XX

Stalin e gli ebrei

Lo scoppio della rivoluzione nel febbraio 1917 scatenò nell’intera società russa sommovimenti di grande portata economica, sociale e civile, e finì per suscitare, nelle masse di differente etnia, nei gruppi e negli individui, reazioni complesse che, con l’evoluzione tumultuosa degli avvenimenti, si aggrovigliarono ulteriormente. Il successo dei primi fermenti sovversivi e il mutamento radicale di regime influirono fin da subito sul comportamento degli ebrei, stimati fra i 5 e i 6 milioni alla vigilia della Prima guerra mondiale (nel 1897 un censimento aveva messo in luce che solo un quarto sapeva leggere e scrivere correntemente il russo).

La cancellazione delle leggi antiebraiche, il ritorno di tanti esuli dall’estero, l’uscita di molti altri dalla clandestinità furono i segnali di un cambiamento repentino atteso da tempo. Molti abbandonarono gli shtetlach, i vecchi borghi ebraici, e a centinaia di migliaia si riversarono nelle grandi città, dove il controllo sociale era assai più ridotto. Mescolarsi alla massa dei cittadini, partecipare alla vita civile pubblica, prendere, se lo desideravano, una moglie o un marito non ebreo: ora tutto questo era possibile. Molti Abraham divennero Aleksandr, i Salomon si trasformarono in Semën, i Moissei in Michail, ecc. Un altro esempio curioso dell’avvento dei nuovi tempi: già negli anni Venti e Trenta numerosi membri del Comitato Centrale e del Politburo avevano sposato donne ebree. Molotov era il marito di Perle Karpovskaja alias Pavlina Žemčužina detta Polina, VoroŠilov di Golda Grobman, Bucharin di Esther Gurvič e poi di Anna Lourie, Aleksandr PoskrebyŠev, segretario di Stalin, di Bronislava Weintraub, detta Bronka.

Ormai esistevano, almeno in apparenza, solo due categorie politiche: i proletari e i borghesi. Fra gli ebrei, molti confluirono in un primo tempo nell’Algemeyner Yidisher Arbeter Bund in Lite, Polyn, un Rusland (in yiddish: Federazione generale dei lavoratori ebrei in Lituania, Polonia e Russia), detto Bund, fondato già nel 1897, altri scelsero i socialisti unificati o il Poalè Zion, mentre la stampa, in lingua ebraica e in yiddish, si conquistò nuovi lettori ed ebbe una vasta diffusione.

Nel marzo 1917 il governo provvisorio rivoluzionario, con uno dei suoi primi atti, abolì qualsiasi restrizione ai diritti civili dei cittadini: «Tutte le limitazioni apportate ai diritti dei cittadini russi dalla legislazione in vigore a tutt’oggi, per ragione di religione, credenze o di nazionalità, sono annullate». Poco dopo, due ebrei diventarono sindaci di due grandi città: Heinrich Schreiner a San Pietroburgo (che dal 1914 al 1924 si chiamò Pietrogrado, prima di essere ribattezzata Leningrado) e Oskar Minor a Mosca. Nei tre governi che si succedettero nel giro di poco tempo, tuttavia, non c’erano ministri ebrei. Abraham Gotz, leader dei socialisti rivoluzionari, rifiutò il ministero dell’Interno «per non attizzare passioni razziste», e il menscevico Fëdor Dan per evitare rigurgiti di antisemitismo. Nel contempo, a fronte di numerosi tecnici presenti nell’esecutivo, quali Solomon Schwarz, David Dalian, Ivan Majskij (Israel Lachoveckij), è possibile ritrovare parecchi ebrei decisamente anticomunisti con un ruolo politico di primo piano, come Maksim Vinaver e Oskar Gruzenberg. Gli ebrei erano particolarmente numerosi alla Duma di San Pietroburgo in rappresentanza di tutti i partiti, e comunque erano ben visibili; forse, come accade sempre alle minoranze, fin troppo sovraesposti. Nel gruppo bolscevico c’erano 23 ebrei, fra cui uomini destinati a ricoprire ruoli importanti: Lev Kamenev (Rozenfel’d), Jakov Sverdlov, Adol’f Abramovič Ioffe e Moisej Urickij.

«Per i partiti ebraici piccolo-borghesi» avrebbe scritto qualche tempo dopo Simon Dimanstein, capo della cosiddetta Sezione ebraica nel Commissariato per le nazionalità di Stalin, ma anche ex studente di una yeshivah, scomparso durante le purghe del 1935, «il problema principale ridiventava la questione nazionale e la lotta contro lo sviluppo della rivoluzione e il bolscevismo. La borghesia ebraica di qualsiasi tendenza aderì ben presto al governo provvisorio e si impregnò di patriottismo, parteggiando per una lotta condotta fino alla vittoria finale e sostenendo l’offensiva su tutti i fronti; diversi giovani luogotenenti ebrei, figli della borghesia, si rivelarono autentici sciovinisti, recandosi al fronte a incitare i soldati al combattimento.» Nelle sue parole si può cogliere il risentimento di un rivoluzionario, ebreo e leninista, che si rendeva ben conto della diffidenza della maggioranza degli ebrei russi nei confronti del colpo di Stato di Lenin.

Eppure, tra il 1917 e il 1921 l’idea che ebrei e rivoluzione fossero sinonimi era diffusissima, tanto da estendersi al di là dei confini del Paese e attirare l’interessata attenzione di Henry Ford negli Stati Uniti e di Winston Churchill in Inghilterra. L’irruzione degli ebrei nella lotta politica e la loro partecipazione agli eccessi violenti di quel periodo sono una questione spinosa. In un primo momento i bolscevichi non avevano raccolto troppi consensi, ma dopo la loro vittoria molti ebrei salirono sul carro dei vincitori ed entrarono in gran numero nella Čeka: probabilmente l’adesione alla politica del nuovo potere fu incoraggiata da un desiderio di rivalsa nei confronti degli oppressori di ieri e dalla volontà di non perdere l’occasione per conquistare uno status sociale.

«Gli ebrei della Russia zarista antisemita» ha scritto Donald Rayfield «avevano poche vie d’uscita dal ghetto a parte l’emigrazione, l’istruzione, o la rivoluzione, e le ultime due equivalevano a negare il proprio giudaismo per unirsi a organismi e a gruppi antiebraici.» Questa frase, in apparenza oscura, si spiega se si tiene conto che in pochi anni il mondo ebraico aveva subito traumi fortissimi: da un isolamento pressoché totale si era passati a una condizione che consentiva un veloce inserimento sociale. L’istruzione non religiosa e la rivoluzione potevano offrire inaspettate occasioni di ascesa sociale, ma con qualche rischio: l’uscita dal Kahal, dalla comunità, dal villaggio finì spesso per comportare la violenta rottura di legami consueti e addirittura in molti casi la negazione dell’antico giudaismo. Ha scritto Léon Poliakov: «Uno dei paradossi di questa storia è che i rivoluzionari ebrei, che alla fine del XIX secolo avevano contribuito alla nascita del Partito socialdemocratico russo, al momento della famosa scissione del 1903 si schierarono in maggioranza con la fazione menscevica: le loro reticenze nei confronti delle tendenze centralizzatrici, cioè dittatoriali, di Lenin, erano ben note e già nel 1907 Stalin prestava orecchio a certe battute equivoche a proposito di un “piccolo pogrom” nella socialdemocrazia russa».

Prima del 1917 fra i «vecchi bolscevichi» gli ebrei erano il 10%; tra il 1917 e il 1918 erano saliti al 16, percentuale relativamente alta rispetto alla totalità della popolazione russa, ma non eccessiva, se si considera l’insieme degli abitanti delle città, di solito i più vivaci in campo politico. Su 21 membri del Comitato Centrale eletto al IV Congresso, sei erano di origine ebraica: Lev Trockij (BronŠtejn), Moisej Urickij, Jakov Sverdlov, Grigorij Sokolnikov (Brilliant), Grigorij Zinov’ev (Radomyl’skij Apfelbaum), Lev Kamenev (Rozenfel’d). Solo quattro di loro (fra cui Zinov’ev e Kamenev) avrebbero votato contro l’insurrezione. «Il gruppo minoritario più importante» ha scritto W.E. Mosse «era quello dei rivoluzionari di origine ebraica; pur essendo meno del 4% della popolazione totale, gli ebrei fornivano il 16,6% dei rivoluzionari… Era ovvio che un’élite rivoluzionaria dovesse reclutarsi soprattutto fra i gruppi relativamente colti, con forti motivi di risentimento. Nelle condizioni della Russia zarista una simile situazione si trovava tra le minoranze nazionali e religiose, in particolare fra quelle con una borghesia abbastanza sviluppata.»

Alla vigilia del colpo di Stato del 1917, sette uomini erano considerati al vertice – Lenin, Stalin, Dzeržinskij, Trockij, Sverdlov, Zinov’ev e Kamenev –, e gli ultimi quattro erano ebrei, così come i loro collaboratori Grigorij Sokolnikov, Michail LaŠevič, Ephraim Sklianskij. Lo stesso Stalin aveva collaboratori ebrei: Grigorij Kanner, Aron Gertzenberg, Il’ja Trainin, Karl Pauker, Lev Mechlis. I primi tre, a un certo punto, li fece assassinare. Tutti costoro avevano sposato la causa della rivoluzione sovietica e spesso covavano nel loro animo un forte odio di sé, quell’odio di un tipo particolare che Theodor Lessing, assassinato dai nazisti, ha chiamato jüdische Selbsthass. Questi sentimenti, in apparenza contraddittori o poco comprensibili, possono essere spiegati facilmente. Lo stato di avvilimento e oppressione secolare aveva spinto molti ebrei alla ricerca d’ideali universali che spesso sembravano in contrasto con antichi costumi, con il rispetto delle tradizioni religiose o con le consuetudini delle famiglie d’origine. La rottura traumatica di questi affetti spinse molti a sviluppare un acuto senso di disagio che sfociò in un odio verso la loro precedente origine e identità.

Come sempre, le comunità ebraiche erano inquiete e ansiose. Già all’indomani dei primi fermenti sovversivi una delegazione di ebrei di San Pietroburgo, con in testa il rabbino, sollecitò un incontro con Trockij e gli fece presente le preoccupazioni generali per i danni che avrebbe potuto causare una forte presenza ebraica nel movimento bolscevico. Trockij rispose che gli ebrei, in quanto tali, non lo interessavano assolutamente, e che lui stesso si definiva internazionalista e non ebreo: dapprima incaricato degli Esteri e commissario alla Guerra, poi fondatore del Consiglio militare rivoluzionario supremo, egli sarebbe stato in un primo momento l’unico ebreo fra i 15 commissari del popolo eletti dopo il colpo di Stato.

Il famoso 25 ottobre, quando il II Congresso optò per la conquista violenta del potere, dei 15 oratori saliti sulla tribuna per protestare contro il colpo di Stato ben 14 erano ebrei; fra gli altri: Fëdor Dan, Julij Martov, Abraham Gotz, Boris Kamkov (Katz). Un quadro così complesso è il risultato di atteggiamenti ondivaghi: dopo aver vissuto la rivoluzione come un’autentica liberazione, la maggioranza degli ebrei si ritrovò su posizioni mensceviche, e il colpo di Stato di Lenin suscitò forti ostilità. Ben presto, tuttavia, il bolscevismo riuscì a imporsi cancellando i partiti intermedi: non restavano che i reazionari da una parte e i bolscevichi dall’altra. Inoltre, se gli ebrei avevano guadagnato i diritti civili, ben diversa era la situazione delle strutture ebraiche, che versavano in uno stato di crisi acuta. La scelta di campo divenne così obbligata: l’adesione alla Čeka fu massiccia anche a causa di una situazione diffusa: molti posti nella burocrazia di partito, nel Comitato Centrale e ai vertici del potere furono ricoperti da ebrei zelanti, desiderosi nel contempo di non fare più i conti con il loro passato.

La guerra civile del 1918 che ne scaturì, violenta, disperata, combattuta da milizie e truppe regolari con crudeltà efferata, fu inevitabilmente il detonatore di una nuova ondata di pogrom, sia da parte dei bianchi, o dei nazionalisti ucraini, sia da parte dell’Armata Rossa, contro la popolazione civile e in particolare contro gli ebrei: per tre anni i territori dell’Impero furono devastati da eserciti che si affrontarono con selvaggia violenza. Dal punto di vista giuridico, dopo la conquista del potere nell’ottobre 1917 da parte dei bolscevichi, la situazione era cambiata. Fu Stalin, commissario del popolo per le nazionalità, a redigere la Dichiarazione dei diritti dei popoli della Russia, nella notte tra il 26 e il 27; fra l’altro, vi si poteva leggere: «Nel Paese del proletariato vittorioso l’antisemitismo resterà nei ricordi come una triste eredità di un passato maledetto». Inoltre, il Congresso panrusso dei soviet dei deputati, operai, soldati e contadini lanciò un appello per invitare tutti i soviet locali a «prendere misure urgenti, le più energiche, per combattere qualsiasi azione controrivoluzionaria e programma antiebraico… Impedire questo genere di azioni è un punto d’onore per la rivoluzione degli operai, soldati, e contadini».

A San Pietroburgo, per esempio, Zinov’ev non solo cambiò i nomi di celebri palazzi e lunghi viali ribattezzandoli con quelli di rivoluzionari come Moisej Urickij, Trockij, Semën Nachimson e altri di origine ebraica, ma contribuì con zelo spietato al saccheggio di numerose chiese ortodosse e all’assassinio di molti preti. La propaganda degli avversari non si lasciò sfuggire l’occasione e coniò ben presto l’equazione: bolscevico uguale ebreo. «Numerosi nemici del bolscevismo» ha osservato Leonard Shapiro «che assimilavano l’antisemitismo all’antibolscevismo erano dell’opinione che il bolscevismo fosse un movimento soprattutto ebraico, estraneo ai veri russi. Era un ragionamento assai diffuso tra le classi medie russe, soprattutto nei primi anni della rivoluzione. In effetti, dopo Lenin, il più celebre e in vista era Trockij, a San Pietroburgo la figura più in vista era Zinov’ev, e chi aveva la sfortuna di cadere nelle mani della Čeka aveva molte probabilità di essere interrogato e forse fucilato da un inquisitore ebreo.»

