Due date, a distanza di cento anni, segnano il periodo di più intenso dibattito tra mondo marxista e mondo ebraico: nel 1843 il giovane Karl Marx scrisse La questione ebraica, nel 1943 Abraham Léon, che sarebbe morto un anno dopo ad Auschwitz, scrisse La concezione materialistica della questione ebraica.
A metà dell’Ottocento Bruno Bauer aveva sostenuto che gli ebrei non avevano diritto di chiedere di essere emancipati: la loro era una pretesa egoista e contraddittoria, un tradimento della battaglia comune contro l’assolutismo prussiano, ed esprimeva il desiderio assurdo che lo Stato cristiano rinunciasse al proprio pregiudizio religioso senza ricevere nulla in cambio, neanche la loro rinuncia a far parte del popolo ebraico e a sentirsi popolo eletto. Il cristiano, aveva concluso Bauer, per liberarsi e quindi emanciparsi, doveva superare solo il gradino della propria religione, mentre l’ebreo doveva rompere prima con la propria essenza ebraica e poi con lo sviluppo dell’ebraismo, cioè con il cristianesimo, che per secoli gli era rimasto estraneo e a cui non era ancora arrivato.
Marx intervenne con il suo saggio nella polemica scatenata da Bauer e sostenne alcune tesi che suscitarono scalpore. Respinse l’impostazione teologica del problema e si chiese quale ostacolo sociale, non religioso, avrebbe dovuto superare l’ebreo per emanciparsi. Dopo aver sottolineato che il commercio era il culto mondano dell’ebreo e il denaro il suo dio mondano, Marx osservò che commercio e denaro non erano solo una caratteristica ebraica, ma il fondamento dell’intera società capitalistica borghese. Il giudaismo si era conservato non malgrado la storia, ma grazie alla storia; la sua sopravvivenza era giustificata non da un intervento divino e provvidenziale, bensì dal ruolo economico svolto nei secoli dagli ebrei. La questione ebraica pertanto non aveva alcun carattere metafisico né poteva essere spiegata con elucubrazioni leggendarie sul popolo ebraico o sull’ebreo errante.
In polemica con Bauer, Marx sostenne che gli ebrei avevano diritto alla completa emancipazione politica e sociale e che tale processo poteva avere compimento nell’ambito di un rinnovamento di tutta la società. Agli occhi del profeta del comunismo il giudaismo era un fenomeno tutto negativo, da cui era indispensabile che gli ebrei fossero liberati.
Il 1943 è l’anno della pubblicazione del libro di Léon, ma anche dell’insurrezione del ghetto di Varsavia (aprile-giugno) e della rivolta a Treblinka (nell’estate). In entrambi i casi uomini di ideologie diverse furono fianco a fianco: militanti marxisti, sionisti di sinistra, antisionisti del Bund (Unione operaia ebraica di Russia e di Polonia), tutti uniti contro l’oppressore nazista. Léon scrisse il libro mentre i nazisti si scatenavano contro giudei e bolscevichi, considerati un solo nemico, e i suoi interrogativi sulla storia ebraica e sulle particolarità della sopravvivenza ebraica furono travolte dalla bufera del conflitto.
Lo sterminio della Seconda guerra mondiale e la nascita dello Stato di Israele hanno cambiato profondamente gli scenari in cui si era svolto il dibattito ideologico iniziato da Marx e simbolicamente concluso da Léon: le grandi masse ebraiche polacche e russe, chiamate l’Yiddishland, sono state spazzate via e il sionismo ha trovato il proprio compimento nella fondazione di Israele.
I seguaci di Marx sono rimasti prigionieri di alcuni dilemmi classici: gli ebrei dovevano essere considerati una nazione? E con quali caratteristiche? Erano una casta? Dovevano assimilarsi? Qual era la natura dell’antisemitismo?
L’Illuminismo aveva offerto agli ebrei l’emancipazione individuale, ma aveva considerato l’ebraismo alla stregua di un’anomalia sociale: tutto veniva garantito all’individuo, nulla veniva offerto alla comunità che doveva scomparire. Conservatori e progressisti erano in disaccordo su tutto, tranne che su un punto: gli ebrei dovevano annullare il loro ebraismo e rigenerarsi dopo le dure prove dell’oppressione subite nei secoli che ne avevano fiaccato le qualità morali e fisiche. La parola emancipazione esprimeva un giudizio negativo sulla loro storia precedente e sulla loro identità ebraica. Molti ebrei finirono per accettare questa impostazione ideologica e identificarono l’idea di progresso con quella di assimilazione; lo stesso padre di Marx, Herschel, pur provenendo da un’antica famiglia di celebri rabbini, abbandonò l’ebraismo e passò alla minoranza protestante.
Il marxismo aveva ereditato questa mentalità illuminista, ed era influenzato da una visione del mondo di tipo determinista e positivista. Sulla questione ebraica esso ebbe un punto fermo: gli ebrei dovevano assimilarsi. Marx aveva espresso questo concetto dicendo che la loro emancipazione si sarebbe realizzata quando tutta la società si fosse liberata dal giudaismo, considerato un relitto dei tempi passati. Le sue idee hanno avuto interpretazioni diverse: alcuni, cogliendo qualche corrispondenza formale, le hanno viste come ispirate al messianesimo giudaico-cristiano, altri, sottolineandone le asprezze e le generalizzazioni polemiche, le hanno bollate come antisemite. Il suo amico Friedrich Engels considerò l’odio per gli ebrei un residuo medievale duro a morire, soprattutto nei paesi arretrati dell’Est europeo, e manifestò anch’egli l’opinione che sarebbe scomparso con lo sviluppo sociale di quei popoli.
Il marxismo europeo fu alimentato in gran parte da pensatori di origine ebraica e fu quindi fatale che il problema ebraico riemergesse spesso nell’ambito di una più generale riflessione sulle nazioni e sul loro destino. Nella socialdemocrazia tedesca i principali animatori del dibattito tra marxismo e mondo ebraico furono Oskar Cohn, Hugo Haas, Josef Herzfeld, Kurt Rosenfeld, Josef Bloch e Eduard Bernstein.
