cattolica», in cui si coglievano chiari esempi di antisemitismo cattolico. Farinacci, in una conferenza a Milano, dopo aver notato che l’antigiudaismo era stato una costante della politica e del pensiero cattolico, disse esplicitamente: «Se, come cattolici, siamo diventati antisemiti lo dobbiamo agli insegnamenti che ci furono dati dalla Chiesa durante venti secoli» e si domandò: «Che cosa è avvenuto, che la Chiesa ufficiale si sente oggi non più antisemita, ma filosemita? Non vogliamo credere che si avveri quella stolida vanteria confessata dagli ebrei al Simonini e che il Simonini rivelava al padre gesuita Barruel: “Noi nella sola Italia abbiamo più di ottocento ecclesiastici… e non disperiamo avere anche un papa nel nostro partito…”». Con molta baldanza il gerarca fascista faceva riferimento alla possibilità di infiltrazioni giudaiche all’interno della Chiesa.
La morte di Pio XI e la baldanza fascista piegarono a poco a poco la resistenza degli oppositori alle leggi della razza. Padre Agostino Gemelli nel 1939 si scagliò contro il popolo deicida ricordando la terribile condanna che aveva da secoli su di sé, «per la quale va ramingo nel mondo, incapace di trovare la pace di una patria, mentre le conseguenze dell’orribile delitto lo perseguitano ovunque e in ogni tempo». Farinacci, entusiasta, chiese a Mussolini di nominare l’ecclesiastico accademico d’Italia.
Le leggi del novembre 1938 furono probabilmente il frutto dell’avvicinamento politico tra Mussolini e Hitler, ma anche lo sviluppo obbligato di una ideologia reazionaria che doveva dirottare il malcontento popolare per soffocarlo, creare capri espiatori, inventare complotti e nemici invisibili «demo-pluto-giudaico-massonici». Spregiudicatamente, Mussolini non trovò di meglio che servirsi di uomini quali Preziosi, Farinacci, Interlandi per propagandare idee alle quali in numerose occasioni aveva dimostrato di non credere neanche un poco. Il capo del fascismo si rendeva conto, tuttavia, che occorreva dare a molti fascisti scopi sia pure illusori per i quali battersi. «La decisione del duce di rompere con gli ebrei non fu dovuta» ha scritto Meir Michaelis «ad alcuna irresistibile pressione straniera, ma al suo riconoscimento del mutamento di alleanze dell’Italia in Europa e soprattutto alla sua volontà di cementare l’alleanza con la Germania, eliminando ogni contrasto stridente nella politica delle due potenze.» Che poi il nazismo abbia influenzato il fascismo in questo campo appare fuori di ogni dubbio, anche se il razzismo moderno nato dal fenomeno ottocentesco si era diffuso già capillarmente in numerosi paesi europei. Ancora nel 1936 Vittorio Emanuele III, parlando con il ministro tedesco Hans Frank, dichiarava di non capire l’antisemitismo del Führer, che in Italia non vi erano cittadini più esemplari degli ebrei. Peccato che non se ne sia ricordato nel momento in cui si trovò ad apporre la firma sotto il regio decreto delle leggi razziali.
«Il fascismo in fondo» ha scritto Ugo Caffaz «è un poco l’immagine dell’uomo complessato e insicuro, quasi impotente che cerca attraverso i simboli, camicia nera, manganello e stivali, una continua autoaffermazione. Creare una figura diversa da denigrare come inferiore per poter affermare la propria personalità diventa fondamentale per il consolidamento ideologico politico del fascismo.»
«La difesa della razza», «Il diritto razzista» e «Razza e civiltà» furono tre strumenti di questa spregiudicata operazione propagandistica alla quale aderirono illustri studiosi con numerosi articoli. Non fu facile infatti scatenare in breve tempo un’intensa campagna di odio razziale senza ricorrere a provocazioni violente che avrebbero potuto essere controproducenti. La pubblicistica e i giornali fascisti sfruttarono soprattutto quel tenace substrato di antichi pregiudizi di matrice cattolica che esisteva già e si sforzarono di far passare alcune parole d’ordine semplificate: gli ebrei sono cattivi, gli ebrei sono nemici del fascismo e del nazismo, il fascismo e il nazismo sono buoni; l’ebreo diventa dunque un uomo infido dai mille volti. Occorreva dimostrare che i nemici erano potentissimi e intelligenti perché solo così era possibile sostenere che anche i fascisti erano molto intelligenti. Un capro espiatorio, per essere tale, deve suscitare invidia e timore; nel caso specifico l’ebreo, con la sua lunga tradizione di perseguitato, era un ottimo punto di riferimento di tanti stereotipi, mitico nella sua arte di arrangiarsi, capace di salvarsi sempre nonostante tutto, cervello di ogni nefanda macchinazione: occorreva esaltarlo per poterlo compiutamente denigrare. Più che sostenere che gli ebrei erano biologicamente inferiori, il fascismo preferiva dipingere i propri avversari come amorali, senza ideali, privi di generose passioni, dediti al sesso e non all’amore, per citare solo alcune di quelle tragiche amenità.