Tra il 1914 e il 1918 i disordini e gli eccessi furono innumerevoli, e le differenti fazioni in lotta si accusavano di ogni bassezza e crudeltà. Eppure, come ha notato lo storico Arkadij Vaksberg, la tesi che il partito bolscevico fosse un partito ebraico non è ragionevole: su 23.600 aderenti, gli ebrei (5%) erano superati da estoni e polacchi. È vero che a Mosca e San Pietroburgo erano numerosi e molto attivi e che dei 224 rivoluzionari disfattisti che avevano auspicato la sconfitta delle truppe al fronte e favorito la rivoluzione interna, ben 170 erano ebrei, ma non erano tutti bolscevichi, anzi, vi erano parecchi menscevichi, fra cui il leader Rafail Abramovič.

La guerra civile divise profondamente anche la forte minoranza ebraica: a migliaia si arruolarono con i bianchi – alcuni ebbero incarichi di rilievo, come Solomon Krym, che divenne capo del governo provvisorio in Crimea, Majskij entrò in quello di Samara, Manuel Margulies in quello del Nordest – e molte altre migliaia combatterono tenacemente il bolscevismo. Fra i leader dell’opposizione ai bolscevichi c’erano Semën Anskij (Rapaport), Pinhus Rutenberg, Grigorij Schneider, Abraham Gotz.

In campo bolscevico Moisej Urickij, divenuto capo della Čeka di San Pietroburgo, creò un’atmosfera di cupo terrore poliziesco, tanto che Leonid Kannegiesser, giovane poeta ebreo, lo uccise in un attentato; Moisej Volodarskij (Gol’dŠtejn) si occupò della censura sulla stampa e portò a compimento il suo compito con particolare zelo repressivo. Grigorij Čudnovskij ed Emel’jan Jaroslavskij (Minej Gubel’man) furono protagonisti a San Pietroburgo e a Mosca di gravi e spietati fatti d’arme; Zinov’ev fu il capo del Soviet di San Pietroburgo e Kamenev di quello di Mosca. A San Pietroburgo e a Mosca si consumarono le lotte più feroci. Le tragiche condizioni di vita esasperavano gli animi e spingevano entrambi i contendenti a manifestazioni di giudeofobia sempre più accentuate. A Odessa, come ha testimoniato lo scrittore Ivan Bunin, la caccia agli ebrei era indiscriminata e si concludeva «in un mare, in un oceano di sangue».

Nel 1918 la vita religiosa, nel suo complesso, venne regolata nel Paese da due atti giuridici. Il primo, del gennaio 1918, firmato da Lenin, s’intitolava Della separazione della Chiesa e dello Stato, e della Scuola e della Chiesa e decretava di fatto la laicizzazione totale dello Stato, la confisca di tutti i beni delle Chiese e l’interdizione dell’insegnamento religioso nelle scuole di qualsiasi grado; la più colpita da queste misure fu la Chiesa ortodossa. Il secondo atto, dell’ottobre 1918, fu la decisione di sciogliere la Kehilah, cioè la comunità ebraica e la sua organizzazione interna. Le Evsekcija, le sezioni comuniste ebraiche incaricate di controllare l’applicazione della politica governativa, avevano anche il compito di «illuminare le masse ebraiche nello spirito del mondo materialista». I metodi potevano essere più o meno convincenti a seconda dello zelo mostrato dai funzionari e dall’ambiente in cui operavano.

Nel 1930 questo organismo con le sue articolazioni fu sciolto, in quanto i risultati erano stati ben lungi dall’essere soddisfacenti. Fu in quell’anno che il regime sovietico inaugurò la linea dura e staliniana. Secondo la concezione di Lenin e Stalin, gli ebrei non erano una nazionalità: contro questa teoria insorsero a più riprese gli aderenti al Bund che, fino al 1921, manifestarono una forte resistenza ideologica prima di scomparire. Dopo quell’anno la polemica dei sovietici contro i bundisti continuò anche se questi, in realtà, erano scomparsi. La lotta contro un ipotetico deviazionismo non si esaurì subito, e spesso lo spettro del Bund fu evocato in modo strumentale proprio da quelli che lo combattevano più aspramente.

Nell’aprile 1919 Genrich Moroz, che apparteneva alla Čeka, informò Stalin che la situazione nelle province di Minsk, Smolensk, Mogilev e Vitebsk era preoccupante: «Gli yioupins [così venivano chiamati in modo dispregiativo gli ebrei] sono dappertutto e vogliono assassinare la Russia. Il potere dei soviet sarebbe sopportabile se non ci fossero loro a comandare». Moroz concludeva che il rischio di pogrom cresceva di giorno in giorno, non solo da parte delle bande di Andrej Škuro e Semën Petliura, avversari dei bolscevichi, ma anche delle formazioni dell’Armata Rossa che, pure, obbedivano agli ordini di Trockij e Lenin, ma che evidentemente non avevano dimenticato le consuetudini dei tempi degli zar.

Nel settembre di quell’anno la Čeka fece irruzione nella sede del Comitato Centrale sionista a San Pietroburgo e confiscò denaro e documenti. Un’analoga operazione fu condotta a Mosca: una squadra guidata da una giovane ragazza ebrea irruppe in una sala dove 75 esponenti sionisti assistevano a un incontro e li arrestò tutti. I prigionieri arrivarono nella sede della Čeka a Mosca cantando l’inno sionista Hatikva (La speranza). Furono rilasciati dopo tre mesi.

Nel marasma generale i vecchi e mai sopiti sentimenti antiebraici, mescolati alla violenza quotidiana, imponevano la presenza di un capro espiatorio: a Gomel e Borisov erano stati assassinati parecchi commissari bolscevichi di origine ebraica, e questi eventi potevano fare il gioco delle forze controrivoluzionarie. In Crimea la fase più acuta dei disordini legati alla guerra civile si concluse, agli inizi del 1920, con la sconfitta degli adepti del barone Vrangel’ e con massacri diffusi e spesso privi di qualsiasi logica politica condotti da Rozalija Zemljačka e Béla Kun, entrambi ebrei. In giugno il Politburo e l’Orgburo, in seduta congiunta a Mosca, incaricarono Kamenev di elaborare un piano di lotta contro l’antisemitismo. «È uno dei paradossi russi» ha notato acutamente Vaksberg. «Nonostante la totale opposizione ideologica, le forze politiche antagoniste si ritrovavano d’accordo nel gettare sugli ebrei tutti i mali. I bolscevichi antisemiti pretendevano che volessero abbattere la rivoluzione assassinando Lenin. I “patrioti” antisemiti ripetono dopo ottant’anni a chi volesse ascoltarli che sono stati gli ebrei a massacrare l’imperatore e la sua famiglia, e che quella uccisione rituale aveva ferito ciascun russo autentico.»

«La sinistra» scrisse Ivan Bunin «imputa tutti gli eccessi della rivoluzione all’antico regime, e gli ultrareazionari agli ebrei. Ma non è il popolo a essere colpevole. D’altra parte, un giorno questo popolo rigetterà tutte le responsabilità sull’altro – il vicino e l’ebreo: “tutto questo è colpa degli yioupins”.»

La fine delle ostilità comportò, rispetto alla questione ebraica, un miglioramento reale della situazione, ancorché con qualche paradosso. Sotto molti aspetti gli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta furono relativamente tranquilli. Il sistema sovietico si era consolidato e la legge proteggeva gli ebrei come mai in passato. L’antisemitismo era stato ufficialmente bandito e classificato come un fenomeno reazionario. Si possono citare due casi come esempio. Due esponenti in vista dell’Accademia delle scienze dell’URSS erano stati trascinati in giudizio (tutti e tre i giudici, Lazar Kogan, Lazar Altman e Genrich Lučkov, erano ebrei) con l’accusa di incitamento all’odio antiebraico e di comportamento antisovietico. Alcuni amici di Sergej Esenin e altri scrittori siberiani furono condotti con le stesse imputazioni davanti al plotone d’esecuzione e fucilati in quanto antisemiti reazionari. In entrambi i casi l’accusa poteva anche essere vista come un comodo paravento per liquidare i nemici e, nello stesso tempo, dare l’impressione di voler difendere a ogni costo la minoranza ebraica. D’altronde, dopo la morte di Lenin, Stalin doveva sbarazzarsi dei suoi compagni di strada – Trockij, Zinov’ev, Kamenev – e non mancava certo di far leva sul fatto che tutti e tre erano ebrei.

Eppure, dopo la fine della guerra civile, pur non essendo condivise sul piano ideologico, le tesi delle associazioni sioniste non venivano combattute, anzi lo Stato concedeva qualche sostegno. Feliks Dzeržinskij, capo della polizia politica, scrisse al suo luogotenente: «Non vedo perché dovremmo reprimere i sionisti… il loro programma non ci danneggia, anzi, potrebbe risultarci utile. Non è il caso di preoccuparsi. Perseguitare i sionisti è una tattica erronea. La questione dev’essere sottoposta all’Ufficio politico». Persino Stalin pareva aver dimenticato le tesi espresse nel suo saggio teorico e ideologico (Il marxismo e la questione nazionale), e taceva. Lenin aveva favorito la creazione di un Comitato per gli aiuti alle vittime dei pogrom, e lo stesso Comitato diede vita a un’agenzia telegrafica con il compito di far conoscere al mondo le nuove condizioni di vita degli ebrei sovietici e come il potere appena insediato aveva reagito con tempestività alle provocazioni antisemite. Solo la sezione ebraica del Comitato Centrale del PCUS se ne stava silenziosa e Gor’kij, sempre attento ai diritti degli ebrei, aveva commentato: «Questi salopards [mascalzoni] favoriscono l’antisemitismo».

Il Teatro Habina, che non era nelle grazie del partito, era emigrato all’estero, ma il Teatro ebraico sovietico, che metteva in scena commedie in yiddish, era sulla cresta dell’onda e alla fine degli anni Venti la direzione fu affidata a una vera celebrità: Solomon Mihoėl’s, il quale ebbe in dotazione splendidi locali nel centro di Mosca e godette della collaborazione di personalità del calibro di Marc Chagall, David Bergelson, Perec MarkiŠ, Nathan Altman e molti altri personaggi di grande valore. Parecchi scrittori diventarono ben presto popolari: oltre a Erenburg e Babel’, Eduard Bagrickij (Džubin), Michail Svetlov, Il’ja Ilf, Vera Inber (Schenzer), Vasilij Semënovič (Iosif Solomonovič) Grossman e, ancora, Osip Mandel’štam e Boris Pasternak. La maggior parte di loro, qualche anno dopo, fu perseguitata e annientata insieme ad altri scrittori russi non ebrei: si pensi alla Achmatova, a Michail ZoŠčenko, Andrej Platonov, Michail Bulgakov.

Nel breve periodo, tuttavia, la nuova atmosfera spinse molti di coloro che per necessità se n’erano andati in esilio a ritornare in patria, senza immaginare affatto che nel giro di pochi anni le grandi purghe avrebbero finito per decimarli. Che fosse in atto una politica del doppio binario, all’ombra di una lotta di potere spietata e senza esclusione di colpi, lo capivano forse solo i più acuti osservatori della tormentata realtà russa. Nei primi anni, in apparenza, il governo combatté l’antisemitismo con decisione e con severità, ma nel contempo si adoperò per smantellare capillarmente le strutture dei Kahals e delle organizzazioni ebraiche. Nel 1920 gli ebrei a Mosca erano appena 28.000, il 2,2% della popolazione totale; nel 1930 il loro numero era arrivato a 250.000, a fronte di una popolazione totale appena raddoppiata. La percentuale di quanti si erano inseriti negli apparati del potere, nel partito e nel Komsomol, e in numerosi altri settori della vita civile, economica e culturale conquistandosi posti di responsabilità, era cresciuta, così come erano cresciuti quanti cambiavano i cognomi ebraici per renderli indistinguibili da quelli russi più comuni. Il passaporto interno era stato abolito e sarebbe stato ripristinato solo nel 1933.

Direttori della «Pravda» erano, grazie a Stalin, tre ebrei: Lev Mechlis, Michail Kol’cov (Friedland) e Lev Rovinskij. Ambasciatori sovietici nelle principali capitali occidentali, sempre negli anni Venti, furono Maksim Litvinov (Vallach), Grigorij Sokolnikov (Brilliant), Ivan Majskij (Israel Lachoveckij), Adol’f Ioffe, Boris Stein, Marcel Rosenberg, Konstantin Umanskij, Lev Kinčuk: nomi che non lasciavano dubbi sulle loro origini.

Nel periodo in cui la repressione falcidiava duramente altri gruppi sociali facendo milioni di vittime (la lotta contro i kulaki, per esempio), pareva che gli ebrei fossero risparmiati, ma i più accorti non potevano dimenticare le lotte intestine in corso, e il fatto che Stalin, nel 1913, con il suo unico lavoro teorico di una certa importanza, il già citato Il marxismo e la questione nazionale, si era occupato anche della questione ebraica. Sembra che non sia stato l’unico autore del testo, a cui avrebbero contribuito anche Aleksandr Trojanovskij, sua moglie Elena Rozmirovič e Bucharin, con correzioni dello stesso Lenin. «Corretto da un punto di vista teorico»: così definì Trockij queste pagine, pur non mancando di criticarne lo stile, e nulla disse in merito alle idee espresse da Stalin sugli ebrei, ispirate peraltro a un punto di vista ampiamente accettato dall’opinione pubblica sovietica, e che si inserivano perfettamente nel filone della tradizione marxista. Il futuro dittatore sovietico sosteneva tesi assai diffuse in quegli anni di effervescenza rivoluzionaria: i diritti delle nazionalità non costituivano una questione isolata, ma dovevano essere considerati nel vasto quadro della rivoluzione proletaria. Quanto al sionismo, veniva giudicato una tendenza nazionalista e reazionaria che isolava le masse ebraiche dalla lotta del proletariato e faceva gli interessi della borghesia.

In terra sovietica il sionismo era radicato da tempo, ben prima che Theodor Herzl pubblicasse il suo Judenstaat: il primo Congresso degli Hovevei Zion (gli amanti di Sion) si era riunito a Katovice ben tredici anni prima del primo Congresso sionista di Basilea, e gli scritti di Peretz Smolenskin, Moshe Leib Lilienblum e Leon Pinsker avevano influenzato intere generazioni, tant’è che esistevano in cinquanta città circa ottanta gruppi di Hovevei Zion, che davano vita, pur essendo illegali nella Russia zarista, a un movimento attivo e diversificato.