Gli esponenti di primo piano dell’austromarxismo, tranne Karl Renner, erano quasi tutti ebrei assimilati: Viktor Adler, Friedrich Adler, Friedrich Austerlitz, Otto Bauer, Rudolf Hilferding e Max Adler. Erano ebrei anche i capi della Repubblica dei Consigli Bavarese: Kurt Eisner, Eugen Levine, Eric Müsham, Ernst Toller e Gustav Landauer, e la maggioranza dei dirigenti della Repubblica Ungherese rivoluzionaria, tra cui Béla Kun, György Lukács, Josef Revai, Máthyas Rákosi. Tra gli spartachisti ricordiamo Rosa Luxemburg, Leo Jogisches, Karl Radek, Paul Frölich.
A questi rivoluzionari il marxismo e i suoi ideali erano sembrati l’unica via d’uscita all’antinomia ebraismo-antisemitismo, il primo eredità del passato e il secondo ideologia ed espressione delle classi dominanti. Essi erano intellettuali di tipo nuovo: né espressione delle vecchie classi privilegiate, né intellettuali organici, né legati a interessi accademici. Sotto il triplo impatto dell’affondamento del mondo borghese, della Rivoluzione d’Ottobre e dell’antisemitismo, come ha notato Eric Hobsbawm, un giovane intellettuale uscito dal ghetto, che non poteva aderire a un partito confessionale o a gruppi nazionalisti e antisemiti né poteva integrarsi per motivi di classe in un mondo borghese, aveva solo la scelta tra sionismo e marxismo.
Questi protagonisti della lotta rivoluzionaria avevano rotto con il mondo dei padri, in gran parte non avevano avuto il coraggio di convertirsi ed erano passati dalla fede ebraica a quella marxista, dallo studio della Toràh alla lotta per il proletariato internazionale, percorrendo una strada che allora era più ricca di ideali e di prospettive politiche: avevano trasformato un secolare desiderio di giustizia in una rivolta contro l’intera società capitalista. In qualche caso, avevano interiorizzato in modo molto intenso il pregiudizio che li aveva circondati ed erano pervenuti a un odio di sé e delle proprie origini detto jüdische Selbsthass: di questa crisi di identità e del rifiuto del proprio essere ebrei, comune a molti intellettuali del XIX e XX secolo, furono figure esemplari i viennesi Karl Kraus e Otto Weininger.
Léon Blum, Eduard Bernstein, Rosa Luxemburg, Lev Trockij si considerarono prima di tutto membri dell’Internazionale Socialista e continuarono a combattere con ogni energia per la vittoria del proletariato, anche quando la crescita dei movimenti totalitari antisemiti non solo rese la loro posizione personale più difficile, ma complicò la loro visione del mondo anche da un punto di vista ideologico mettendo in crisi alcune certezze apparentemente consolidate.
Fedeli al metodo hegeliano rivisto da Marx, i rivoluzionari in genere, e quelli ebrei in particolare, erano convinti che numerosi processi politici avrebbero trovato necessariamente la loro soluzione positiva nella nascita di una nuova società socialista. La loro interpretazione della storia era lineare e in qualche caso piuttosto schematica. Ridurre per esempio tutta la storia ebraica, che era stata tormentosa e frammentata in mille rivoli, a una vicenda di popolo-classe non appariva ai loro occhi come una forzatura, anche se impediva di cogliere non solo le caratteristiche culturali degli ebrei, ma anche le enormi differenze esistenti da luogo a luogo e da comunità a comunità.
Eduard Bernstein e Otto Bauer, il primo esponente della socialdemocrazia e il secondo dell’austromarxismo, ebrei assimilati, giudicarono la dissoluzione dei gruppi ebraici all’interno delle nazioni non tanto una scelta quanto il frutto inevitabile dello sviluppo della storia: nell’internazionalismo vedevano un sostituto dell’identità dei padri e rifiutavano quindi la soluzione offerta dalla Haskalàh, l’illuminismo ebraico, che prevedeva un doppio ruolo: cittadini nel mondo di ogni giorno, ebrei nel privato della famiglia. Questa prospettiva assimilazionista aveva forse un senso in alcuni paesi occidentali dove esistevano classi borghesi ormai integrate, ma si urtava con le condizioni storiche dell’Est europeo dove vivevano masse proletarie tenacemente legate al loro giudaismo ortodosso e dove esisteva una compatta comunità linguistica che parlava comunemente la lingua yiddish.
Negli anni a cavallo del secolo il dibattito marxista sulla questione ebraica ruotava attorno a due temi classici: antisemitismo e sionismo. Otto Bauer e Karl Kautsky, in linea con l’idea di sviluppo lineare e ineluttabile, cercarono di interpretarli alla luce della teoria marxista e dell’idea di nazione: l’antisemitismo era legato allo sviluppo del razzismo come ideologia imperialista e con l’evoluzione della società la questione ebraica sarebbe scomparsa e l’assimilazione sarebbe stata inevitabile.
Anche Viktor Adler, ebreo convertito al protestantesimo, parlò dell’emancipazione degli ebrei come della morte di Ahasverus, figura leggendaria dell’ebreo errante, e la considerò una vittoria sul feudalesimo. Il conflitto tra ebrei e antisemiti, secondo Adler, era un problema interno alla borghesia e i socialisti non dovevano compromettersi in questa faida interna: assumere la difesa degli ebrei contro la reazione antisemita significava porsi dalla parte di una componente della borghesia contro l’altra. Al congresso di Bruxelles della Seconda Internazionale, malgrado le proteste dei socialisti ebrei americani, Adler riuscì a imporre una mozione che condannava senza eccezioni antisemiti e filosemiti, considerati alla stessa stregua. Nonostante la sua origine ebraica, o forse proprio per questo, Adler aveva messo sullo stesso piano, in nome di una malintesa imparzialità, perseguitati e persecutori.