Preziosi, che sin dagli anni Venti aveva insistito sui legami internazionali degli ebrei, ebbe gioco facile nel rilanciare nel 1937, e poi in seguito, con sempre maggior successo e insistenza, l’idea del complotto contro il fascismo da parte di oscure forze «demo-pluto-giudeo-massoniche». Nel 1939 Paolo Orano pubblicò Inchiesta sulla razza, un testo che introduce un motivo, se non nuovo, interpretato in un nuovo modo, contro il mondo ebraico: l’attacco al sionismo. Dimenticando che si trattava di un movimento nazionale, Orano si sforzava di far passare la parola d’ordine secondo cui il sionismo era antifascista, gli ebrei erano geni dell’alta finanza, predatori di cattedre universitarie, trasformisti, capitalisti e comunisti insieme, veri camaleonti. Giuseppe Maggiore, in Razza e fascismo, sostenne che gli ebrei non si assomigliavano nei lineamenti quanto nella bassezza dei loro sentimenti e nella predisposizione alla ricchezza. Telesio Interlandi, direttore de «La difesa della razza», insistette invece sulle idee di purezza della stirpe e sulla necessità di liberarsi dall’inquinamento del sangue semita. Mario Lolli, in Ebrei, chiesa e fascismo, sostenne che occorreva stare in guardia contro il complotto ben illustrato ne I Protocolli e sottolineò la pericolosa predisposizione ebraica all’omicidio rituale.
Le fonti che riportano i dati sulle vittime delle persecuzioni nazifasciste sono pressoché concordi; le differenze sono dovute al fatto che di circa 900-1100 persone si sono perdute completamente le tracce e non è stato possibile arrivare alla loro identificazione. Nel periodo dell’occupazione tedesca gli ebrei in Italia erano ridotti a 33.360, mentre quelli dei possedimenti italiani delle Isole Egee erano circa 1900. Nei venti mesi dal settembre 1943 all’aprile 1945 le vittime, fra deportati e morti in Italia, identificate ed elencate ne Il libro della memoria. Gli Ebrei deportati dall’Italia (1943-1945) di Liliana Picciotto Fargion, furono 8869 tra i primi e 1820 tra i secondi (pari al 27% e al 96% degli ebrei).
Il piano di sterminio degli ebrei europei era in pieno svolgimento sin dai mesi dell’estate del 1941. In Italia il numero di ebrei fissato dal censimento del 1938 era di 58.000, una cifra che comprendeva numerosi ebrei stranieri di recente immigrazione. Alla caduta del fascismo si stima che ci fossero in Italia 40.157 ebrei di cui 6500 stranieri. Il censimento del 1938 non era basato su criteri seri e in ogni caso vi furono inclusi sia convertiti che non si consideravano più ebrei sia figli non ebrei di matrimoni misti: in tutto 11.756 persone. Alla fine del 1938 dunque gli ebrei erano 46.656, di cui 9415 stranieri e 37.241 italiani. Inoltre dallo studio di Renzo De Felice, Gli ebrei in Italia sotto il fascismo, è possibile sapere che della popolazione ebraica di nazionalità italiana residente in Italia fino alla fine del settembre 1938 circa 6000 persone si trasferirono all’estero prima della chiusura delle frontiere e circa altrettanti si convertirono prima del luglio 1943. Gli ebrei stranieri erano spesso di passaggio; il loro destino era legato al decreto di espulsione emanato il 7 settembre 1938 e a quello di internamento del 15 giugno 1940 e se avevano ottenuto la cittadinanza dopo il 1919, l’avevano perduta in base alle nuove norme contenute nelle leggi razziali. Come viene notato dalla Picciotto Fargion, tra il settembre 1938 e il giugno 1940 circa 6000 lasciarono l’Italia e 10-11.000 vi entrarono. Alla metà del giugno 1940 su ordine del capo della polizia 3777 persone, uomini, donne, bambini, tutti profughi stranieri, furono internate.