Stalin, come molti altri pensatori marxisti prima di lui, era convinto che gli ebrei non possedessero le caratteristiche necessarie per essere considerati una nazione: non avevano in comune né una lingua né un territorio, quindi una vita insieme a essi era impossibile. «Si possono immaginare» scrisse «popolazioni che abbiano un “carattere nazionale” comune e, tuttavia, non si può dire che costituiscano una nazione se non sono collegate economicamente, se vivono su territori differenti, se parlano lingue differenti ecc. Tali sono, per esempio, i russi, i galiziani, gli americani, i georgiani, gli ebrei del Caucaso, che non costituiscono a nostro avviso una nazione.» Otto Bauer, l’illustre teorico dell’austromarxismo che, pur ammettendo che gli ebrei non parlavano una lingua comune, li aveva comunque considerati una nazione, aveva certamente torto e si rivelava uno spiritualista mistico, che teneva conto di una nazione esistente solo sulla carta: «Di quale destino comune e di quale legame nazionale si può parlare, per esempio, per gli ebrei georgiani, daghestani, russi e americani, completamente staccati gli uni dagli altri e che abitano territori diversi e parlano lingue diverse?».

A suo dire, gli ebrei avevano qualche tratto in comune – la religione, l’origine e qualche tiepido tratto nazionale –, ma non si poteva pensare che qualche antico rito fossilizzato e alcuni residui psicologici che si stavano rapidamente dileguando fossero più influenti dell’ambiente economico, sociale e culturale circostante. Era il regime zarista a portare la responsabilità dello scontro fra le nazioni: per dominarle, infatti, le incitava l’una contro l’altra e, così facendo, provocava massacri e pogrom. Solo in un Paese semiasiatico come la Russia potevano accadere eventi del genere: in Germania simili brutalità non sarebbero state possibili. Stalin faceva alcune aperture: ciascuna nazione si sarebbe potuta organizzare autonomamente e gestire la propria vita, avrebbe anche avuto diritto alla secessione, ma non a metterla in atto in qualsiasi circostanza. Non c’è da stupirsi se il Bund ebraico fu oggetto di un attacco polemico nella quinta parte del saggio, che reca il sottotitolo: Il Bund, il suo nazionalismo, il suo separatismo: «Dobbiamo decisamente pronunciarci contro un metodo molto diffuso di risolvere superficialmente la questione nazionale. Bauer aveva ragione: senza territorio non era possibile parlare di una vera nazione, ma occorreva aggiungere qualcosa di più: gli ebrei non erano legati alla terra, vera ossatura della nazione, perché solo il 3 o il 4% dei 5 o 6 milioni di ebrei russi si occupava di agricoltura. Gli altri lavoravano nel commercio o nell’industria e per questo sarebbero stati costretti all’assimilazione, favorita anche dall’eliminazione dei ghetti».

Che senso aveva – si domanda Stalin – parlare di autonomia nazionale per una nazione priva di avvenire e la cui esistenza era tutta da provare? Lenin e Stalin guardavano concordemente con ostilità alle posizioni ideologiche del Bund e dei socialdemocratici e alla loro richiesta di un’autonomia nazionale ebraica. Si sarebbe potuto parlare di autonomia culturale, ma l’autonomia politica senza un territorio era giudicata inammissibile. Stalin, inoltre, era assai critico su altre richieste del Bund, come una maggior comprensione sull’osservanza del sabato e sull’uso dell’yiddish. Il problema poteva essere risolto solo in due modi: o come auspicava il Bund, oppure secondo i canoni della solidarietà bolscevica dei lavoratori. Naturalmente, queste formule ideologiche coprivano posizioni personali che non avrebbero tardato a rivelarsi e che, in parte, si sarebbero polarizzate attorno alla lotta di potere resa inevitabile dalla morte di Lenin.

Stalin e Trockij, molto diversi fra loro, sin dagli inizi si erano trovati in contrasto, da quando il secondo, prima di allearsi con Lenin, aveva difeso l’unità tra bolscevichi e menscevichi. Secondo Trockij, che scrisse una biografia di Stalin, fu nel 1913, quando quest’ultimo finì in esilio in Siberia assieme a Sverdlov, che si manifestarono i primi sentimenti dichiaratamente antisemiti, ma forse il futuro dittatore aveva lasciato trasparire solo quell’aggressività che lo avrebbe trasformato in carnefice dei suoi nemici, veri e presunti, di ogni tipo e di ogni fede.

Nel 1915 le Centurie Nere avevano esercitato pressioni su Nicola II affinché deportasse in massa gli ebrei nell’aspra regione della Kolyma, appena sotto il circolo polare artico, oppure li eliminasse, e il granduca, comandante in capo dello zar, aveva accolto queste sollecitazioni emanando, per semplificare le operazioni di repressione, un decreto che accusava di tradimento tutti gli ebrei che abitavano lungo il fronte delle operazioni militari: 600.000 finirono in Siberia. Le posizioni degli avversari dello zar sulla guerra in atto non erano concordi. Da un lato, Lenin e Zinov’ev proclamavano la necessità di un disfattismo rivoluzionario che aprisse la strada, con la caduta del regime zarista, a un totale rivolgimento politico, mentre Trockij, dal canto suo, sosteneva che non si dovesse predicare né la vittoria né la sconfitta, fintantoché il conflitto era in corso.

Il Comitato centrale rivoluzionario, eletto nell’aprile 1917, era composto da nove persone, fra cui i già noti Kamenev, Sverdlov, Zinov’ev e Trockij. In ottobre, quando ci fu il colpo di Stato, fu subito chiesto a Stalin di occuparsi della questione delle nazionalità, anche in quanto autore del saggio di cui si è detto. La questione era cruciale non tanto e non solo da un astratto punto di vista teorico marxista, ma anche da un punto di vista pratico, in considerazione della composizione multietnica dell’Impero russo. Il futuro dittatore creò quindi immediatamente il Commissariato per gli Affari ebraici (Evkom), composto dalle Evsekcija. Questo organismo aveva il compito di applicare tutti quei provvedimenti che nel corso del tempo gli zar avevano tentato inutilmente di mettere in atto: liquidare le istituzioni nazionali e religiose ebraiche. Se la motivazione ideologica di base era differente, lo scopo, invece, era identico.

Dal dicembre 1918 all’agosto 1919 Stalin, aiutato da Samuel Agurskij e poi con l’appoggio di Lenin, Trockij e di tutto il gruppo dirigente al potere, firmò alcuni decreti miranti a impedire l’istruzione religiosa e l’insegnamento dell’ebraico, e ad abolire qualsiasi forma comunitaria separata, nel tentativo di cancellare le storiche kheilloth, le comunità ebraiche. Persino le organizzazioni dei reduci di guerra, i gruppi di addestramento professionale e di organizzazione sanitaria finirono nel mirino di Agurskij, un ebreo dapprima attivo nel Bund e nei gruppi anarchici, poi emigrato negli Stati Uniti e infine tornato con lo scopo dichiarato di degiudaizzare gli ebrei russi. La sua opera non sarebbe stata premiata: accusato dopo qualche tempo di far parte della «feccia ebraica fascista», malgrado i servigi resi e le sue incrollabili illusioni, anche di fronte alle purghe più sanguinose verso la fine degli anni Trenta, fu assassinato.

Una caratteristica distingueva la repressione scatenata dai sovietici da quella degli zar: si avvaleva del contributo zelante e spietato di numerosi ebrei che avevano abbandonato il loro mondo di origine e le loro radici. Costoro combattevano con asprezza inusitata, in nome della nuova ideologia, qualsiasi forma di giudaismo e di sionismo, persino i partiti come il Bund, che pur essendo antisionisti si esprimevano in nome e per conto degli ebrei: gli ebrei come tali erano rappresentati come nemici di classe.

Su «Zizn Nacionalnostej», giornale delle nazionalità da lui diretto, Stalin pubblicò nel dicembre 1919 un articolo in cui salutava la scomparsa delle organizzazione ebraiche, mettendo in rilievo che le masse lavoratrici ebraiche avevano ormai la loro patria socialista e che la difendevano insieme alle masse operaie e contadine contro l’imperialismo. Una questione ebraica non esisteva più nella Russia sovietica, dal momento che tutti i diritti nazionali e civili erano stati conquistati. Non si trattava certo della linea di tutto il gruppo dirigente, ma il punto di vista di Stalin era autorevole, e lui stesso pareva far sfoggio di magnanimità, concludendo l’articolo con queste parole: «Non vi sono più ostacoli allo sviluppo della cultura ebraica. Non abbiamo bisogno di altri Paesi. Non avanziamo alcuna pretesa nazionale al possesso della Palestina».

La vittoria e il progressivo consolidamento del regime sovietico finirono per creare situazioni nuove. Il Bund fu assorbito, le masse ebraiche cominciarono a adattarsi uscendo via via dalla famigerata zona di residenza, e molti si affacciarono per la prima volta nelle stanze del potere, spesso con prepotenza. Nel primo Politburo accanto a Lenin vi erano Kamenev, Sverdlov, Zinov’ev, Radek, Trockij, Litvinov, ma mentre gli altri declinarono la nazionalità russa, solo l’ultimo si dichiarò di nazionalità ebraica.

Nella polizia segreta, la famigerata Čeka – ha notato l’illustre storico Salo Baron –, forse per un’inconscia rivalsa a causa delle sofferenze subite per opera della polizia zarista, entrò un numero sproporzionato di ebrei, e quasi tutti in seguito furono metodicamente eliminati da Stalin. «La Čeka non è un tribunale» disse Feliks Dzeržinskij al menscevico Rafail Abramovič «ma il terrore organizzato: è obbligata a difendere la rivoluzione abbattendo il nemico, anche se la sua spada dovesse cadere sulla testa di persone innocenti.» Il mutamento sociale – questa era la filosofia ispiratrice – implicava lo sterminio di certe classi sociali. «Dobbiamo trascinarne con noi 90 milioni» diceva. «Se 10 muoiono, pazienza.»

L’attentato del 30 agosto 1918 in cui Lenin rimase gravemente ferito e per il quale fu incolpata Fanny Kaplan (Fejga Rojdman), una giovane ebrea che lavorava in una fabbrica come modista, fece crescere l’odio antiebraico. La donna fu incarcerata, interrogata e subito giustiziata senza processo, e su questa storia è poi sceso un velo di mistero. Secondo Vaksberg, una nuova versione dei fatti sostenuta da documenti inediti e autentici avrebbe indicato in Jakov Sverdlov, ebreo e compagno d’armi di Lenin della prima ora, uno dei responsabili, insieme al famigerato Dzeržinskij, capo della Čeka. Stalin ne approfittò per chiedere a Sverdlov stesso, forse colpevole, ma forse anche desideroso di non lasciare tracce pericolose, un’immediata repressione e un’intensificazione del terrore di massa contro le mire controrivoluzionarie della borghesia e i suoi agenti. Lenin diede la sua approvazione e promosse Stalin.

Sverdlov morì qualche tempo dopo, nel marzo 1919, in circostanze oscure. Si diceva in giro che fosse stato bastonato a morte da alcuni operai a causa delle sue origini ebraiche, ma la circostanza non sarebbe stata resa nota, sia per non infangare l’onore della rivoluzione, sia per non aizzare ulteriormente l’antisemitismo. In ogni caso, tanto la Kaplan quanto Sverdlov erano ebrei, e questo fatto diventava il punto di partenza di svariate elucubrazioni. La scoperta, nel 1994, di una lettera indirizzata a Stalin nel 1935 da Genrich Jagoda, capo della famigerata Lubjanka, nella quale si parla di una cassaforte contenente somme in denaro e preziosi di proprietà di Sverdlov, infittisce gli aspetti misteriosi e romanzeschi dell’intera vicenda, contribuendo a gettare una luce sinistra su quegli avvenimenti e alimentando le voci di complotti, in cui gli ebrei, in un modo o nell’altro, erano sempre coinvolti. Jagoda stesso, uomo sanguinario ma anche ebreo, sarebbe finito tra le vittime delle purghe di Stalin.

L’idea del complotto ebraico ne uscì in ogni caso rafforzata, e del resto Stalin aveva tutto l’interesse, se non anche la predisposizione d’animo, a diffonderla: nella lotta per il potere, infatti, si preparava a eliminare tre concorrenti come Kamenev, Zinov’ev e Trockij, che potevano facilmente essere attaccati come sabotatori controrivoluzionari. Stalin e Trockij, fino alla scomparsa di Lenin, non si scontrarono mai apertamente, anzi collaborarono nel consolidamento del potere dei soviet. Nel 1921 Trockij, con l’aiuto di Dzeržinskij, aveva represso nel sangue la ribellione dei marinai anarchici di KronŠtadt; poi, insieme a Stalin, seguendo una logica spietata, aveva liquidato il movimento anarchico antiautoritario e le rivolte nazionaliste in Georgia e Ucraina. In Georgia i menscevichi erano in maggioranza e la fazione socialista, nella quale erano confluiti molti ebrei, era nazionalista: in questo ribollire di sentimenti politici contrastanti i due leader del Cremlino videro l’inizio di un’aggressione imperialista.

Tra il gennaio e il marzo 1921 la guerra civile ebbe un nuovo sussulto: cinque armate si combattevano con asprezza, ci furono carestie, epidemie e parecchi casi di cannibalismo. Non c’è da stupirsi che in un simile quadro di terrore e di morte lo slogan zarista di antica data: «Uccidete gli ebrei, salvate la Russia» tornasse di attualità, a disposizione di ogni drappello di disperati. Trockij non protestò mai apertamente per l’antisemitismo che ogni tanto si respirava anche nel partito, ma pare che abbia rifiutato incarichi importanti adducendo la scusa che non voleva si dicesse che in Russia comandava un ebreo.

Non possiamo sapere se Stalin abbia accelerato la morte di Lenin (gennaio 1924) quando era già gravemente malato. Nel corso di quell’anno, in un rapporto speciale uscito dalla Lubjanka, si ventilava l’eventualità che Lenin fosse stato avvelenato da ebrei che intendevano rimpiazzarlo con Trockij. Nel 1924, però, Trockij era già sconfitto, e quando Kamenev e Zinov’ev si schierarono con lui, era troppo tardi. «Era pur sempre un ebreo» ebbe a commentare Winston Churchill, che capì perché Trockij avesse perso la battaglia per il potere. «Questo fatto non poteva essere superato in alcun modo. È dura, quando hai abbandonato la tua famiglia, la tua stirpe, sputato sulla religione di tuo padre e trattato ebrei e gentili con la stessa malevolenza, scoprire che ti impediscono di cogliere un premio così grande per una ragione così meschina.»

Diverso, rispetto al caso della morte di Lenin, mai chiarita, fu quello di Michail Frunze, che aveva sostituito Trockij al comando dell’Armata Rossa e rivelato ambizioni personali: si può ragionevolmente affermare che il suo assassinio fu messo in atto dai medici. Nell’ottobre 1925 Frunze, sospettato di bonapartismo e di voler preservare l’esercito dalle mire della polizia segreta, fu obbligato dal Politburo, suo malgrado, a operarsi di ulcera e morì poche ore dopo l’intervento per un aggravarsi improvviso delle sue condizioni di salute a causa di una misteriosa reazione allergica: secondo molti, fu ucciso deliberatamente.