Anche Franz Mehring, che non era ebreo, considerava l’antisemitismo come espressione di un movimento sociale anticapitalista di natura romantica, di tipo feudale e quindi reazionario, e il filosemitismo come un’immagine riflessa e una variante della stessa ideologia capitalista. Addirittura considerava l’antisemitismo molto meno pericoloso del filosemitismo perché in fondo l’opposizione agli ebrei, secondo lui, era fatta di parole più che di azioni violente. Un operaio cosciente, diceva Mehring, avrebbe capito subito che una simile contrapposizione tra favorevoli e contrari agli ebrei non aveva senso.
Eduard Bernstein, ebreo berlinese assimilato, non manifestò mai odio nei confronti della propria identità ebraica, anzi ammetteva di avere simpatia per gli ebrei, pur non amando affatto quella che definiva Geldjudentum, «giudaismo del denaro», cioè la borghesia opulenta ebraica. La critica degli aspetti negativi del giudaismo non andava confusa con gli attacchi virulenti degli antisemiti. A suo dire l’antisemitismo non era solo il socialismo degli imbecilli, ma anche la boa di salvataggio del privilegio, cioè di coloro che temevano la concorrenza degli ebrei.
Al congresso di Colonia della socialdemocrazia tedesca, August Bebel cercò di trovare un criterio scientifico che gli permettesse di interpretare correttamente la storia ebraica: la sopravvivenza di una razza per tanti secoli non poteva non aver lasciato conseguenze negative e un marchio indelebile. La platea che seguiva il suo discorso ebbe uno scoppio di ilarità quando l’oratore paragonò gli ebrei agli zingari e manifestò a entrambi la sua simpatia: la loro conservazione, molto affine, secondo l’oratore si spiegava sulla base di un meccanismo deterministico fondato su leggi naturali.
Kautsky, uno dei pochi non ebrei a partecipare a questo dibattito, credette di poter individuare nella singolarità della condizione ebraica le caratteristiche di una funzione socioeconomica che aveva permesso agli ebrei di sopravvivere: l’abolizione delle peculiarità economiche avrebbe fatto perdere loro in poco tempo qualsiasi connotato speciale. Coloro che puntavano a una simile conservazione erano dei reazionari. Secondo Kautsky, l’antisemitismo sarebbe stato sconfitto perché la stessa avanzata del capitalismo industriale avrebbe abbattuto antiche barriere e la reazione della piccola borghesia sarebbe stata sconfitta. In Occidente erano antisemite le classi medie, che temevano l’iniziativa degli ebrei, mentre in Russia era il potere a usare gli ebrei come parafulmine dello scontento popolare. Di fronte a questo pericolo gli ebrei avevano la possibilità di scegliere due strade: la solidarietà proletaria o la solidarietà ebraica. La prima trovava la sua concretezza nella rivoluzione socialista, la seconda si esprimeva nel sionismo, che tuttavia, secondo Kautsky, era privo di futuro. Non sarebbe stato facile trovare uno spazio per uno Stato ebraico, né trasformare gli ebrei in contadini o creare in Palestina un’industria potente. Dopo la Prima guerra mondiale, pur colpito dall’idealismo dei primi pionieri e dalla risolutezza degli ebrei, egli continuò a manifestare scetticismo verso l’entusiasmo dei sionisti: non era possibile che resistessero a lungo e presto sarebbero tornati nelle città. L’avventura in Palestina avrebbe potuto concludersi in una tragedia perché non c’era alcun dubbio sulla vittoria finale del popolo arabo. «I pericoli per gli ebrei attirati in Palestina da un’aspirazione messianica» scriveva Kautsky nel 1926 «non esauriscono tutti i funesti effetti del sionismo. È forse una cosa di gran lunga peggiore che il sionismo stia sprecando le fortune e le risorse degli ebrei in una direzione sbagliata, in un momento in cui il loro vero destino viene deciso in un’arena completamente diversa, nella quale essi dovrebbero concentrare le forze.» Il sionismo infatti indeboliva il potenziale rivoluzionario nell’Europa orientale dove egli era convinto che si sarebbe giocata la sorte della rivoluzione marxista: «Gli ebrei sono diventati un fattore eminentemente rivoluzionario, mentre il giudaismo è diventato un fattore reazionario. È come una palla di piombo ai piedi degli ebrei che vogliono ardentemente progredire…».
Coerente e sistematico, Kautsky fu uno dei critici più attenti del sionismo in nome dell’ideologia marxista e le sue idee furono spesso un punto di riferimento per i suoi successori.
Otto Bauer, da parte sua, era convinto che in Occidente, dove gli ebrei facevano parte della borghesia, l’antisemitismo fosse una forma di anticapitalismo decadente, mentre in Oriente il fenomeno aveva un carattere nazionalistico e proprio dove esisteva un vasto proletariato ebraico si cercava di dividere le forze della sinistra. Il movimento operaio si trovava così nella condizione di dover combattere su due fronti, da un lato il nazionalismo ebraico detto sionismo e dall’altra il nazionalismo degli zar, un accostamento questo che metteva sullo stesso piano piccoli gruppi ebraici idealisti e l’Impero zarista. Sulle orme di Viktor Adler, Bauer metteva sionismo, nazionalismo e antisemitismo su uno stesso piano. Questa era anche una conseguenza della sua analisi dell’idea di nazione, intesa come comunità di destini, esempio di sedimentazione collettiva che non è necessariamente legata a un territorio. Bauer non applicò queste idee allo Ostjudentum, come sarebbe stato naturale e come invece fecero i bundisti, che colsero l’utilità dei suoi ragionamenti.