Fino all’8 settembre del 1943 in Italia la situazione non precipitò, nonostante la tragedia della deportazione e dello sterminio trovasse il suo compimento già in molti altri paesi d’Europa: a est i tedeschi da tempo stavano sterminando sistematicamente le popolazioni ebraiche e nel 1942 le retate e le uccisioni erano cominciate in Belgio, nei Paesi Bassi e nella Francia occupata. In Francia il governo di Vichy accettò di consegnare gli ebrei stranieri ai nazisti perché li deportassero: furono 7000 entro il mese di agosto; alla fine del 1942 circa 42.500 ebrei erano stati deportati dalla Francia, inclusi 6000 bambini.
Ben diverso fu in molti casi il comportamento delle forze armate italiane. Nell’estate del 1941 gli ustascia di Ante Pavelić si scatenarono in Croazia e furono i militari italiani, pur senza ricevere ordini precisi, a adoperarsi per salvare centinaia e centinaia di persone. Nel 1943 i nazisti avevano cominciato a rastrellare gli ebrei di Salonicco e lo Stato Maggiore italiano non solo rifiutò di seguirne l’esempio, ma prima chiese ai tedeschi di risparmiare gli ebrei italiani e poi con la complicità dei funzionari del consolato italiano vennero resi italiani anche molti che non lo erano affatto. Ogni giorno le liste venivano aggiornate e diventavano italiani coloro che stavano per essere deportati. Molti soldati inoltre andavano nei luoghi di raccolta fingendo di cercare le «loro mogli», ma in realtà per tentare di salvare giovani donne che stavano per essere deportate. Per molti di quei fuggiaschi fu soltanto un respiro di sollievo, poiché in seguito i nazisti li avrebbero braccati e deportati.
In Italia nel settembre ci furono gravi episodi di violenza a Merano e il giorno 16 il presidente della comunità di Venezia Giuseppe Jona, cui i tedeschi avevano chiesto la lista degli ebrei, si suicidò. Altri drammi si verificarono con ripetuti, ma ancora isolati, assassinii a Stresa, ad Arona, a Meina e in altre località del Lago Maggiore.
A Roma il rabbino Israele Zolli, dopo aver cercato di convincere i dirigenti della comunità a dare l’allarme, si era rifugiato in Vaticano. È probabile che in quei mesi di solitudine sia maturata la sua vocazione a convertirsi al cattolicesimo e tra le mura vaticane abbia pensato di cambiare il suo nome in Eugenio Zolli. Alla fine del mese Herbert Kappler, capo della Gestapo, aveva imposto alla comunità ebraica romana una taglia di cinquanta chili d’oro da pagare entro 36 ore, minacciando in caso contrario la deportazione di duecento persone. I cinquanta chili d’oro non furono sufficienti e il riscatto fu solo un inganno: all’alba del 16 ottobre, alle ore 5.30, i nazifascisti iniziarono una vasta razzia nel ghetto di Roma e arrestarono 1259 persone sulla base di liste accuratamente preparate.
Difficile dire perché tutti rimasero tranquillamente nelle loro case, nonostante il pericolo fosse certamente incombente. Settimio Sorani testimoniò: «Allora alla metà del 1943 io sapevo tutto ciò che si sa oggi. Tutto». Sorani cercò di spingere Dante Almansi, presidente dell’Unione delle comunità, e Ugo Foà, presidente della comunità di Roma, ad avvertire del pericolo gli ebrei romani, ma essi, forse convinti che non vi fosse una vera minaccia imminente, o che la clandestinità potesse scatenare i nazisti eccitando le loro vendette, forse pensando che non fosse possibile trovare nascondigli per tutti, o nella speranza di una rapida liberazione della città da parte degli Alleati, o per altre riflessioni sconosciute, non si mossero. Gli stessi ebrei romani erano, nonostante l’evidenza dei fatti, relativamente fiduciosi (anche se certo non è facile interpretare gli avvenimenti con il senno di poi). I pochi sopravvissuti ripeterono poi le stesse parole: «Pensavamo che qui non potesse accadere».