Lo scrittore ebreo Boris Pil’njak pubblicò poco tempo dopo sul «Novyj mir», grazie alle informazioni dell’amico Jakov Saulovič Agranov, della polizia segreta, il breve testo La storia della luna non estinta, in cui racconta un caso simile: un importante personaggio è costretto a operarsi e viene assassinato sul tavolo operatorio dai medici. Pil’njak e Agranov furono assassinati, a loro volta, nel 1938. Allo stesso modo finì deportato David Rjazanov (Goldenbach), un ebreo che durante un dibattito si era rivolto a Stalin dicendogli: «Koba, non creare imbarazzo; la teoria non è il tuo forte». Assassinato fu pure Jan Sten, vicedirettore dell’Istituto Marx-Engels, di cui Stalin fu allievo per tre anni. (Sten, che aveva fiuto, una volta disse che se Stalin fosse andato al potere, avrebbe oscurato i processi Dreyfus e Beilis.)

Una volta segretario del Comitato Centrale, Stalin non ebbe difficoltà a circondarsi, come abbiamo detto, di assistenti ebrei: Grigorij Kanner, Lev Mechlis, Aron Gertzenberg, Il’ja Trainin, Karl Pauker; negli anni Venti, fra i suoi medici personali vi erano Weisbrod Mosenberg, Lev Grigorič Levine e Genrich Jagoda, un tossicologo che in seguito, come abbiamo visto, sarebbe diventato il capo della polizia segreta. Che in quel periodo i medici fossero impiegati con disinvoltura non solo per curare, ma anche per punire, lo si può evincere dal fatto che spesso prescrivevano agli oppositori politici soggiorni nei campi di prigionia, invece che in luoghi di convalescenza. Ne era ben conscio Adol’f Ioffe, un alto dirigente intimo amico e alleato di Trockij, anch’egli ebreo, che compì l’estremo gesto del suicidio quando il comitato medico del Comitato Centrale gli rifiutò il permesso di curarsi all’estero e la possibilità di procurarsi le medicine necessarie.

Quanto alla lotta sviluppatasi negli anni Venti contro la cosiddetta «opposizione di sinistra», occorre dire che Stalin, sul piano ideologico, contrappose l’idea del socialismo in un solo Paese a quella più internazionalista, e quindi straniera, di Trockij, lasciando trasparire l’idea, in articoli e caricature sui giornali, che i suoi oppositori fossero influenzati dagli ebrei. Tuttavia, dichiarò: «Noi lottiamo contro Trockij, Zinov’ev e Kamenev non perché sono ebrei, ma perché sono oppositori». Probabilmente diceva la verità, ma questa dichiarazione, osservò Trockij, dava «carta bianca all’antisemitismo». Nel 1926 Trockij ebbe maggior sentore di quanto stava accadendo e protestò con Bucharin: «È mai possibile che nel nostro partito a Mosca, nelle cellule operaie, si faccia impunemente dell’agitazione antisemita?».

Ormai il potere era saldamente nelle mani di Stalin. Tra il 1929 e il 1932 i suoi programmi di collettivizzazione travolsero i kulaki, cioè quei contadini ricchi, o forse solo appena abbienti, che si opponevano alla sua linea politica, e fu l’inizio di un’immensa tragedia che portò alla morte milioni e milioni di vittime innocenti. «Talvolta» scrisse Zinov’ev «ci piace chiamare kulak ogni contadino che abbia di che mangiare.» Scrisse Nadežda Mandel’štam, moglie del poeta: «Negano la responsabilità per ciò che accadde in seguito. Ma come possono farlo? In fin dei conti furono questi uomini degli anni Venti a demolire i vecchi valori e a inventare le formule… per giustificare un esperimento senza precedenti: non è possibile fare una omelette senza rompere un uovo. Ogni nuovo assassinio veniva giustificato sulla base del fatto che stavano costruendo uno straordinario nuovo mondo. I massacri e la carestia sfibrarono il Partito, ma i suoi membri ebbero appena un piccolo sussulto: come potevano accettare un numero di morti così elevato?».

Il disprezzo che Lenin e Stalin nutrivano per i kulaki era diffuso in Russia. «Noi» aveva scritto Dostoevskij «non ci vantiamo certo dei nostri kulaki, non li presentiamo come esempi da seguire, ma al contrario siamo d’accordo che gli uni e gli altri [ebrei e kulaki] sono ugualmente dannosi.» Persino un uomo equilibrato come Maksim Gor’kij, parlando dei kulaki, manifestò il desiderio che «il popolo incivile, stupido, gonfio dei villaggi russi si estingua… e venga rimpiazzato da un popolo istruito, razionale, energico», e lo stesso grande regista ebreo Sergej EjzenŠtejn mantenne vivo il pregiudizio che identificava i kulaki con i predatori.

Le proteste giunte da tutto il mondo, e in particolare dalle organizzazioni ebraiche, contro le misure selvagge e le deportazioni di massa, finirono per suscitare in Stalin sentimenti ancora più ostili verso gli ebrei. La sua ossessione, comunque, sarebbe cresciuta ancora dopo la Seconda guerra mondiale, probabilmente sia per l’aggravamento della sua paranoia, sia perché gli sarebbe stato facile, cavalcando il nazionalismo russo più arcaico, rinsaldare il suo potere dispotico.

Agli inizi degli anni Trenta, in ogni caso, la situazione degli ebrei in Russia in apparenza non era troppo diversa da quella degli altri gruppi sociali: rischi ce n’erano per tutti. Anzi, le dichiarazioni ufficiali di Stalin alimentavano l’illusione che il gruppo ebraico fosse protetto.

Può sembrare fatuo ricordare che, proprio nel momento in cui l’assassinio politico diventava consuetudine, le canzonette godevano di una straordinaria popolarità, ed erano soprattutto i musicisti ebrei a raccogliere successi strepitosi: Dimitrij e Daniel Dunaevskij, i fratelli Dimitrij e Daniel Pokrass, Matveij Blanter (autore di Katju Š a, anche detta Kaza č ok), Sigismond Katz, Viktor Bielyi, Konstantin Listov, Zinovi Companez, Jan Frenkel, Mark Fradkin, Arkadij Ostrovski, Oskar Feltzman, Isaak Schwartz; quasi tutti ebrei erano anche i grandi pianisti e i violinisti, che ricevevano un trattamento privilegiato dal regime: David Ojstrach, Emil Gilels, Jakov Flier, Jakov Zak, Rosa Tamarkina, Arnold Kaplan, Grigorij Ginzburg, Marija Grinberg, Michail Fihtengolz. Anche nel campo della musica jazz, dagli anni Venti ai Quaranta la scena era stata dominata da band formate da elementi ebraici: Julij Leitus, Grigorij Landsberg, Aleksandr Tsfasman, Jakov Skomorovskij, Leonid Utesov (Lazar Weibein), Eddie Rosner, Viktor Knučevickij. I destini di questi uomini, colpevoli di suonare una musica che non era apprezzata e veniva considerata filoamericana, furono spesso tragici. Privilegiati erano inoltre i grandi scacchisti ebrei, da Michail Botvinnik a Grigorij Loewenfisch, da Isaak Boleslavskij a Il’ja Kan. Botvinnik, il più celebre, restò devoto al regime sovietico per tutta la vita.

In quegli anni, fra i membri del Consiglio dei commissari del popolo c’erano Maksim Litvinov (Meir Vallach-FinkelŠtejn) agli Esteri, Genrich Jagoda (Jehuda Herschel) all’Interno, Lazar Kaganovič alle Vie di comunicazione, Arkadij Rozengol’c al Commercio estero, Israel Vietzer al Commercio, Moisej Kalmanovič ai Sovkoz, Moisej Rukjhimovič all’Industria bellica, Isidore Lubimov all’Industria leggera, Aleksandr Bruskin alle Costruzioni meccaniche, Grigorij Kaminskij alla Sanità pubblica. La partecipazione ebraica era rilevante anche tra i funzionari di alto grado.

«L’antisemitismo» dichiarò in modo categorico Stalin il 12 gennaio 1931 (la «Pravda» riprese le sue affermazioni nel novembre 1936) «è un pericolo per i lavoratori, come un sentiero che inganna, facendo dimenticare quale sia la via diritta, e conduce nella giungla. È per questo che i comunisti non possono che essere nemici decisi, feroci e irriducibili dell’antisemitismo… l’antisemitismo è una forma di cannibalismo, e le leggi russe puniscono a morte chi fa dell’antisemitismo attivo.» Questa dichiarazione godette di diffusa popolarità non solo in Russia ma in tutto il mondo, e per molti risuonò come una musica tranquillizzante. Era quello che gli intellettuali occidentali volevano sentirsi dire: Stalin sapeva bene che la legge che definiva l’antisemitismo un crimine era stata abolita nel 1922, ma pure che il ruolo degli ebrei nella società russa cresceva in continuazione. Nessuno poteva presagire che quasi tutti, non troppo tempo dopo, sarebbero stati ospiti della Lubjanka e poi deportati o fucilati.

Stalin non si risparmiava nel costruire il proprio mito: incontrava e seduceva intellettuali ebrei come Lion Feuchtwanger, che si lasciò abbindolare completamente, manteneva contatti con Romain Rolland, e persino Albert Einstein aveva l’impressione che il dittatore non fosse così criticabile. George Bernard Shaw e H.G. Wells, dal canto loro, lo esaltarono senza riserve. In quel momento nessuno era a conoscenza di una lettera, datata 19 dicembre 1932, che avrebbe potuto gettare qualche sospetto sul suo comportamento e che, uscita dagli archivi segreti, è stata divulgata solo da pochi anni. L’aveva scritta Anna Ul’janova, sorella di Lenin, allo stesso Stalin.

«Caro Iosif Visarionovič, Vi scrivo non solo perché vi trovate alla testa del Partito, ma anche perché alcuni personaggi, implicati in un affare scandaloso, mi hanno spinto a indirizzarmi a Voi, visto che pretendono di agire in accordo con Voi, anche se mi rifiuto di crederlo… Lo studio delle origini di mio nonno – e dunque quelle di Vladimir Il’ič – ha rivelato che egli era uscito da una povera famiglia ebraica ed era, come indica il suo certificato di battesimo, figlio di Moička Blank, un borghese di Žitomir. Ora è stato giudicato inopportuno rivelare questo fatto, la cui importanza è considerevole per una biografia scientifica di Vladimir Il’ič. All’Istituto [si tratta dell’Istituto Marx-Engels-Lenin] è stato deciso di non divulgare la notizia e di mantenere il segreto. A seguito di questa decisione, io non ne ho parlato ad alcuno, neanche ai compagni più vicini… Peraltro, in ragione del rispetto di cui godeva Vladimir Il’ič, essa potrebbe essere di grande aiuto nella lotta contro l’antisemitismo e, a mio avviso, non dovrebbe dare fastidio a nessuno… Noi non abbiamo alcuna ragione di dissimularla, poiché potrebbe confermare, ancora una volta, i dati sulla capacità eccezionale della tribù semita e sui vantaggi per la posterità del mescolamento delle tribù, e questa è sempre stata l’idea di Vladimir Il’ič, che ha sempre tenuto gli ebrei in grande stima.»

Queste poche righe, per molti aspetti sensazionali, non solo rivelano un segreto ben custodito, ma mettono in luce che le preoccupazioni di Anna Ul’janova erano evidentemente dettate dalle voci di deportazioni antiebraiche, che cominciavano a circolare negli ambienti riservati della capitale. Si capisce anche perché Lenin, al di là delle motivazioni ideologiche ufficiali, avesse scritto a Gor’kij questa frase, che evidentemente riferiva a se stesso: «Il russo intelligente è sempre ebreo, o almeno di sangue misto».

Sempre in quegli anni Stalin si servì di un gruppo di uomini di origine ebraica, spietati e senza scrupoli, i quali contribuirono, insieme ad altri naturalmente, a far funzionare la sua macchina infernale del terrore e delle deportazioni. Fra questi c’erano Kaganovič, Jagoda e il suo diretto collaboratore Naftalij Frankel, Matveij Berman, coordinatore del sistema schiavistico nei campi di lavoro, e il fratello Boris, entrambi membri della Čeka, Aron Solc, funzionario della polizia segreta, A.A. Sluckij, responsabile di un dipartimento di polizia, e K.V. Pauker, quadro operativo della struttura di Jagoda. Costoro si macchiarono di crimini orribili e ripetuti contro gli oppositori, veri o presunti, e contro interi gruppi sociali accusati di attività antigovernative. Uccisero o mandarono nei campi di schiavitù, senza alcuna pietà, migliaia di innocenti di ogni origine e provenienza. Quasi nessuno di questi carnefici sopravvisse alle eliminazioni successive scatenate contro di loro da Stalin (forse l’unico fu Kaganovič, che visse oltre novant’anni).

Jagoda, il creatore del sistema del lavoro forzato e del gulag, finì davanti ai giudici per un processo completamente truccato insieme a cinque medici, fra cui Lev Levine e Dmitrij Pletnev, ben quindici anni prima che Stalin imbastisse il famoso complotto dei medici: la loro colpa, vera o presunta che fosse, era di aver avvelenato alcune personalità importanti, fra cui Maksim Gor’kij. Tutti gli imputati furono eliminati, chi mediante fucilazione, chi mediante deportazione nei campi di lavoro, dove raramente si sopravviveva a lungo, a causa delle condizioni proibitive. «Durante il Grande Terrore» ha scritto Louis Rapoport «gli agitatori di Stalin avevano fomentato il pregiudizio antisemita, mentre l’attenzione era concentrata sulle leggi antisemite e le persecuzioni nella Germania nazista degli anni precedenti la guerra. Stalin, tra i 10 milioni di vittime delle purghe, stava sterminando 500.000 o 600.000 ebrei. Fra tutte le nazionalità sovietiche, in percentuale quella ebraica fu probabilmente la più colpita.» Con un particolare agghiacciante: molti ebrei, dopo aver rinnegato il giudaismo, si erano resi complici ed esecutori delle aberrazioni del sistema sovietico e delle interminabili lotte di potere scatenate dal dittatore. «Finalmente» disse ironicamente un vecchio ufficiale zarista a Jules Margolin, detenuto anch’egli nei campi di lavoro nella regione del Baltico e del Mar Bianco, «i sogni del nostro amato Nicola II, che personalmente era troppo debole per tradurli in realtà, si sono avverati. Le prigioni sono piene di ebrei e sovietici.»