Gli ebrei, secondo Bauer, non rientravano nel concetto di nazione: erano vissuti negli interstizi della società feudale con una caratterizzazione economica che non si era spenta neanche nell’Europa orientale e avevano continuato a comportarsi da intermediari; non avevano una lingua, una tradizione in comune, ma solo una comunità di sangue. Poco informato sulla consistenza e sulle caratteristiche della Yiddishkeit, cioè del mondo yiddish, Bauer negò alle comunità orientali il diritto di essere una nazione, non tanto perché non avevano una loro terra, bensì perché privi di una cultura autentica che sapesse resistere alle insidie dell’assimilazione e perché usavano una lingua degenerata, un gergo disprezzabile che non aveva una propria produzione letteraria.
Bauer non credeva che fosse possibile un antisemitismo da parte dei lavoratori: semmai si lasciavano ingannare dalle apparenze dei vestiti degli ebrei che ai loro occhi parevano stranieri. Questi ultimi dovevano abbandonare costumi ormai superati e unirsi ai cristiani per combattere insieme in nome dell’unità di classe e difendere ogni altra minoranza oppressa.
L’ingenuità di alcuni marxisti era in qualche caso evidente: nel 1899 Karl Liebknecht su «Die Fackel», il giornale di Kraus, scrisse che non credeva che Dreyfus fosse innocente perché trovava inconcepibile che si potesse condannare uno perché era ebreo. Rosa Luxemburg non arrivò a tanto e difese apertamente Dreyfus sostenendo che nella vicenda si erano manifestati quattro aspetti preoccupanti: l’influenza del militarismo, dello sciovinismo, dell’antisemitismo e del clericalismo.
La rivoluzionaria rossa accettava di considerare gli ebrei come una nazionalità, ma rifiutava che potessero pensare alla realizzazione di una vera autonomia nazionale perché erano una popolazione senza territorio e quindi una nazione a metà; inoltre considerava il diffuso bilinguismo e trilinguismo come una predisposizione all’assimilazione e interpretava l’alterità ebraica come la somma di una diffusa arretratezza sociale che bisognava combattere e di una specificità religiosa superata dai tempi. L’unico vero patrimonio di quelle popolazioni era la lingua yiddish. L’antisemitismo era il frutto delle tensioni della società capitalista che cercava capri espiatori per scaricare su di loro le proprie contraddizioni; la campagna di odio contro gli ebrei nascondeva una campagna della borghesia contro il movimento operaio: non eredità medievali quindi, ma un fenomeno moderno di speculazione politica da parte del potere zarista, che aveva interesse a mobilitare le masse diseredate contro un falso scopo. Per risolvere l’antisemitismo non occorreva mobilitare gli strumenti della questione nazionale, ma bastava puntare con decisione all’assimilazione degli ebrei. Quanto al caso Dreyfus, secondo la Luxemburg doveva essere usato per combattere il militarismo, di fronte al quale l’antisemitismo si riduceva a ben poca cosa.
Nel piccolo mondo delle cittadine ebraiche di Lituania, Polonia, Ucraina e nelle zone di residenza coatta in Russia le parole d’ordine della lotta marxista non fecero grande breccia: la teoria dello sviluppo capitalista e l’idea di rivoluzione permanente non colpirono la fantasia di un proletariato ebraico che non lavorava nelle grandi fabbriche. Ai marxisti tedeschi e austriaci, in gran parte di origine ebraica e assimilazionisti, si contrapposero all’Est alcuni teorici marxisti di estrazione ebraica non assimilata che coniugarono in modo diverso esistenza ebraica e lotta rivoluzionaria.
Victor Medem, fondatore del Bund, e Ber Borochov, animatore di gruppi socialisti sionisti e fondatore del Poalè Zion (Operai di Sion), rivendicarono il diritto degli ebrei orientali ad avere una vita autonoma, in contrasto con l’opinione dei socialdemocratici e dei marxisti più ortodossi, che consideravano l’ebraicità come una caratteristica negativa da cui occorreva liberarsi.
Medem sostenne la necessità di un autonomismo ebraico e sviluppò l’idea di una nazionalità ebraica collegata alla cultura proletaria e alla lingua yiddish. Le sue idee furono accolte con ironia da Plechanov secondo cui i bundisti erano «sionisti che soffrivano il mal di mare».
Borochov invece voleva normalizzare la nazione con il territorio e fu animatore di un movimento sionista e socialista.
Il Bund di Medem e il Poalè Zion di Borochov, pur in modi diversi, cercarono di applicare i metodi marxisti alla specificità della Yiddishkeit e del suo proletariato ebraico.
In La questione nazionale e la socialdemocrazia (1904), apparso tre anni prima dell’omonimo e più conosciuto libro di Bauer, Medem mise in evidenza le caratteristiche nazionali della popolazione ebraica delle zone orientali sottolineando in particolare che l’yiddish, che molti consideravano un dialetto senza dignità, era in realtà un vero laboratorio culturale, espressione di una vita nazionale in senso proprio. Il programma del Bund prevedeva quindi un’autonomia nazionale culturale, anche se non per forza territoriale, e sosteneva la necessità di norme giuridiche atte a tutelare l’autonomia della Kehilah, la comunità, come organismo capace di gestire la vita nazionale ebraica nel seno di una federazione nazionale russa.
Dopo il congresso di Ginevra del 1904 Medem definì il sionismo come utopico, reazionario ed espressione della piccola borghesia ebraica, nonché frutto di una mentalità che aveva origine nei ghetti europei. Il motto del Bund era: «Qui e subito».
Nel 1905 Medem affinò la propria analisi sull’antisemitismo e ne individuò, accanto a quella consueta manovrata dagli zar, altre due forme non meno insidiose, una di tipo popolare che cercava di boicottare gli ebrei economicamente e un’altra, un a-semitismo di tipo slavofilo tipico della borghesia liberale, che puntava alla loro completa esclusione dalla vita sociale russa. Se prima la conversione e l’assimilazione erano teoricamente possibili, ora gli ebrei rischiavano non solo di non poter più coltivare la cultura ebraica a causa di leggi sempre più discriminatorie, ma di non trovare nemmeno aperta la strada verso un’assimilazione nella società russa. Stretti tra pressioni contrastanti, essi dovevano cercare una terza via: restare ebrei in un mondo moderno, legando la lotta per la sopravvivenza alle battaglie progressiste del movimento operaio. Ormai solo il proletariato ebraico poteva difendere la cultura ebraica.