Giacomo Debenedetti, nella descrizione della grande retata, ricorda che trascorse il 16 in casa di una sua vicina e che costei si lasciò sfuggire che «la razzia era prevista: infatti un suo conoscente, impiegato all’anagrafe, le aveva confidato giorni prima che si erano dovuti ammazzare di lavoro per certi elenchi di ebrei che bisognava approntare per i tedeschi».
«Gli ebrei polacchi» ha osservato Susan Zuccotti «pensavano che certe cose potessero accadere solo in Germania. Gli ebrei tedeschi pensavano che potessero accadere soltanto in Polonia. Gli ebrei francesi credevano che in Francia potesse accadere solo agli ebrei stranieri. Gli ebrei italiani, che avevano lo stesso aspetto e lo stesso modo di parlare e di lavorare dei compatrioti cristiani e che nel passato avevano conosciuto poche manifestazioni di antisemitismo, pensavano che potesse succedere dovunque, ma non nella civilissima Italia. Erano sempre stati buoni italiani, e il concetto d’una punizione immeritata era inconcepibile. In un certo senso credevano ciò che desideravano disperatamente credere. D’altra parte, la realtà della “soluzione finale” sfidava l’immaginazione di tutti gli europei ante Olocausto e spesso continuava a sfidarla fino a quando incominciava ad affluire il gas letale.»
Il convoglio di deportati partì da Roma il 18 ottobre e giunse ad Auschwitz il 22. Il giorno dopo finirono nelle camere a gas 839 persone sui 1022 deportati nel campo di sterminio, uomini donne e bambini.
La notizia della retata si propagò in città in un baleno: una giovane principessa italiana, Enza Pignatelli Aragona Cortés, corse affannata a dar la notizia della tragedia al papa in Vaticano. Alcune fonti sostengono che negli ambienti vaticani si sapesse di una possibile razzia sin dall’11 ottobre. Il segretario di Stato cardinale Maglione convocò l’ambasciatore tedesco presso la Santa Sede Ernst von Weizsäcker e gli chiese di «voler intervenire a favore di quei poveretti». Quasi contemporaneamente monsignor Alois Hudal, rettore della Chiesa tedesca a Roma, scrisse una ferma lettera di protesta al generale Stahel: «La prego vivamente di dar ordine perché tali arresti vengano subito sospesi sia a Roma che nei dintorni; in caso contrario temo che il papa finisca per prendere pubblicamente posizione contro questi arresti».
Weizsäcker fece sapere a Berlino che la reazione del Vaticano alla deportazione degli ebrei di Roma si sarebbe fermata a queste iniziative diplomatiche. L’unica reazione ufficiale che seguì fu un articolo dal titolo La carità del Santo Padre del 25-26 ottobre apparso su «L’Osservatore Romano»: «L’Augusto Pontefice, com’è risaputo, dopo essersi invano adoperato per scongiurare lo scoppio della guerra… non ha desistito un solo momento dal porre in opera tutti i mezzi in suo potere per alleviare le sofferenze che in qualunque modo sono conseguenza dell’immane conflagrazione. Con l’accrescersi di tanti mali è divenuta, si direbbe, quasi più operosa la carità universalmente paterna del Sommo Pontefice, la quale non si arresta davanti ad alcun confine né di nazionalità né di religione né di stirpe». Troppo tardi e troppo poco: ormai quegli uomini, quelle donne, quei bambini erano già stati assassinati in Germania. Weizsäcker, che giudicò contorto e nebuloso l’articolo, fece sapere che «solo un ristretto numero di persone vi riconosce una allusione speciale al problema ebraico».
Il papa non intervenne mai pubblicamente. Monasteri e chiese erano pieni di rifugiati ebrei e non ebrei; secondo lo storico Michael Tagliacozzo, 477 trovarono asilo in Vaticano e 4238 si sparpagliarono nei conventi e nei monasteri della capitale dove furono accolti. Le parrocchie nascondevano con generosità e sprezzo del pericolo, gravissimo, centinaia di sfollati o di clandestini. Di questa situazione è probabile che fossero a conoscenza anche i tedeschi e i fascisti che in qualche caso sporadico si introdussero con la forza all’interno di alcuni monasteri arrestando delle persone. Gli ebrei romani sfuggiti alla prima retata erano ancora molti, alcune migliaia, ma le retate organizzate su vasta scala furono sospese, anche se la caccia all’uomo non ebbe mai fine fino al giorno della liberazione di Roma.