Ancora nel 1934, tuttavia, alla fine del XVII Congresso del PCUS, era possibile annoverare almeno 27 ebrei fra i 139 membri del Comitato Centrale, e il dittatore riusciva a mascherare i propri crimini contro inermi popolazioni e oppositori politici con l’accusa di essere agenti della Gestapo e controrivoluzionari, e costruiva un’efficace macchina di propaganda capace persino di zittire l’opinione pubblica internazionale e i più autorevoli intellettuali francesi, inglesi e americani.

L’assassinio di Sergej Kirov, l’1 dicembre 1934, rivelò il desiderio di Stalin di eliminare brutalmente qualsiasi eventuale antagonista politico. Due settimane dopo fece arrestare Zinov’ev e Kamenev e altri complici controrivoluzionari, fra cui numerosi ebrei. I due tentarono di ottenere qualche garanzia e alla fine accettarono di firmare una dichiarazione di colpevolezza a condizione che le condanne non comportassero fucilazioni e che le loro famiglie fossero risparmiate. Ma i patti non furono rispettati: Jagoda li fece assassinare, poi conservò come reliquia i due proiettili, sui quali fece incidere i nomi dei due leader sovietici caduti in disgrazia.

«Stalin» ha raccontato Sebag Montefiore «era sempre affascinato dal contegno dei suoi nemici di fronte alla morte, godeva della loro umiliazione e del loro annientamento: “Un uomo può essere fisicamente coraggioso, pur essendo politicamente un codardo” disse. Qualche settimana dopo, durante una cena per celebrare la fondazione della Čeka, Pauker, l’attore comico di Stalin, mise in scena le suppliche e la morte di Zinov’ev. Fra le risate rauche del Vozd (la guida) e di Ežov, Pauker – calvo, grassoccio e stretto nel suo busto – fu trascinato nella stanza da due amici che impersonavano le guardie dell’NKVD. Si mise quindi a scimmiottare Zinov’ev che gridava: “Per amor di Dio, chiamate Stalin”, aggiungendo altri particolari inventati sul momento. Pauker, egli stesso ebreo, amava raccontare a Stalin barzellette sugli ebrei arrotando le “r” e mimando un atteggiamento pauroso e servile. In questo caso rappresentò Zinov’ev mentre levava le mani al cielo e gridava piangendo: “Ascolta Israele, il Signore è nostro Dio, il Signore è unico”. Stalin si divertì tanto che Pauker fece il bis. Il Vozd si sentì quasi male dal gran ridere e dovette fargli cenno di smettere. Karl Viktorovič Pauker, il beniamino dei bambini del Cremlino, quarantaquattrenne parrucchiere ungherese, fu arrestato qualche tempo dopo e fucilato senza clamore il 14 agosto 1937.»

In una sera d’estate del 1923, parlando a cuore aperto a Dzeržinskij e Kamenev, Stalin aveva enunciato la propria teoria della dolce vendetta: «Scegliere la vittima, preparare minuziosamente il colpo, compiere una vendetta implacabile e poi andare a letto… non c’è nulla di più dolce al mondo». Evidentemente, a distanza di tempo, la pensava sempre allo stesso modo. L’arresto di quasi novecento persone (il 60% circa ebrei) a Leningrado, con le stesse accuse rivolte a Zinov’ev e Kamenev, può essere interpretato come un altro grave episodio della lotta senza esclusione di colpi che si scatenò ai vertici del partito e del governo sovietico, ed è difficile dire – forse è anche superfluo chiederselo – se Stalin considerasse già tutti gli ebrei alla stregua di nemici in quanto ebrei, o perseguitasse solo alcuni di loro in quanto potenziali nemici politici.

Sempre nel 1934 era giunto in porto il progetto del Birobidžan, cioè l’attribuzione agli ebrei di una terra desolata nelle regioni dell’Estremo Oriente, di cui si discuteva dal 1928. Queste idee di emigrazioni massicce, e più o meno forzate, dovevano in ogni caso essere contestualizzate all’interno dei grandiosi, e folli, progetti destinati a spostare enormi masse di popolazione da un territorio all’altro e a cambiare il volto dell’intera Unione Sovietica. In pubblico l’atteggiamento di Stalin fu equilibrato. Nel 1935, al Teatro Bolscioi, nel corso di una rappresentazione del Teatro ebraico, applaudì Solomon Mihoėl’s e Benjamin Zuskin con grande enfasi, in modo che tutti i presenti lo imitassero; dopo tredici anni avrebbe fatto assassinare il primo, e dopo diciassette il secondo.

Nell’estate 1936 il dittatore sovietico continuava a perseguire una politica dal doppio binario: da un lato un’energica e strumentale repressione di chiassose manifestazioni di antisemitismo mediante processi magniloquenti e condanne severissime; dall’altro, pochi mesi dopo, la liquidazione di Kamenev e Zinov’ev e un processo a 16 traditori, fra cui 11 ebrei, considerati spie e amici della Gestapo. Ancora: mentre per la realizzazione dei lavori del Canale Mar Baltico – Mar Bianco usava ebrei in fuga dai territori occupati dai nazisti e pronti per il gulag, contemporaneamente insigniva dell’Ordine di Lenin Lazar Kogan, Matveij Berman, Semën Firin, Jakov Rapoport, i suoi uomini alla Lubjanka; Maksim Gor’kij, dal canto suo, fece pubblicare un’opera con grandi foto di uomini dell’NKVD, guarda caso, tutti ebrei.

Nel processo del gennaio 1937 contro gli antipartito, gli imputati ebrei erano 7 su 17. I principali accusati, Pjatakov e Serebrjakov, furono condannati a morte, mentre due ebrei, Radek (Sobelsohn) e Sokolnikov (Brilliant), almeno per il momento sopravvissero. Nel dicembre di quello stesso anno, la quota di ebrei alle elezioni del Soviet supremo non si era ridotta (erano 47), e c’era chi stava facendo una rapida carriera ai vertici del partito e dello Stato. È vero che alcuni dirigenti di altissimo livello erano stati fucilati o giacevano in attesa in una cella della Lubjanka – Genrich Jagoda, Rozengol’c, Weitzer, Lubimov, Kaminskij, Kalmanovič – e che alla «Pravda» e alle «Izvestija» gli ebrei erano stati messi da parte. Nessuno, tuttavia, poteva decifrare gli eventi giungendo alla conclusione che sotto il potere di Stalin fosse in atto una campagna antisemita.

Nel 1934 gli ebrei erano il 31% dei dirigenti della Lubjanka, nel 1936 il 39, nel 1937 il 37, nel 1938 il 21, nel 1939 il 4. Negli anni del Terrore furono eliminati i due fratelli Berman – Matveij e Boris –, Jakov Agranov (Sorendson), Lev Belskij (Levine), Semën Jukovskij, Leonid Zakovskij (Genrich Stubis), Zelman Zalin, Juchman Zver’ev, Israel Leplevskij, Semën Mirkin, Il’ja Ressin, tutte rotelle dell’apparato repressivo sovietico, ma fra le vittime si potevano contare in gran numero militanti di qualsiasi origine ed estrazione sociale. Il dittatore eliminava chi gli sembrava scomodo e poco affidabile, senza pregiudizio alcuno, ubbidendo a una logica aberrante che aveva l’unico scopo di consolidare il suo personale potere e il suo progetto politico sanguinario.

Pare che nel 1939 anche Erenburg fosse destinato a cadere stritolato negli ingranaggi della repressione: fu la sua popolarità in Francia a salvargli la vita per un soffio, in quanto fu ritenuto ancora utile per la propaganda di regime. Nel gennaio di quell’anno Stalin decise di attribuire diversi premi agli scrittori e agli intellettuali legati al potere: fra gli ebrei che ottennero il premio Lenin ci furono uomini come Perec MarkiŠ, Leib Kvitko, Samuel Galkin, David Hofstein, Itzik Fefer, tutti scrittori yiddish piuttosto famosi. Stalin, però, ne volle premiare altri poco noti come Margarita Aliger, Michail Ilin (pseudonimo di Il’ja Jakovlevic MarŠak), Viktor Fink. Il dittatore amava la letteratura e, secondo Molotov, possedeva una biblioteca di 20.000 volumi che aveva letto con cura. «Se vuoi conoscere le persone che ti stanno intorno» diceva «cerca di scoprire che cosa leggono.» Con amara preveggenza, Osip Mandel’štam affermò che la poesia era rispettata in Russia, tanto che «in suo nome venivano uccise molte persone», più che in qualsiasi altra nazione.

Nel maggio 1939 si susseguirono alcuni avvenimenti difficilmente prevedibili. Maksim Litvinov, commissario agli Esteri, fu sostituito d’improvviso da Molotov e pochi giorni dopo furono cacciati da quel ministero e arrestati molti funzionari competenti e preparati; questa volta erano tutti ebrei: Evgenij Hirschfeld, Marc Plotkin, Emmanuel Herschlmann, Lev Mironov (Pines), Grigorij Wainstein ed Evgenij Gnedin, figlio del famoso Parvus. Altri ambasciatori furono rimossi: a Londra Ivan Majskij, a Roma Boris Stein, a Stoccolma Aleksandra Kollontaj, amica di Litvinov. «Epurate gli ebrei presenti nel ministero» disse Stalin. «Ripulite la sinagoga.» Molotov, che aveva sposato un’ebrea, commentò: «Queste parole sono una vera benedizione… la stragrande maggioranza di coloro che lavoravano al ministero, compresi molti ambasciatori, erano ebrei».

Nell’agosto 1939 arrivò a Mosca Ribbentrop per firmare il patto tedesco-sovietico: a quel punto fu abbastanza chiaro perché Stalin si fosse sbarazzato degli ebrei del ministero degli Esteri sovietico. È vero che promosse Rozalija Zemljačka, che si era distinta per la crudeltà nella repressione delle popolazioni in Crimea; è vero che riportò alla ribalta il mediocre Solomon Lozovskij, ma si trattava di mosse tattiche di breve periodo e di personalità di scarso spicco. Ben più drammatica stava diventando la situazione ai confini polacchi, dove centinaia di migliaia di persone cercavano di raggiungere la Russia per sfuggire alle angherie e alle brutalità dei nazisti: molti, respinti dalle truppe sovietiche, finivano un’altra volta fra gli artigli dei nazisti o sotto i colpi delle guardie di frontiera. In particolare, Stalin fece riconsegnare a Hitler parecchi ebrei comunisti che erano riusciti a riparare in Russia.

All’inizio del 1939 la popolazione degli ebrei in Russia superava i 3 milioni e l’annessione dei Paesi Baltici, della Polonia orientale, della Moldavia e della Bucovina ne aveva portati in dote altri 2, per un totale di oltre 5 milioni. Stalin, in ogni caso, continuava a servirsene quando ne aveva bisogno: il progetto di assassinare Trockij, per esempio, era stato affidato a Naum Ejtingon e Grigorij Rabinovič. Alla fine del giugno 1941, quando ci fu l’attacco tedesco, il dittatore, di fronte al rovinoso disastro militare, ben conscio che in molte regioni serpeggiavano malcontento e rivolta, si rese conto che il suo potere personale era in serio pericolo e decise di cercare alleanze nel Paese con tutti i nemici della Germania nazista – la Chiesa ortodossa, le comunità musulmane e, in primo luogo, gli ebrei – e all’esterno con Stati Uniti e Gran Bretagna. Gran parte della popolazione ebraica, circa il 40%, si trovava nei territori occupati dai tedeschi, e il suo destino ormai non interessava più a nessuno, ma gli ebrei in territorio russo potevano essere usati convenientemente nella propaganda e nella lotta; i nazisti, del resto, pur dichiarando guerra alla Russia, manifestavano soprattutto il desiderio di liquidare i cosiddetti «giudeosovietici».

Nel settembre 1939 finirono nelle mani dei sovietici, a Brest-Litovsk, Henryk Erlich e Viktor Adler, due famosi capi del movimento socialista internazionale, ex dirigenti del Comintern, fondatori del Bund e membri dell’Internazionale socialista: in un primo momento furono incarcerati alla Lubjanka e interrogati da Lavrentij Berija, capo della polizia. Erano accusati di posizioni anticomuniste e di aver rivolto critiche al patto Hitler-Stalin. Condannati a morte nell’estate del 1941, prima godettero di una commutazione di pena e poco dopo furono liberati in seguito a un’amnistia. All’NKVD, che chiedeva loro di collaborare nella lotta antifascista, Erlich e Adler proposero di creare un Comitato ebraico antinazista, presieduto da Erlich, con vicepresidente Mihoėl’s e segretario Adler.

Non si sa quale fu la sorte di questa proposta, se fosse mai arrivata sulla scrivania di Stalin. Sorprendentemente Erlich e Adler furono convocati nel dicembre da Chazanovič, un ebreo funzionario della polizia segreta, e condotti da Berija, il quale, secondo alcune fonti, li avrebbe fatti fucilare dopo qualche settimana: la loro strana scomparsa suscitò reazioni non solo in Russia o in Polonia, ma anche nel resto del mondo dove erano molto conosciuti e stimati. Solo in un momento successivo fu reso noto che Erlich si era suicidato in carcere nel maggio 1942 e Adler era stato fucilato nel febbraio 1943, dopo una condanna senza appello approvata da Stalin in persona.

Fra l’ottobre 1939 e il giugno 1941 Stalin accettò di accogliere 300.000 ebrei in fuga costretti per necessità a lavorare in Siberia e nei territori del Nord. Sapeva bene cosa stava accadendo nei territori occupati dalle truppe naziste e cos’era successo a Babij Jar il 29 settembre 1941, ma solo nel dicembre 1942 il Sovinformburo parlò in maniera esplicita dello sterminio degli ebrei d’Europa voluto da Hitler e pianificato a Wannsee fin dal gennaio dello stesso anno.

Nello spirito del patto Stalin-Hitler, ha scritto Louis Rapoport, «tutti gli organi sovietici tacquero deliberatamente sul massacro genocida degli ebrei compiuto dagli occupanti nazisti della Polonia dal settembre 1939 al giugno 1941, quando invasero l’URSS». E il silenzio continuò anche dopo che Hitler ebbe invaso le terre dell’ex alleato. Stalin favorì così lo sterminio di un milione e mezzo di ebrei, colti alla sprovvista, nella Russia Bianca e in Ucraina. Nel luglio 1941 un rapporto della Wehrmacht dichiarava: «Gli ebrei sono singolarmente male informati sul nostro atteggiamento nei loro confronti e sul trattamento loro riservato in Germania e a Varsavia… anche se non si aspettano la concessione della parità di diritti con i russi sotto l’amministrazione tedesca, credono che li lasceremo stare se si applicheranno diligentemente al loro lavoro». Stalin non voleva che la guerra fosse vista come un modo di difendere gli ebrei, ma, alla luce delle difficoltà belliche, cominciò a considerarli come una carta strategica da giocare nello scenario internazionale; Berija, del resto, non aveva dimenticato la proposta di Erlich e Adler, e aveva chiesto a Lozovskij e Aleksandr Ščerbakov di approfondire quella possibilità.