Primo marxista a rifiutare in modo chiaro il dogma dell’assimilazione, Medem valorizzò le caratteristiche nazionali della questione ebraica spiegando che essa doveva essere risolta in Russia legando le fortune del Bund a quelle del movimento operaio internazionale.
Borochov invece fuse le idee del Bund con quelle del sionismo e propose un progetto internazionale basato sul Poalè Zion, che fondesse l’ideale sionista e quello socialista: stare in Russia non era possibile, accettare l’assimilazione degli ebrei nemmeno, la diaspora era un luogo senza possibilità di redenzione, l’antisemitismo era eterno e non poteva essere sconfitto, perché era una reazione fisiologica della società nei confronti delle minoranze, non solo un fenomeno arcaico, ma anche moderno, legato al progresso tecnologico. V’era un progresso tecnologico e uno morale, non necessariamente legati, e la tecnologia avrebbe potuto essere il motore di persecuzioni più gravi e di nuove barbarie in una società capitalista. L’unica soluzione possibile, secondo Borochov, era cercare rifugio in uno Stato socialista in Palestina per normalizzare finalmente la condizione ebraica. Questo ritorno sarebbe stato anche la realizzazione di un sogno messianico: scegliere l’America, come continuavano a fare molti ebrei, significava perpetuare l’anomalia della condizione diasporica ebraica.
Ai marxisti russi il dibattito tra Bund e sionisti pareva fuori di ogni logica. Continuavano a sostenere che gli ebrei non erano una nazione, che l’unica soluzione per loro era l’assimilazione con la conseguente perdita di ogni particolarità religiosa, linguistica o culturale. Lenin denunciò il separatismo del Bund, colpevole di minare l’unità delle sinistre, e sostenne che gli ebrei erano diversi da paese a paese, non avevano né una lingua in comune né una terra; in un secondo momento li definì come una nazionalità senza diritti e condivise l’impostazione teorica di Kautsky.
Il comportamento di Lenin nei confronti degli ebrei non fu univoco: arrivò a definirli una nazione tra le più perseguitate e, nel periodo in cui collaborò con il Bund, manifestò anche aperture concrete verso il loro progetto politico, bilanciandosi tra riconoscimento e negazione della loro nazionalità. Quando il Bund si avvicinò ai menscevichi, ruppe con loro e disse che gli ebrei dovevano essere inglobati nel popolo russo e che solo rabbini e borghesi, espressione di una cultura reazionaria, sostenevano il contrario. Il Bund, il sionismo e la cultura tradizionale erano espressione di un mondo superato e solo l’internazionalismo proletario avrebbe potuto risolvere ogni problema. L’assimilazione era legata al progresso e la lotta ai pogrom non doveva essere condotta solo dalle squadre di difesa ebraica, ma anche da formazioni proletarie non ebraiche che dovevano ribellarsi alla violenza di Stato. Gli operai russi antisemiti, secondo Lenin, erano uomini non ancora emancipati che si prestavano al vecchio gioco del capro espiatorio. Valorizzare la scuola ebraica sarebbe stato invece un modo di perpetuare eredità medievali; conservare la cultura yiddish, che era un sottoprodotto dell’antisemitismo russo, sarebbe stato assurdo. Occorreva abbattere le vecchie discriminazioni e restituire a ognuno pari diritti e pari dignità.
Stalin proseguì la linea leninista e ne esasperò i contenuti: non solo attaccò il Bund, ma introdusse nell’applicazione delle idee marxiste elementi di giudeofobia che lo spinsero a cercare di imporre un’assimilazione forzata.
Trockij invece, che pure era d’accordo con Lenin, non riteneva che si dovesse forzare l’assimilazione ebraica, che considerava il frutto spontaneo di una tendenza naturale. Egli riteneva che l’odio contro gli ebrei fosse la conseguenza di antichi retaggi feudali e si sarebbe risolto quando tutta la società russa fosse stata in grado di godere pienamente dei diritti civili: la sconfitta dell’antisemitismo era possibile solo con la sconfitta del sistema zarista. Quando divenne capo dell’Armata Rossa, accettò il suggerimento del Poalè Zion e permise l’istituzione di corpi di difesa ebraici contro i ricorrenti pogrom.
Nel marzo 1917 il regime zarista cadde e trascinò con sé le seicentocinquanta leggi antiebraiche, ma non per questo la violenza diminuì: in Ucraina duemila pogrom colpirono un milione di ebrei con un numero di vittime valutato tra 65.000 e 150.000. Trockij si impegnò con grande energia per far cessare i pogrom, i Soviet difesero gli ebrei e un ebreo, Jakov Sverdlov, fu eletto primo presidente della Repubblica Sovietica; infine l’antisemitismo fu considerato ufficialmente controrivoluzionario.
Il ruolo degli ebrei nella rivoluzione russa fu di gran lunga superiore al loro peso specifico. Erano ebrei il 25% dei membri della vecchia Società dei deportati e dei detenuti politici e cinque dei 21 membri del Comitato Centrale bolscevico del partito eletto dal VI Congresso: Kamenev, Sverdlov, Trockij, Urickij e Zinov’ev.
Lenin intervenne sulla questione ebraica nel 1918 e invitò le forze della rivoluzione a combattere i pogrom con ogni mezzo e a battersi per l’emancipazione delle minoranze. Questo atteggiamento aperto gli procurò i consensi di molti intellettuali ebrei e favorì la spaccatura del Bund con l’entrata nel Partito comunista, in modo sparso, di correnti radicali anche di simpatie sioniste. Fu creata anche una sezione speciale, detta Evsekcija, presso il Commissariato del Popolo alle Nazionalità, che doveva seguire i problemi della minoranza ebraica.