Preti e suore rischiarono la vita per questa loro attività clandestina di aiuto agli ebrei; forse una parola del papa li avrebbe aiutati, ma Pio XII non lo fece. Perché il papa si limitò a lavorare dietro le quinte e non intervenne con una dichiarazione pubblica? Le polemiche su Pacelli sono sempre state molto aspre e gli storici ebrei e non ebrei si sono trovati molto discordi nel valutare il suo operato: secondo Reitlinger la mancata protesta del papa fu motivata non da cristiana prudenza, ma da non cristiana viltà; secondo Lewy e De Felice il pregiudizio antisemita gli impedì di comprendere la condizione degli ebrei con esatta percezione dell’urgenza e dell’oltraggio morale. Se avesse parlato la mobilitazione dei cristiani contro il nazismo si sarebbe rafforzata e la sua voce autorevole avrebbe potuto essere sentita, attraverso la Radio Vaticana, urbi et orbi; secondo il cardinale Tisserant Pio XII non riuscì a dar guida morale al suo gregge. C’è chi dice che, memore della reazione dei nazisti in Olanda, dove migliaia di preti e suore avevano condiviso la tragica fine dello sterminio con gli ebrei che avevano difeso, egli abbia scelto la strada del male minore, ad maiora mala vitanda, magari dopo un’intensa sofferenza personale; altri che, tacendo, egli abbia voluto non mettere a repentaglio le vite di coloro che erano nascosti a Roma e che avrebbero potuto restare indirettamente vittime delle reazioni scatenate dalle sue parole. Ognuna di queste ipotesi può contenere motivi di verità e del resto chi può conoscere gli intimi pensieri e i segreti tormenti di un uomo? Sarà forse possibile dipanare la questione solo quando si potranno consultare compiutamente gli archivi vaticani.
L’unica cosa che si può affermare senza tema di smentite è che il papa scelse il silenzio e Hitler ebbe motivo di essere soddisfatto: istituzioni di grande rilevanza mondiale come la Chiesa Cattolica Romana o la Croce Rossa Internazionale si erano trattenute dal pronunciarsi apertamente con appelli pubblici in favore dei perseguitati. Le deportazioni sistematiche in atto nelle regioni dell’Est erano già note in molti ambienti diplomatici e anche alla Santa Sede almeno sin dal maggio del 1943. Monsignor Montini scrisse di essere a conoscenza che il ghetto di Varsavia non esisteva più. In alcune occasioni la Chiesa si preoccupò forse di più degli ebrei cattolici, cioè di quelli che si erano convertiti. A costoro si riferiva il cardinale Maglione in una lettera all’arcivescovo di Vienna in cui sosteneva che in vari paesi, Croazia, Slovacchia, Romania, Ungheria, Francia, si era riusciti a risparmiare a molti di costoro la deportazione. Maglione e Montini intervennero tuttavia in altre occasioni anche a favore degli ebrei francesi e croati. Il papa invece non intervenne mai direttamente, non soltanto in occasione degli avvenimenti che toccarono più specificatamente gli ebrei, ma anche in molte altre nel corso di quegli anni tumultuosi: neanche quando i nazisti assassinarono 335 ostaggi alle Fosse Ardeatine.
La tragedia della deportazione degli ebrei romani restò senza eco anche sui giornali ufficiali italiani. Alla retata non seguì alcuna reazione né alcuno cercò o poté tentare di fermare quel treno della morte. Alla razzia non partecipò la polizia italiana, forse perché i nazisti non si fidavano troppo, ma dal 16 ottobre 1943 al giugno 1944 furono arrestati, in seguito a delazioni e tradimenti, almeno altri 835 ebrei romani in gran parte a opera della polizia italiana. I nazisti avevano offerto ricompense che, dati i tempi, qualcuno pensò bene di incassare.
Occorre tuttavia ricordare che se le vittime dell’occupazione della capitale furono in quei nove mesi almeno 1700, altre migliaia furono coloro che sopravvissero e ognuno di costoro fu debitore della vita ad almeno un cittadino italiano non ebreo che aveva messo a rischio non solo la propria vita, ma in qualche caso anche quella dei suoi famigliari. Sulla propria pelle la comunità romana fece esperienza della brutalità di alcuni uomini e della grande solidarietà di tanti altri.