Nell’agosto 1941 Solomon Mihoėl’s, David Bergelson, Leib Kvitko e Šachno Epstein scrissero una lettera a Lozovskij, in quel momento responsabile del Sovinformburo e vicecommissario del popolo agli Affari esteri: «Noi, un gruppo dell’intellighenzia ebraica, riteniamo che sarebbe utile organizzare una grande riunione ebraica che possa rivolgersi agli ebrei degli Stati Uniti, della Gran Bretagna e degli altri Paesi. L’obiettivo di questa riunione è mobilitare l’opinione ebraica mondiale nella lotta contro il fascismo e ottenere un sostegno attivo verso l’Unione Sovietica nella sua guerra patriottica di liberazione. A nostro avviso una simile riunione, con la partecipazione di accademici, scrittori, artisti e combattenti ebrei dell’Armata Rossa, avrà un grande impatto all’estero».

Nell’agosto 1941 la riunione – voluta da Lavrentij Berija, capo della polizia, e organizzata minuziosamente da Lozovskij e Ščerbakov, responsabili del Sovinformburo – ebbe luogo e alla tribuna si alternarono le figure più prestigiose del mondo ebraico sovietico: Mihoėl’s, Erenburg, Bergelson, e poi MarkiŠ, Pëtr Kapica, EjzenŠtejn. Nei loro discorsi tutti rivendicarono sorprendentemente, con fierezza inusitata, un’identità ebraica spesso sottaciuta, se non dissimulata, in passato e che ora invece, grazie al permesso, anzi all’incoraggiamento del potere sovietico, veniva messa in piazza senza esitazioni, con frasi impensabili fino a qualche settimana prima. «Sono ebreo, lo dico fieramente»: questa era la parola d’ordine degli oratori. Ritrasmessa per radio negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, la riunione ebbe persino l’onore di ottenere un articolo sulla «Pravda».

Nella primavera del 1942, dopo qualche esitazione, il dittatore russo decise finalmente la creazione del Comitato antifascista ebraico (CAE), presieduto da Solomon Mihoėl’s, al fine di favorire la mobilitazione internazionale del popolo ebraico contro i nazisti e di aiutare l’Unione Sovietica, impegnata in un grande sforzo bellico. Nel novembre Litvinov fu richiamato in servizio e inviato negli Stati Uniti, mentre Majskij fu spedito a Londra. Nel comitato d’onore del CAE entrarono i più celebri ebrei sovietici: l’aviatrice Polina Guelman, il comandante di sottomarini Israel Fissanovič, gli scrittori Il’ja Erenburg, Perec MarkiŠ, David Bergelson e Leib Kvitko, il famoso dottore Boris Šimeliovic. Solomon Lozovskij fu incaricato di controllarne le mosse e di mantenere la tutela della Lubjanka.

Secondo Mihoėl’s ed Epstein, tre erano gli scopi principali da perseguire: raccogliere informazioni sugli ebrei nell’URSS e nei Paesi occupati dai nazisti; creare comitati antifascisti all’estero e mobilitare gli ebrei nella lotta antifascista; organizzare una raccolta di fondi, medicine e vestiti per le popolazioni evacuate e per i militari dell’Armata Rossa. Per favorire la propaganda fu creato un giornale in yiddish, «Ejnjkeit», e fu deciso che Mihoėl’s e Fefer si recassero negli Stati Uniti: una risoluzione che nell’immediato conferì loro popolarità e successo, ma che li rese subito invisi a Stalin. Dal maggio al dicembre 1943 i due, sotto l’occhio vigile di due agenti dei servizi di sicurezza sovietici, Vasilij Zarubin e Grigorij Kheifetz, si recarono in Gran Bretagna, Canada, Stati Uniti, Messico, incontrarono Albert Einstein, Chaïm Weizmann, Thomas Mann, Lion Feuchtwanger, Charlie Chaplin, Marc Chagall, e parlarono a folle numerose: a New York si radunarono oltre 50.000 persone.

Mihoėl’s, Fefer ed Epstein, i tre esponenti di spicco del CAE, erano stati mandati negli Stati Uniti con lo scopo di convincere tutti quelli che incontravano che in Unione Sovietica non vi era traccia di antisemitismo, e che tutto rientrava nella lotta contro il nazismo. Mihoėl’s capì bene che il ruolo che gli chiedevano di svolgere fino in fondo era proprio questo: raccogliere fondi utili alla resistenza contro gli invasori tedeschi, e tranquillizzare tutti quanti, in virtù del suo prestigio personale, che gli ebrei erano ben tutelati. Nelle sue lettere emerge con chiarezza, tuttavia, quale fosse il suo stato d’animo e come lo avessero costretto a recitare una parte ambigua non su un palcoscenico, come aveva sempre fatto, ma sulla scena politica internazionale. Inoltre, non si fidava di Fefer, sapendo probabilmente che era al servizio dell’NKVD, la polizia segreta.

Il viaggio fu un successo. «L’arrivo della delegazione del CAE» scrisse Lozovskij «ha giocato un ruolo significativo nell’isolamento degli elementi antisovietici. A giudicare da quello che ne sappiamo, il gruppo attorno al giornale “Vorwaerts” e piccoli gruppi di menscevichi e bundisti russi sono stati messi da parte, e questo è un indubbio vantaggio per il movimento di aiuto all’Unione Sovietica.» Mihoėl’s e compagni tornarono all’inizio di dicembre 1943 con due progetti: la redazione di un Libro nero e la creazione di una Repubblica autonoma ebraica in Crimea.

Come vedremo meglio più avanti, fu chiesto a Erenburg e a Grossman di occuparsi del progetto del Libro nero. In origine l’idea era americana (risaliva ad Albert Einstein e Ben Zion Goldberg), e ciò poteva destare sospetti. Inoltre, privilegiare la descrizione delle atrocità subite dagli ebrei avrebbe potuto suscitare reazioni a catena nelle altre popolazioni russe. Sullo sfondo si agitava, inoltre, il mai sopito dibattito tra sovietici e bundisti, tutto centrato sulla difesa delle identità nazionali e sull’idea di nazionalità. Anche se si trattava di temi teorici in apparenza lontani dalla materia in discussione, chi conosceva bene Stalin sapeva che erano questioni assai pericolose, capaci di irritare la sua suscettibilità. Probabilmente il dittatore si era accorto che l’attività del CAE, oltre a costituire un’insidia ideologica, avrebbe potuto aprire un fronte di dissenso interno sulla questione delle nazionalità in Unione Sovietica.

Un osservatore accorto avrebbe notato che, nonostante le illusioni che la nascita del Comitato aveva portato con sé, era iniziato in Unione Sovietica un processo di epurazione silenziosa degli ebrei a livello di base, nelle istituzioni sia culturali sia amministrative. Non è facile capire perché Stalin avesse accentuato quella politica del doppio binario già spesso messa in atto, in modo apparentemente discontinuo. Nel 1943, quando cercò d’influenzare le elezioni dell’Accademia delle Scienze, sorprendentemente le sue direttive non furono seguite e vennero eletti uomini come Semën Isakovič Volfkovič, Isaak Abramovič Kazarnovskij, Aleksandr Abramovič Grinberg, Simon Zalmanovič Roguinskij, Jakov Kivovič Syrkin, Isaak Ruvimovič Kričevskij. Il dittatore ritenne opportuno non reagire in modo aperto a questo scacco: ancora una volta mostrò atteggiamenti solo in apparenza incoerenti e continuò a elargire i ben noti premi Stalin a diversi artisti, scrittori e intellettuali ebrei provvisoriamente graditi al regime. In qualche caso, alcuni lo ricevettero, quasi fosse il rinnovo di una polizza di assicurazione sulla vita, più di una volta: per esempio, David Ojstrach ed Emil Gilels.

In quel momento alla dirigenza sovietica stava a cuore l’operazione di propaganda e raccolta d’informazioni avviata grazie al CAE, la cui influenza e credibilità a livello internazionale era stata rafforzata con l’inserimento nel comitato direttivo di figure molto note anche al di fuori dell’Unione Sovietica, come l’accademica Lena Štern, il pittore Nathan Altman, il medico Mejer Vovsi. Diversi ebrei russi lavoravano alle ricerche sulla fissione nucleare: Matveij BronŠtein, Jakov Frenkel, Lev Landau, Evgenij LifŠitz, Naum Meiman, Arkadij Migdal, Il’ja Frank, Benzion Wuhl. Stalin si era convinto che attraverso le loro conoscenze e relazioni internazionali potesse essere informato di quanto stava accadendo in questo campo nel mondo occidentale. Controllato strettamente da informatori della Lubjanka, il CAE non era stato per il momento ancora toccato e continuava la sua attività, pur fra le polemiche e le insidie.

L’idea di uno Stato ebraico in Crimea si rivelò ancora più dirompente: ancora oggi, nonostante l’apertura degli archivi sovietici, è difficile dire se sia stata un’iniziativa dei leader del Comitato antifascista o se non sia stata suggerita da altri personaggi per motivi strumentali. Fu questa la causa che portò alla dissoluzione del Comitato, ai processi e alla morte di Mihoėl’s, di Fefer e degli altri? O non fu piuttosto un’idea-farsa avanzata dai dirigenti sovietici, già decisi a mettere sotto processo l’intero CAE nel momento in cui non fosse più stato considerato utile?

«La creazione di una Repubblica socialista ebraica» scrivevano Mihoėl’s e compagni «risolverebbe una volta per tutte, in modo bolscevico e nello spirito di una politica leninista-staliniana delle nazionalità, il problema dello statuto giuridico del popolo ebraico.» Una questione mai risolta nei secoli passati avrebbe potuto trovare soluzione nell’ambito di un grande Paese socialista, e l’idea di una Repubblica ebraica in Ucraina poteva essere pianificata sin da quel momento, con l’istituzione di una commissione governativa incaricata di redigere un progetto ancor prima della liberazione di quelle terre dagli eserciti nemici. Il poeta Leib Kvitko si recò in Crimea per studiare il progetto ma, secondo la testimonianza della moglie, ritornò sconfortato sia per le manifestazioni di antisemitismo in cui si era imbattuto sia perché si era reso conto che il progetto perorato dal CAE non possedeva basi sufficientemente solide.

Ciononostante, nel 1952 Fefer avrebbe dichiarato durante il processo al CAE che James Rosenberg, dell’organizzazione americana Joint, sarebbe stato disposto a finanziare il progetto Crimea, lasciando intendere che Molotov non era affatto contrario. Appare in ogni caso sorprendente che questa iniziativa potesse prendere corpo davvero: come si poteva pensare che i sovietici, ferocemente ostili al progetto sionista in Palestina, fossero disposti ad approvare la nascita di uno Stato ebraico in Crimea? Ben conscio dei rischi incombenti, Erenburg aveva subito fatto conoscere il proprio punto di vista negativo, convinto com’era che Stalin non avrebbe affatto gradito l’idea.

Intanto il CAE era sempre più coinvolto, inevitabilmente, nella difesa degli interessi ebraici, e Molotov aveva già fatto capire che non era quello il genere di argomenti di cui dovevano occuparsi, ma piuttosto della propaganda, un compito ben circoscritto che in passato era stato svolto in modo egregio. Il compito di esprimersi sulla Crimea, probabilmente non a caso, fu lasciato a Kaganovič, l’unico membro ebreo del Politburo, il quale fece sapere che soltanto dei poeti e degli artisti avevano potuto immaginare un progetto così fantasioso.

La verità sull’intera vicenda, forse, non si saprà mai. Quanto alle conseguenze, ben presto si manifestarono in tutta la loro crudezza per i leader del CAE e per il mondo ebraico. Nell’aprile 1944 le accuse politiche contro le attività del Comitato si facevano ormai insistenti, e il dossier del dipartimento informazioni del Comintern era sempre più ricco di denunce, soprattutto contro la cosiddetta «presunzione e scarsa passione» da parte dei dirigenti, poco impegnati nella guerra patriottica e inclini invece a denunciare l’antisemitismo crescente, come del resto aveva fatto Erenburg senza mezzi termini alla terza riunione della comunità ebraica a Mosca. Il Comitato Centrale del PCUS e la Lubjanka decisero d’individuare le possibili deviazioni politiche del CAE e diedero questo incarico a giornalisti politicamente affidabili e, guarda caso, ebrei. Furono Emilia Teumin, Jakov Havinson, Lev Ognev (Brontman), con le loro accuse di sionismo, a preparare il terreno alla brutale repressione.

In un documento della Lubjanka del giugno 1946 dal titolo piuttosto eloquente – Sul comportamento nazionalista di certi membri del Comitato antifascista ebraico – si affermava che ormai nel CAE si era smarrito il concetto di «classe», erano stati allacciati sospetti contatti internazionali, e l’idea nazionalista sembrava prendere il sopravvento a dispetto delle competenze assegnate inizialmente all’organismo. Le parole pronunciate da Erenburg durante una riunione riservata parevano fatte apposta per suscitare sospetto e irritazione. «Se si trattava di fare propaganda antifascista all’estero presso gli ebrei in qualsiasi parte del mondo, non sarebbe stato necessario creare un Comitato antifascista come questo: il suo scopo principale è quello di combattere l’antisemitismo nel nostro Paese.» D’altra parte il CAE si sforzava di mantenere e intensificare le relazioni con gli ebrei d’Occidente, e dopo il 1945 intendeva approfondire il rapporto con quelli dell’Europa orientale allo scopo di organizzare un Congresso mondiale ebraico: un’ambizione destinata ad accrescere i sospetti della classe dirigente sovietica.

«Quando l’avanzata dell’armata sovietica» ha scritto Montefiore «rivelò al mondo il colossale genocidio perpetrato da Hitler, ChruŠčëv, il capo ucraino, si rifiutò di riservare un trattamento speciale agli ebrei che, con passo vacillante, tornavano dai campi di sterminio. Si rifiutò persino di rendere loro le case che, nel frattempo, erano state occupate dagli ucraini. Quell’inveterato antisemita si lagnò perché “i figli di Abramo” stavano depredando il suo feudo “come corvi”.» In quell’occasione Mihoėl’s protestò con Molotov, che ne parlò a Berija, e questi esercitò pressioni su ChruŠčëv, sostenendo che gli ebrei avevano subito la repressione dei tedeschi più di chiunque altro, contraddicendo il dettato di Stalin, il quale aveva dichiarato che tutti i cittadini sovietici avevano patito le conseguenze della guerra in ugual misura. Mihoėl’s, dietro suggerimento di Molotov, scrisse un memorandum per Stalin in merito alla Crimea, ma il Vodz, volendo calmare gli entusiasmi per la cosiddetta «California ebraica», delegò Kaganoviča interessarsi della questione, e questi disse che un piano simile non valeva nulla ed era frutto delle idee di poeti e attori.