Un esponente proveniente dal Bund, Simon Dimanstein, propose di creare un ceto di contadini ebrei e da questa idea si sviluppò il progetto del Birobidžan, una regione resa autonoma dove fu imposta una colonizzazione ebraica forzata in una zona poco adatta; ma dopo l’entusiasmo iniziale rimasero ben pochi ebrei.
Nei primi dieci anni di potere il bolscevismo mise in pratica alcune idee del Bund e degli austromarxisti: l’yiddish divenne lingua ufficiale in Ucraina e in Bielorussia, il teatro e le scuole ebraiche ottennero sovvenzioni e la grande comunità orientale, forte di tre milioni di ebrei, parve entrare in una nuova era. Naturalmente non tutti erano d’accordo: sionisti ed ebrei ortodossi non gradivano che la vita ebraica fosse dominata da un dispotismo illuminato né apprezzavano che tutto fosse concesso alla lingua yiddish e nulla a quella ebraica. Joseph Roth visitò la Russia nel 1927 e fu colpito da questo tentativo di favorire gli ebrei, ma anche di cancellare l’ebraismo e la storia ebraica.
Quando Stalin scatenò la sua offensiva contro gli oppositori, gli agitatori politici alimentarono l’odio contro Trockij e contro Zinov’ev lasciando intendere che non era un caso che entrambi complottassero e fossero ebrei.
In una lettera a Bucharin del 1926 Trockij con rammarico accennò alle insinuazioni antisemite dei suoi nemici e scrisse: «è possibile che nel nostro partito, a Mosca, nelle cellule operaie si conduca impunemente una campagna antisemitica?».
Le parole del grande rivoluzionario suonano terribilmente ingenue: Stalin, che ispirò questa campagna per motivi politici di lotta di potere, sarebbe ricorso a strumenti ben peggiori e non solo contro gli ebrei.
Nel 1937, ormai in esilio in Messico, in un’intervista a un giornale yiddish messicano Trockij riconobbe che con l’avvento del nazismo era fallito il modello storico assimilazionista, sottolineò il carattere nazionale dell’Ostjudentum e propose una soluzione territoriale al problema ebraico: «Quando ero giovane, avevo la tendenza a pronosticare che gli ebrei dei diversi paesi si sarebbero assimilati e che la questione ebraica sarebbe scomparsa pressoché automaticamente. Lo sviluppo storico di questo ultimo quarto di secolo non ha confermato questa prospettiva». Appena qualche anno prima aveva definito il razzismo hitleriano come l’espressione di «un ritorno del materialismo economico al materialismo zoologico». Ora dal suo lontano esilio vedeva l’ideologia nazista non come un residuo feudale, ma un distillato chimico della cultura imperialista notando che anche gli Stati Uniti rifiutavano di accogliere i profughi minacciati; l’antisemitismo era un prodotto del mondo capitalistico nel suo insieme e non solo del nazismo. Infine di fronte all’aggravamento della situazione nel 1938 Trockij scrisse: «È possibile immaginare senza difficoltà cosa aspetta gli ebrei dopo l’inizio della Seconda guerra mondiale. Ma anche senza guerra il prossimo sviluppo della reazione mondiale significa quasi con certezza lo sterminio fisico degli ebrei». Parole che nella loro acutezza profetica non possono non colpire.
Un antico proverbio yiddish offre una chiave di interpretazione di alcuni decenni di storia sovietica: Wie es Christelt sich, asoy yidelt sich (Così come vanno le cose tra i cristiani, vadano anche tra gli ebrei). Questa è la chiave giusta per capire le contraddizioni della dittatura di Stalin e merita di essere spiegata con l’aggiunta di un piccolo aneddoto.
Un povero ebreo di nome Isacco abitava in una cittadina di un piccolo paese. Ogni volta che a tarda sera tornava a casa dopo una giornata di duro lavoro, veniva avvicinato da un gigante che regolarmente lo insultava, lo picchiava e lo lasciava per terra nel fango dicendogli: «Sporco ebreo». Isacco, che era pauroso, si convinse di dover sopportare le angherie di un antisemita e questo lo fece soffrire molto. Per molto tempo non disse nulla a nessuno, nemmeno ai suoi famigliari. Un giorno vide sul giornale la foto del suo assalitore e scoprì che l’uomo era stato arrestato perché picchiava regolarmente tutti coloro che incontrava nelle strade dopo una certa ora. Il giornalista raccontava che l’energumeno aveva concluso l’ultimo pestaggio dicendo alla sua vittima: «Sporco cristiano». Grande fu la felicità del povero Isacco che non si sentì più l’unico perseguitato nel mondo.
La morale di questa storia è trasparente. L’energumeno è Stalin, un feroce dittatore sanguinario che tra gli anni Trenta e Quaranta provocò milioni di morti, probabilmente almeno dieci, in Unione Sovietica; tra questi gli ebrei furono mezzo milione.
Le persecuzioni staliniste dunque non furono dirette in particolare contro gli ebrei, anche se molti di loro vi furono coinvolti. Non ha quindi senso chiedersi se il dittatore georgiano fu antisemita o meno; egli piegò i destini degli uomini e dei popoli a un uso spietato del potere e utilizzò anche l’antisemitismo come arma per raggiungere i suoi obiettivi.
In uno testo che risale ai primi anni dopo la rivoluzione, Stalin aveva scritto: «Mantenere tutto quello che è ebreo, conservare tutte le particolarità nazionali degli ebrei, anche quando risultano indubbiamente nocive per il proletariato, isolare gli ebrei da tutto quello che non è ebreo, costruire persino ospedali speciali, ecco dove è caduto il Bund».