Altre retate e deportazioni continuarono nei mesi di novembre e di dicembre in numerose città della penisola. A Genova la Curia con il cardinale Boetto e il suo aiutante, il futuro cardinale Siri, si prodigarono fino all’ultimo nell’opera in favore degli ebrei. A Firenze il cardinale Elia Della Costa fu figura di spicco e punto di riferimento per molti fuggiaschi. A Milano numerosi furono rinchiusi a San Vittore ed esistono testimonianze toccanti di solidarietà umana all’interno del carcere. Alcuni treni partirono da Milano prima della fine del novembre 1943.
La mattina dell’1 dicembre un telegramma del ministro della Repubblica Sociale Guido Buffarini Guidi, spedito a tutte le strutture periferiche, comunicò che gli ebrei dovevano essere inviati in appositi campi di concentramento, fossero essi italiani o stranieri, discriminati o no.
Pur perseguitati da due mesi e mezzo, gli ebrei italiani diventavano ora ostaggi, in balia di qualsiasi traditore, e dall’inizio di dicembre alla metà di febbraio dell’anno successivo i fascisti italiani collaborarono nella caccia ai fuggiaschi. Buffarini Guidi nel gennaio 1944 cercò di convincere le autorità tedesche a lasciare gli ebrei in territorio italiano, ma non ebbe soddisfazione. Internare diventò da quel momento una parola che ne nascondeva un’altra di ben più nefando significato: portare gli ebrei in Germania per la «soluzione finale».
In Italia i lager furono quattro. Borgo San Dalmazzo, aperto il 18 settembre 1943, fu chiuso il 21 novembre perché gli ebrei che vi erano stati imprigionati furono evacuati verso Drancy in Francia. Dopo il 30 novembre 1943 fu messo in funzione il campo di Fossoli nei pressi di Carpi (Modena) che le SS tedesche occuparono l’8 febbraio facendo partire molti treni diretti verso la Germania, verso i campi di sterminio. Lo stesso Buffarini Guidi visitò il campo tra la fine di giugno e i primi giorni di luglio, offrendo così un avallo alle deportazioni dei nazisti. Fu chiuso il 2 agosto del 1944. Un altro campo fu organizzato a Gries, un sobborgo di Bolzano, e un altro ancora a San Sabba vicino a Trieste, dove furono sterminati moltissimi partigiani, molti antifascisti e molti ebrei: non si trattò infatti solo di un punto di raccolta da cui partirono verso il Nord molti treni carichi di deportati, ma anche di un luogo di truce sterminio: pare che le vittime siano state circa 4000-5000.
Fino all’ultimo le autorità della Repubblica Sociale, in combutta con l’alleato nazista, cercarono con puntiglio di continuare la caccia all’uomo, quasi a non voler comprendere che la guerra stava finendo con la loro sconfitta o forse cercando proprio per questo di aggiungere, fino alla fine, distruzione a distruzione.
Gli ebrei che si salvarono, e come si è potuto vedere furono la stragrande maggioranza, riuscirono a vincere questa terribile partita perché molti italiani non solo non li tradirono, ma contribuirono ad aiutarli giorno per giorno difendendoli da autorità pusillanimi e opportuniste a prezzo di pericoli e sacrifici. Se ci furono antisemiti, molti di più furono coloro che seppero mostrare in momenti terribili coraggio e solidarietà umana: solo così si spiega che circa l’85% degli ebrei italiani si sia salvato. Numerosi tra quelli che aiutarono ebrei in difficoltà risposero, a chi chiedeva perché lo avessero fatto, che «chiunque al mio posto avrebbe fatto lo stesso».
Hulda Cassuto Campagnano, una testimone ebrea di Firenze al processo Eichmann, dichiarò che «ogni ebreo italiano che è sopravvissuto deve la sua vita agli italiani». Ha scritto Meir Michaelis: «Ma se è vero che almeno quattro quinti degli ebrei che vivevano in Italia riuscirono a sfuggire alle SS e che la maggior parte di questi fu salvata da “ariani” italiani di ogni ceto, non è men vero che i successi ottenuti da Bosshammer furono dovuti in larga misura a collaboratori (volenti o nolenti) italiani».