Fino alla fine della guerra Stalin non manifestò particolare avversione verso gli ebrei; trattava uomini e gruppi con la stessa consueta spietatezza, ma senza essere animato da un livore razzista specifico: la sua crudeltà si scatenava in pari misura contro chiunque gli apparisse come nemico. Il comportamento del CAE e la nascita d’Israele, tuttavia, risvegliarono la latente identità ebraica, accrescendo i suoi sospetti verso un popolo che definiva «mistico, intangibile, ultramondano». I vecchi pregiudizi finirono per diventare una vera e propria ossessione, favorita da una paranoia che i suoi crimini passati avevano reso incontenibile, e credette di vedere negli ebrei un pericolo reale, per motivi sia personali (alcuni si erano inseriti nella sua famiglia) sia politici (gli Stati Uniti, Israele e gli ebrei erano collegati).

Suslov, nel novembre 1946, facendosi interprete dell’atteggiamento del dittatore, mandò una lettera ai quattro segretari del Comitato Centrale del PCUS nella quale, dopo aver ricordato che Lenin guardava con simpatia agli ebrei ed era contro l’antisemitismo, affermava tuttavia che le posizioni del CAE erano sioniste e bundiste, e ben lontane dalle concezioni leniniste e staliniane in tema di nazionalità; inoltre, l’idea di fondare una nazione ebraica omogenea era reazionaria. Era l’inizio di una virulenta campagna che, in nome del nazionalismo russo, attaccava i cosmopoliti senza radici.

All’inizio del 1947, quando la rappresentanza politica ebraica era già ridotta ai minimi termini, cominciò una progressiva e capillare emarginazione, mediante licenziamenti e repressione, che toccò non solo i dirigenti di numerosi complessi industriali e le gerarchie militari, ma anche parecchi cittadini di rango inferiore. Ancora una volta Stalin, appena prima di colpire con crudeltà i rappresentanti del CAE, con cinismo e maestria premiò Mihoėl’s e i suoi collaboratori, che avevano messo in scena uno spettacolo di musica Freilechs al Teatro ebraico di Mosca. Il dittatore sovietico, campione di ambiguità, confondeva le opinioni dei suoi possibili detrattori con mosse contraddittorie: mentre si accingeva a sradicare il nazionalismo borghese in patria, riconosceva subito il nuovo Stato d’Israele, nato dalla votazione dell’Assemblea delle Nazioni Unite il 29 ottobre 1947.

In URSS, intanto, la Lubjanka preparava un tranello, costruendo un complotto sionistico terroristico in cui dovevano confluire Peissah Novik e Ben Zion Goldberg – due giornalisti americani di estrema sinistra, guardati con diffidenza dai servizi segreti di entrambe le parti a causa dei contatti che intrattenevano con «gente sospetta», sia negli Stati Uniti sia in Unione Sovietica, quando arrivavano in visita –, alcuni parenti di Nadežda Allilueva (la seconda moglie di Stalin, morta in circostanze oscure, forse suicida, forse uccisa), qualche membro del CAE e altre figure di minor spicco, come Isaak Goldstein e Zachar Grinberg.

Alla fine del 1947, nella sala del Museo politecnico di Mosca fu celebrato l’anniversario della nascita dello scrittore yiddish Mendele Mocher Sforim. Mihoėl’s tenne un breve discorso che ebbe grande successo di pubblico: gli intervenuti continuarono ad applaudire fragorosamente per alcuni minuti. L’oratore, pur lieto dell’accoglienza, ne fu intimamente preoccupato, soprattutto quando più tardi gli fu detto che i nastri registrati della manifestazione erano andati perduti, mentre lui era convinto che si trattasse di un depistaggio calcolato. Era ben cosciente, inoltre, che la grande maggioranza delle proposte avanzate dal CAE fra il 1944 e il 1948, miranti a sviluppare l’importanza del Comitato, era stata respinta concordemente da Suslov, Ždanov e Molotov. Del resto, finita la guerra, la funzione del CAE aveva perso rilevanza: se manteneva i contatti con l’Occidente era sospetto, se si occupava di ebrei sovietici lo era ancora di più.

Il sostegno sovietico alla creazione dello Stato d’Israele spinse il Comitato in una situazione di totale e paradossale imbarazzo: dover sostenere l’azione di Andrej Gromyko all’ONU e, contemporaneamente, spiegare agli ebrei sovietici che solo l’URSS era la vera patria. L’effervescenza ebraica in quel periodo mostra con lampante evidenza che le direttive ufficiali erano travolte dall’entusiasmo di quanti vedevano nel risorto Stato d’Israele un punto di riferimento ideale.

Tra la fine del dicembre 1947 e il gennaio 1948 il già precario equilibrio giunse a un punto di rottura. Stalin decise di far uccidere Mihoėl’s, ma inscenare un falso incidente a Mosca avrebbe potuto destare sospetti, così fu fatto di tutto per mandarlo a Kiev, dove venne assassinato il 12 gennaio da sicari della polizia segreta. La morte fu attribuita ufficialmente a uno sfortunato incidente d’auto.

Ecco la testimonianza di Svetlana, la figlia ribelle di Stalin, vent’anni dopo: «Durante uno degli incontri allora già rari nella sua dacia, entrai nella stanza mentre parlava al telefono: qualcuno gli stava riferendo qualcosa ed egli ascoltava. Poi, come riassumendo, disse: “Ma sì, è stato un incidente d’auto”. Ricordo distintamente il suo tono. Non si trattava di una domanda, ma di una conferma, di una risposta. Non domandava, ma proponeva: l’incidente automobilistico. Il giorno dopo, però, quando mi recai a una lezione all’università, una studentessa il cui padre aveva lavorato a lungo nel Teatro ebraico mi raccontò piangendo in quale modo efferato fosse stato assassinato il giorno prima in Bielorussia Mihoėl’s, mentre viaggiava in auto. Naturalmente i giornali riferirono l’avvenimento presentandolo come un incidente automobilistico. Mihoėl’s era stato assassinato: non c’era stato nessun incidente… La testa cominciò a pulsarmi. Conoscevo fin troppo bene l’ossessione di mio padre, che vedeva complotti “sionisti” in ogni angolo».

Una folla immensa partecipò al funerale. Presero la parola Aleksandr Fadeev, che elogiò l’amico con parole commoventi e ne esaltò la figura morale, e Itzik Fefer, il quale pronunciò un’allocuzione che in seguito fu manipolata, e sul cui ruolo di possibile complice restarono parecchi dubbi, dato che quel giorno, casualmente, si trovava anch’egli a Kiev. Julia Michajlovna Kaganovič, il cui padre, fratello di Lazar, si era suicidato per evitare l’arresto, fece visita alla vedova, Natalja Vovsi Mihoėl’s, e la trascinò con discrezione in bagno per parlarle: le portava i saluti e le condoglianze di Lazar Kaganovič, suo zio, intimando tuttavia perentoriamente che nessuno facesse domande.

Nessuno conosceva in quel momento i veri motivi che avevano portato all’eliminazione di Mihoėl’s. Non fu, almeno in apparenza, l’attività del grande attore nel CAE a determinare il suo destino, bensì un’informativa di Viktor Abakumov trasmessa a Stalin, dove si raccontava che Mihoėl’s, con la complicità degli Alliluev (la famiglia della moglie del dittatore), aveva intrattenuto rapporti con i servizi segreti americani. Isaak Goldstein, ricercatore dell’Accademia delle Scienze e amico di Evgenija Allilueva, cognata del dittatore, e Zachar Grinberg, responsabile dell’Istituto Gor’kij, amico di Svetlana Stalin e del marito, l’ebreo Grigorij Morozov, avevano confermato sotto tortura che Mihoėl’s era coinvolto in attività antigovernative.

Nel febbraio-marzo 1948, mentre la Lubjanka cominciava una campagna di denigrazione verso gli esponenti del Teatro ebraico, ribattezzato Teatro Mihoėl’s, e del CAE, Stalin distribuiva centonovanta premi, quaranta dei quali andarono a ebrei, fra cui Erenburg, il cognato Grigorij Kozincev, Emmanuil Kazakevič e Michail Romm. Sempre di quel marzo è il rapporto inviato dal sinistro Abakumov a Stalin, Molotov, Ždanov e Michail Kuznecov, nel quale il CAE è descritto come un’associazione a delinquere capace di scatenare attività terroristiche e di sabotaggio e responsabile dell’organizzazione, in occasione del famoso viaggio negli Stati Uniti, di un’efficientissima rete spionistica collegata a Lozovskij. In maggio, sfruttando canali cecoslovacchi, Stalin autorizzò l’invio in Israele di numerose forniture militari e la partenza per Israele di ottomila specialisti ebrei, che avrebbero collaborato attivamente alla sua difesa contro l’imperialismo inglese e la reazione araba.

Dieci giorni dopo a Mosca furono dedicate a Mihoėl’s due giornate di ricordo e celebrazione. Intervennero numerose personalità, fra cui MarkiŠ, Fefer e Kvitko, che avevano un caratteristica in comune: la Lubjanka aveva poderosi rapporti su malefatte, vere o presunte, commesse da loro e denunciate da volonterosi testimoni o estorte sotto tortura. Eppure, in quel momento pareva che godessero dei favori del regime. MarkiŠ recitò una poesia scritta durante la notte, lanciando un messaggio fra le righe: le apparenze non contavano, sapeva che anche la sua sorte era segnata. (Nel giro di poco tempo, tutti coloro che avevano avuto a che fare con il cadavere di Mihoėl’s furono eliminati, compreso Boris Zbarskij, un ebreo che aveva imbalsamato anche il corpo di Lenin.) Il discorso che fece più sensazione fu quello di Erenburg: «Oggi, mentre evochiamo l’opera di un grande attore russo, Solomon Mihoėl’s, obici sparano e bombe esplodono lontano da qui: sono gli ebrei di un giovane Stato che difendono le loro terre, i loro villaggi, contro i mercenari britannici. Una volta di più la giustizia e la cupidigia si affrontano e il sangue degli uomini viene sparso a causa del petrolio. Non ho mai condiviso le idee del movimento sionista, ma in questo caso non si tratta più di idee, bensì di uomini… Durante tutta la sua vita, di cosa ha parlato sempre Mihoėl’s? Dell’amicizia del popolo sovietico per gli ebrei del mondo intero, ebrei autentici, e non rinnegati devoti al vitello d’oro, non fascisti ebrei, ci sono anche questi, a volte, ma di lavoratori ebrei… La risposta di Molotov alla domanda di riconoscimento dello Stato ebraico ha riempito di speranza e di gioia il cuore dei difensori della Palestina… Sono persuaso che nella vecchia città di Gerusalemme, nelle catacombe dove oggi si combatte, l’immagine di Solomon Mihoėl’s, grande cittadino sovietico, grande artista, grande uomo, possa spingere le genti a raggiungere risultati eccellenti».

Negli anni Ottanta lo storico Arkadij Vaksberg, conversando con Vladimir Terebilov, presidente della Corte suprema dell’URSS, si convinse che il complotto era stato preparato con l’idea di svelare in seguito che Mihoėl’s era stato vittima di un attentato e che i servizi segreti avevano individuato in Fefer il colpevole sionista da accusare e eliminare: ecco perché la Lubjanka lo aveva inviato a Kiev quel giorno. I responsabili della trappola furono scoperti soltanto anni dopo: Sergej Ogolcov, viceministro della Sicurezza, e il generale Čubnikov, l’esecutore materiale, riuscirono a sfuggire a qualsiasi giudizio e punizione.

Nel settembre 1948, per la prima volta in veste ufficiale, arrivò a Mosca Golda Meir (Meyerson), ambasciatore d’Israele, e la sua visita alla sinagoga si trasformò – com’era già accaduto nel 1945 e nel 1946, in occasione delle commemorazioni delle vittime del nazismo – in un imponente raduno festante di ventimila persone. Già in giugno vi erano state manifestazioni di entusiasmo per la nascita dello Stato ed erano stati scanditi slogan gioiosi. Tre settimane dopo Erenburg pubblicò sulla «Pravda» un articolo – in risposta a una falsa lettera attribuita a uno studente ebreo di Monaco – che a molti osservatori parve il risultato di un vero diktat, imposto da Stalin allo scrittore per informare, attraverso le sue parole, che la politica del governo sovietico verso Israele era cambiata.

La creazione d’Israele – si domandava lo studente – poteva essere considerata una soluzione definitiva alla questione ebraica? Lo scrittore rispose che la nazione ebraica non esisteva, e che l’unico legame fra gli ebrei del mondo era l’antisemitismo: l’unica soluzione possibile della questione ebraica era l’assimilazione degli ebrei in ciascuno dei Paesi in cui vivevano. Scriveva Erenburg: «Il governo sovietico è stato il primo a riconoscere il nuovo Stato e ha energicamente protestato contro le aggressioni di cui è stato vittima, e quando le armate d’Israele hanno difeso il loro suolo contro le legioni arabe comandate da ufficiali britannici, le simpatie dei sovietici andavano agli oppressi e non agli oppressori… Il regolamento della “questione ebraica” dipende… dalla vittoria del socialismo sul capitalismo… tutti gli ebrei sovietici considerano il Paese dei soviet come loro patria e sono fieri di essere cittadini di un Paese dove non esiste lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. I cittadini della società sovietica vedono nella popolazione dei Paesi borghesi, ivi compreso quello israeliano, dei viaggiatori che non sono ancora usciti da una foresta oscura». E concludeva affermando che l’avvenire dei lavoratori ebrei di tutti i Paesi era legato all’avvento del socialismo, che gli ebrei sovietici lavoravano per costruire la patria socialista, e manifestava la convinzione che i lavoratori dello Stato d’Israele, che non condividevano il misticismo dei sionisti, guardassero ora all’Unione Sovietica. Il messaggio era preciso: i dirigenti israeliani non dovevano in nessun modo incitare gli ebrei a emigrare in Israele e, se lo avessero fatto, dovevano essere ben coscienti che avrebbero provocato la collera del governo sovietico. In ottobre, tuttavia, in occasione del capodanno ebraico (Rosh Ha-Shanah) e della festa del Digiuno (Kippur) si riunirono attorno alla sinagoga di Mosca 10-20.000 persone, secondo fonti differenti, e le manifestazioni di entusiasmo nei confronti dei diplomatici israeliani furono calorosissime. Il Cremlino reagì con diffidenza e grande irritazione, poiché si convinse, forse a ragione, che la propaganda per spingere gli ebrei a lasciare la Russia fosse attiva ed efficace.