Stalin, che da buon marxista era ostile al sionismo e non apprezzava neppure i tentativi del Bund di mantenere un’autonomia ebraica, ricorse più volte e con pochi scrupoli a posizioni antiebraiche e antisemite. Isaac Deutscher ha scritto che «Stalin, mai schifiltoso nella scelta dei mezzi, non rifuggì dallo strumentalizzare le tendenze antiebraiche nella lotta contro l’opposizione». Nella seconda metà degli anni Venti e durante i processi di Mosca gli attacchi agli ebrei furono frequenti; la sostituzione, nel maggio 1939, del ministro degli Esteri Litvinov, che era ebreo, con Molotov, che non lo era, può essere considerata una mossa tattica in vista del patto di non aggressione tedesco-sovietico dell’agosto dello stesso anno. Lo scioglimento durante la Seconda guerra mondiale del Comitato antifascista ebraico, che aveva operato alle dipendenze del Sovinformburo (Ufficio sovietico di informazione), era stato il primo passo di un attacco agli organismi politici ebraici; il secondo fu l’internamento e lo sterminio di molti suoi dirigenti.
Infine, tra il 1948 e il 1953, la campagna antiebraica e antisemita fu ancora più virulenta, in un crescendo che solo la morte del dittatore avrebbe fermato: la distruzione delle istituzioni che avevano diffuso la cultura yiddish, la liquidazione di gran parte degli intellettuali ebrei, la rabbiosa campagna antisionista in coincidenza con numerosi processi nei paesi satelliti e il complotto dei medici del 1953 furono momenti di tragica persecuzione, riflesso di una sanguinosa lotta di potere all’interno del mondo sovietico. Queste esplosioni di odio antiebraico non furono tuttavia sistematiche: se è vero che nel 1937 Stalin fece fucilare alcuni generali ebrei, nello stesso momento, o poco dopo, altri ebrei accrebbero la loro influenza: Grigory Stern divenne generale di corpo d’armata e Lazar Mekhlis commissario politico generale dell’Armata Rossa. La sua posizione nei confronti degli ebrei non era legata a una visione ideologica aprioristicamente discriminatoria, ma solo ai problemi del potere e della sopravvivenza politica.
Il dittatore, con la brutale crudeltà che gli viene da tutti riconosciuta, fece vittime in tutti gli ambienti e a ogni livello della vita sociale senza alcuna preferenza per gli ebrei; non ebbe alcun rispetto per alcuna minoranza nazionale e colpì tutti coloro che avevano la sfortuna o l’imprudenza di suscitare i suoi sospetti.
Nel 1939, dopo l’accordo tedesco-sovietico, la situazione degli ebrei russi subì un brusco peggioramento e dopo l’inizio della guerra, quando gli eserciti dei due paesi si spartirono la Polonia, i sovietici iniziarono la decapitazione degli organi dirigenti di tutte le organizzazioni sioniste e l’annientamento di tutti coloro che furono sospettati di non nutrire simpatie per l’Unione Sovietica.
Quando Hitler mutò linea politica e nel giugno 1941 lanciò le sue truppe contro l’ex alleato, Stalin cominciò a considerare gli ebrei come una carta da spendere non solo sul campo di battaglia, ma anche sul terreno diplomatico, convinto che le organizzazioni ebraiche potessero influire a livello internazionale. Di fronte all’invasione tedesca il dittatore georgiano, come testimonia Isaac Deutscher, fece in modo che oltre due milioni di ebrei fossero sottratti agli artigli dei nazisti. Forse questo atto non fu ispirato da motivi umanitari ma da una scelta strategica. Forse nell’emigrazione successiva verso la Palestina e nella costituzione dello Stato di Israele Stalin vide la possibilità di mettere in difficoltà l’Inghilterra in Medio Oriente. Occorre però ricordare che nel 1947 il delegato all’ONU Andrej Gromyko affermò che «le sofferenze e le miserie del popolo ebreo durante l’ultima guerra sfidano ogni descrizione» e la nascita di Israele fu favorita da Stalin prima con aiuti massicci di armi cecoslovacche all’Haganah (esercito clandestino ebraico) e poi con il voto all’ONU e il riconoscimento formale del nuovo Stato.
La logica degli avvenimenti successivi è stata spiegata in poche frasi dallo scrittore cattolico Fadey Lovsky: «Finché lo Stato di Israele rimane neutrale tra il mondo occidentale e il mondo orientale, per i comunisti [l’incompatibilità tra marxismo e sionismo] era una incompatibilità di principio. Dal giorno in cui il giudaismo politico si è schierato dalla parte delle potenze occidentali, l’URSS e le democrazie popolari non potevano più accontentarsi di una condanna teorica del sionismo… In un primo tempo l’esistenza e soprattutto la politica dello Stato di Israele hanno reso tutti gli ebrei dell’Est sospetti di essere fedeli a un sionismo incarnato da uno Stato straniero. Il solo atteggiamento dunque permesso agli ebrei dell’Est è l’antisionismo».
Nel gennaio 1949 Stalin inaugurò una delle sue ultime campagne antiebraiche facendo attenzione a non denunciare apertamente i propri oppositori come ebrei, ma lasciando che le origini ebraiche degli accusati fossero intuite come evidenti dalla massa della popolazione. Molti comunisti di vecchia data, come Kamenev, Zinov’ev, Trockij e Fulatov, avevano cambiato il proprio nome, ed era facile far ricomparire il vecchio nome: Fulatov, per esempio, tornò a essere Finkelstein.
Dapprima la campagna lanciata dalla «Pravda» fu diretta contro il cosmopolitismo nel campo delle arti, poi l’attacco diventò più diretto e si rivolse contro le trasgressioni ideologiche. Il «cosmopolita senza radici» diventò un estraneo in patria, incapace di comprendere il «vero patriottismo russo».
In Ungheria, dominata dal regime di Máthyas Rákosi, egli stesso di origine ebraica, per la prima volta venne alla ribalta l’immagine del comunista traditore, vero capro espiatorio dei peccati di regime: al processo Raik dell’ottobre 1949 tra i principali accusati figuravano tre ebrei, che vennero descritti nella requisitoria del procuratore con accenti marcatamente antisemiti.
La forte campagna antisionista e antisemita montata dagli organi di stampa sovietici nel 1952, e culminata con i processi agli scrittori ebrei, segnò il punto più alto dell’uso dell’antisemitismo come paravento di una lotta di potere: nell’agosto ben venti personalità di primo piano furono assassinate come spie e borghesi nazionalisti. Sparirono, dal ’37 al ’52, in un modo o in un altro, Babel’, Mandel’štam, Mihoėl’s, Pil’njak, Der Nister (pseudonimo di Kaganovič), Mejerhol’d, MarkiŠ.
La campagna contro il cosmopolitismo sionista non si spense e anzi dilagò anche nei paesi satelliti.
Nel novembre di quell’anno in Cecoslovacchia fu istruito un altro processo farsa i cui principali imputati erano quasi tutti ebrei (undici su quattordici), esponenti di primo piano del Partito comunista accusati di spionaggio e di sionismo. Il segretario generale del partito, Rudolf Slánský, ebreo di nascita e stalinista irriducibile, finì per autodenunciarsi come sionista, nazionalista, spia e traditore. Una folle lealtà lo portò a subire la pena capitale e solo dopo un decennio la sua innocenza e quella dei suoi sfortunati compagni fu riconosciuta e tutti furono riabilitati.
Pare che fosse stato lo stesso Slánský ad accendere le polveri della lotta per indebolire la posizione di Gottwald, facendo arrestare alcuni collaboratori del suo antagonista con l’accusa di essere filotitoisti e filonazionalisti, e tra loro numerosi ebrei: Klinger, Kosta (Kohn), Budin (Batz), Löbl, Reyman. Gottwald reagì scatenando una grande purga in cui coinvolse quasi esclusivamente i numerosi esponenti ebrei del regime; tra l’ottobre 1950 e il novembre 1951, attuò un brusco ricambio della classe dirigente del partito favorendo la crescita di uomini nuovi di estrazione operaia.
Arthur London, uno dei pochi sopravvissuti, ha raccontato nel libro La confessione: «Quando cito due o tre nomi, se ce n’è uno che potrebbe suonare ebraico non si trascriverà che quello. Tale sistema della ripetizione per quanto elementare finirà per dare l’impressione voluta, cioè che l’accusato mantenga solo contatti con ebrei o almeno in proporzione con un grande numero di ebrei. Tanto più che non si parla mai di ebrei. Per esempio quando vengo interrogato su Hajdu il giudice istruttore mi domanda bruscamente di precisare per ognuno dei nomi che verranno citati nell’interrogatorio se si tratti o meno di un ebreo; ma ogni volta nella sua trascrizione sostituisce la designazione di ebreo con quella di sionista. “Facciamo parte dell’apparato di sicurezza d’una democrazia popolare. La parola giudeo è un’ingiuria. Perciò scriviamo sionista.” Gli faccio notare che sionista è una qualifica politica. Mi risponde che non è vero e che quelli sono ordini che ha ricevuto. Aggiunge: “Del resto anche in URSS, l’utilizzazione della parola giudeo è proibita”. Si parla di ebrei. Gli dimostro la differenza tra ebreo e sionista. Niente da fare. Mi spiega che ebreo suona male in ceco. “Ho l’ordine di mettere sionista, ecco tutto.”
«Fino alla fine questa qualifica di sionista resterà così accollata a nomi di uomini e donne che non hanno avuto niente a che fare con il sionismo… Un giorno io replico a un inquirente che anche ponendomi dal suo punto di vista non vedo come applicarlo a un gruppo di ex volontari che, a parte V. e me, non conta alcun ebreo. Mi risponde con la massima serietà: “Dimenticate le loro mogli. Sono tutte ebree e fa lo stesso. Vi è una teoria al riguardo”. Dopo una istruttoria di due anni il processo fu aperto il 20 novembre 1952.»
Il complotto dei medici, come vedremo più in dettaglio nel prossimo capitolo, fu denunciato il 13 gennaio 1953: nove medici, di cui sei riconoscibili dai cognomi ebraici, furono accusati di aver assassinato due collaboratori di Stalin nel 1945 e nel 1948 e di aver poi tramato un grande complotto che aveva lo scopo di uccidere i massimi dirigenti del paese. Alcuni intellettuali ebrei furono costretti a sottoscrivere una lettera, pubblicata dalla «Pravda» con grande evidenza, in cui si proponeva di trasferire tutti gli ebrei, per proteggerli dagli inevitabili contraccolpi, in Siberia e nelle lontane regioni orientali.
Il’ja Erenburg, che per anni era stato uno stalinista modello, con grande coraggio rifiutò di firmare la lettera. Altri celebri intellettuali russi non ebbero lo stesso coraggio e firmarono: tra questi lo scrittore Grossman, il fisico Landau, il violinista Ojstrach, il fisico Kapica.
La morte di Stalin il 5 marzo 1953 pose fine al processo al sionismo. Le vittime furono riabilitate da ChruŠčëv nel 1956.
L’atteggiamento di Stalin e dei massimi dirigenti sovietici nei confronti degli ebrei fu sempre strumentale. È vero però che le accuse, in paesi come la Russia, la Cecoslovacchia, la Polonia, la Romania e l’Ungheria, dove era sempre esistito un antigiudaismo cattolico o comunque popolare, facevano leva su queste forme antiche di odio e si confondevano con esse. La confusione creata ad arte tra «ebreo» e «sionista» si è poi trasmessa nella terminologia di tutta la sinistra europea favorendo distorsioni e ambiguità fra i politici, sulla stampa e nell’opinione pubblica.
Oggi, dopo la caduta del comunismo, in paesi come la Polonia dove gli ebrei sono ormai poche migliaia si assiste a un nuovo fenomeno: l’antisemitismo senza ebrei. In Ungheria invece c’è ancora chi di fronte alle difficoltà economiche grida al complotto e mostra di credere ai famigerati Protocolli dei Savi di Sion.