Ubbidendo agli ordini del potere, il CAE dichiarò che l’unica patria degli ebrei sovietici era l’URSS, e il giornale yiddish «Ejnjkeit» accusò elementi con tendenze sioniste di speculare sulla visita dell’ambasciatore d’Israele a Mosca; il viceministro degli Esteri Valerian Zorin convocò Golda Meir nel febbraio 1949 per protestare energicamente.

Spesso la lotta per il potere che si sviluppava in Russia fra i clan che formavano l’oligarchia al vertice, prima di esplodere in selvaggi regolamenti di conti, si celava dietro diatribe apparentemente astratte e, in un certo senso, più nobili: si pensi, per esempio, al contrasto fra conservatori e progressisti nei campi della letteratura e dell’arte. Molte polemiche ideologiche-culturali servirono da alibi per scalzare personaggi scomodi e attuare purghe sanguinose e crudeli. Nel 1949 non si ebbero subito processi o condanne spettacolari, bensì cominciò una progressiva emarginazione degli elementi scomodi presenti nei settori cruciali della vita statale (sezioni comunicazione e propaganda, industrie strategiche e sicurezza dello Stato) che iniziava con la perdita del posto di lavoro e si concludeva con l’esclusione sociale.

Questa campagna, definita – pudicamente ma non troppo – antisionista contro il cosmopolitismo senza radici, si sviluppò invece ad alto livello politico, con ben maggiore clamore, nei Paesi satelliti: a Praga con il processo a László Rajk nel 1949 e poi con il famoso processo a Rudolf Slánský nel 1952, e a Budapest con l’arresto di Gábor Péter, capo della polizia politica, e di molti altri esponenti del regime con la caratteristica comune di un nome tipicamente ebraico.

L’attacco al sionismo divenne uno slogan tanto pretestuoso quanto estremamente efficace nella sua rozzezza propagandistica, e gli ebrei cecoslovacchi furono d’improvviso considerati tutti pericolosi sovversivi, pronti a farsi amici del maresciallo Tito per fomentare disordini ispirati alle sue concezioni. Ben presto l’idea, peraltro fantasiosa, di un complotto sionista-titino-imperialista-trockista, sviluppata dall’accusa al processo contro Slánský, si diffuse grazie a una propaganda capillare in tutti i Paesi a democrazia popolare, satelliti politici di Mosca. Il modello sovietico, oltre a esportare rigidità estreme, aveva anche messo in atto una vera e propria militarizzazione dell’economia che, provocando spesso il razionamento dei beni di più largo consumo, aveva degradato profondamente i rapporti sociali. Quasi tutti i regimi giunti al potere dopo la Seconda guerra mondiale dovevano fare i conti con popolazioni rassegnate, ma anche esasperate. La campagna antiebraica in Ungheria e in Cecoslovacchia, così come in Romania (processo contro Anna Pauker), o in Bulgaria (processo contro Traičo Kostov), serviva inoltre a mascherare un regolamento di conti nei gruppi dirigenti dominanti, dove gli ebrei erano ampiamente rappresentati e sovraesposti. Secondo qualche osservatore, questi sommovimenti erano solo il segnale di un disegno più vasto e pericoloso che prevedeva, in tempi brevi, alla luce dell’enorme aumento delle spese militari, un attacco in forze contro il resto dell’Europa occidentale.

Stalin, che seguiva con attenzione le violazioni dello spazio aereo cecoslovacco da parte di aerei statunitensi, si preparava forse, come ebbe a raccontare anche il figlio di Berija, a una Terza guerra mondiale nucleare a breve termine? O aveva deciso l’attacco contro il sionismo per riguadagnare il favore dei Paesi arabi in vista di uno scontro tra i blocchi antagonisti? O gli serviva solo un comodo capro espiatorio? O forse i suoi obiettivi erano molteplici? Le sue intenzioni reali restano oscure; certo è che gli attacchi contro i «cosmopoliti senza radici» avevano lo scopo palese di rafforzare l’intero blocco filosovietico e di compattarlo contro il nemico comune.

Il complotto dei camici bianchi, esploso a Mosca nel gennaio 1953, sarebbe stato l’apice di questo crescendo drammatico, di questa psicosi che solo la morte del dittatore avrebbe interrotto improvvisamente. Si trattò di un episodio fine a se stesso o dell’anello di una strategia più vasta? Di un progetto ben più complesso mirante a una vasta deportazione di masse di ebrei sovietici? Il complotto non deve essere considerato una novità assoluta: c’erano dei precedenti che si iscrivevano nella tradizione russa (l’affare LyŠenko). Forse Stalin capì che era il momento di solleticare i sentimenti nazionalisti del popolo per rafforzare il proprio potere dispotico; in qualche caso perfino fatti strettamente privati finirono per contribuire ad alimentare l’atmosfera mefitica da cui scaturì questa incredibile vicenda. Il segnale del cambiamento del clima politico a Mosca fu, qualche anno prima, l’arresto di numerose donne apparentemente considerate intoccabili. Nessuno poteva più ritenersi al sicuro.

Alla fine del gennaio 1949 fu arrestata Polina Žemčužna (Perle Karpovskaja), bolscevica dal 1921. Amica intima di Nadežda Allilueva, la moglie suicida di Stalin, e moglie di Molotov, adoratrice del dittatore, «intelligente, bella, ma soprattutto bolscevica»: si disse che fosse legata a Golda Meir (con cui aveva scambiato solo poche parole in yiddish), e suo marito fu costretto a divorziare. Berija, inoltre, aveva scoperto che fra i suoi collaboratori vi erano alcuni vandali e sabotatori. Stalin aveva deciso, non si sa in base a quali motivazioni, di far diffondere l’idea dell’esistenza di un vasto complotto contro il governo e la sua persona, e di colpire alcuni leader politici che avevano mogli ebree.

Bronislava Weintraub, detta Bronka, aveva sposato il segretario personale del dittatore, Aleksandr PoskrebyŠev; Dora Hazan era moglie di Andrej Andreev, membro del Politburo; Esther Gorelik era la consorte del generale dell’Armata Rossa Krulev. Fu arrestata e torturata selvaggiamente anche Rebecca Levina, dell’Accademia delle Scienze. Bronka era una bella donna di ventisette anni: sollecitò un appuntamento a Stalin per chiedergli il rilascio del fratello Metalikov, medico del Cremlino, che aveva sposato un’ebrea parente di Trockij. Fu rapita e scomparve. PoskrebyŠev fece di tutto per avere sue notizie e chiese a Berija di liberarla, ma Stalin gli disse: «Ti troveremo una nuova moglie». Quattro anni dopo, mentre i tedeschi si avvicinavano a Mosca, la fece fucilare. PoskrebyŠev alla fine si risposò, e l’uccisione della prima moglie non ebbe riflessi sui suoi rapporti con Berija e con Stalin.

Alla fine del 1949 gli arresti erano ormai numerosi e diffusi, anche se spesso i nomi dei colpevoli venivano tenuti segreti, e si diceva che si nascondessero dietro pseudonimi, il che accresceva un sospetto generalizzato. A Leningrado, per esempio, la lotta di potere che portò nel maggio di quell’anno all’eliminazione di A.A. Kuznecov e Nikolaj Voznesenskij da parte di Ždanov, aiutato da Malenkov, coinvolse i gruppi ebraici, e i medici ebrei in particolare, accusati di godere di una situazione di privilegio e monopolio che i «veri russi» non potevano più sopportare. In settembre la commissione di controllo del partito a Mosca scoprì che i reparti neuropsichiatrici della capitale erano monopolizzati dagli ebrei e che, in generale, i medici ebrei erano di gran lunga sovrarappresentati in tutte le istituzioni mediche, tanto da costituire, secondo il ministro per la Sicurezza dello Stato, una «violazione dei principi bolscevichi riguardo alla selezione del personale».

Nel 1950 l’arresto del famoso medico Jakov Etinger, denunciato da Fefer, permise all’aguzzino Michail Rjumin di creare le premesse per una cospirazione più ampia e di individuare 17 nomi di presunti cospiratori. Etinger, sommerso da accuse incredibili, non sopravvisse alle torture e Rjumin ne approfittò per accusare il suo superiore, Abakumov, di sabotare l’indagine, che fu sospesa a lungo e ripresa solo nell’estate del 1952, quando Evgenija LifŠitz fu accusata di aver curato male alcuni bimbi, figli di importanti dirigenti sovietici, dietro ordine esplicito dei circoli sionisti e americani e di M.S. Vovsi, un medico ebreo di rara fama che aveva però il difetto di essere cugino di Mihoėl’s. Rjumin tornò all’attacco e accusò Vinogradov ed Etinger di aver assassinato Ždanov e Ščerbakov; in ottobre Stalin lo sollecitò a torturare quelli che rifiutavano di confessare spontaneamente. In dicembre A.I. Feldmann, A.M. Grinstein e Temkin avevano già confessato tutto quello che la cricca degli aguzzini voleva sentirsi dire; a quel punto il Politburo intervenne e nel gennaio 1953 scoppiò lo scandalo del nuovo complotto contro la sicurezza nazionale e la vita dei dirigenti sovietici.

Il figlio di Etinger, perseguitato insieme alla madre, avrebbe potuto consultare quello che restava del dossier su suo padre solo alla fine del 1992. Nel 1970 era riuscito a chiedere qualche chiarimento a Bulganin, secondo il quale Stalin gli avrebbe chiesto di preparare ottocento treni speciali per deportare molti ebrei nel Birobidžan. Qualcuno di questi treni, però, non sarebbe arrivato a destinazione perché gruppi organizzati li avrebbero attaccati dando così libero sfogo alla collera popolare. Di questo complotto, peraltro, non si occupavano solo i giornali sovietici, con pagine e pagine di articoli ben informati. Anche numerosi giornali comunisti all’estero, a cominciare da «L’Humanité», erano diventati megafono della tesi del complotto, e la direzione del PCF fu incaricata di raccogliere firme a sostegno dei compagni sovietici «che stanno vivendo un momento così difficile».

Stalin, tuttavia, non parlò mai esplicitamente di ebrei e preferì invece mettere sotto accusa, via via, gruppi antipatriottici, spie terroriste, cosmopoliti senza patria, anche se era ben noto a chi alludeva.

Le campagne sanguinose di epurazione e di repressione non erano una novità e il regime era già ricorso a forme indiscriminate di terrore. Nel luglio 1937 il Politburo aveva ordinato ai segretari locali di arrestare e fucilare «gli elementi maggiormente ostili nei confronti dell’Unione Sovietica», allo scopo di concludere definitivamente la lotta contro i nemici del socialismo. La carneficina veniva giustificata con il pretesto che solo così sarebbero state abolite le classi sociali ai fini della vittoria del socialismo. «Ben presto,» ha scritto Montefiore «mentre la caccia alle streghe si avvicinava al culmine della propria intensità, spronata anche dalle ambizioni e dalle gelosie locali, questa macchina tritacarne acquistò un impeto tale che richiedeva di essere alimentata da un numero sempre maggiore di vittime.»

Il Politburo aveva programmato 72.950 fucilazioni e 259.450 arresti, ma qualche mese dopo decise che si potevano fucilare altre 22.500 persone; 48.000 furono deportate. «Sotto questo aspetto» racconta sempre Montefiore «il Terrore si differenziò profondamente dai crimini di Hitler, che si proponeva la distruzione sistematica di bersagli ben precisi: gli ebrei e gli zingari. Qui, al contrario, le uccisioni dipendevano spesso da motivi aleatori: una critica sollevata anni prima, i rapporti con qualche oppositore, l’invidia per un posto di lavoro, oppure magari una semplice coincidenza portarono alla morte e alla tortura intere famiglie. Ma ciò non aveva importanza: “Meglio troppi che troppo pochi” disse Ežov ai suoi uomini quando le quote iniziali balzarono a 767.339 arresti e 386.798 esecuzioni.»

Si diceva che Stalin, una volta impartiti gli ordini, si disinteressasse di quanto sarebbe accaduto. Erenburg – ha raccontato ancora Montefiore – incontrò per strada Pasternak: «Agitava le braccia come se fosse in mezzo a una tempesta di neve: “Se solo qualcuno dicesse a Stalin che cosa sta accadendo”». E Mejerhol’d una volta disse a Erenburg: «Lo tengono nascosto a Stalin». Ma il loro amico Isaak Babel’, amante della moglie di Ežov, capo della polizia segreta, era venuto a conoscenza della verità: «Naturalmente Ežov ha la sua parte di responsabilità, ma non è lui il capo di tutto». I membri del Politburo, come Molotov e Mikojan, si recavano nel grande ufficio di Ežov alla Lubjanka per interrogare i loro compagni caduti in disgrazia.

Tutti sapevano che la Čeka aveva una collaudata abilità nell’uso della tortura: Leonid Zakovskij, uno degli uomini di Jagoda, aveva persino scritto un manuale su tale pratica. Molotov ripeteva sempre che bisognava agire senza pietà, e Kaganovič pensava che fosse molto difficile non essere crudeli, anche perché spesso gli accusati erano vecchi bolscevichi che non avrebbero mai confessato le loro colpe senza essere sollecitati in modo opportuno.

«Spesso Stalin e i magnati ridevano e scherzavano sulla particolare abilità degli uomini dell’NKVD nel convincere la gente a confessare. Il dittatore, per esempio, raccontò questa barzelletta a un uomo che era stato torturato: “Hanno arrestato un ragazzo e lo accusano di aver scritto l’Evgenij Onegin. In principio, lui cerca di negare… pochi giorni dopo l’uomo dell’NKVD che lo interroga piomba a casa dei genitori del ragazzo: ‘Congratulazioni’ grida. ‘Vostro figlio ha scritto l’Evgenij Onegin’”. Molti prigionieri furono picchiati talmente forte che i loro occhi schizzarono letteralmente fuori delle orbite. Era prassi comune andare avanti a colpirli fino alla morte, che veniva messa agli atti come attacco cardiaco.»

Ežov aveva allestito alla Lubjanka alcune stanze con il pavimento inclinato per poter lavare agevolmente il sangue delle vittime dopo gli interrogatori e le torture mortali. Poi i cadaveri venivano trasferiti in un crematorio e le ceneri disperse in una fossa comune. Ha scritto Montefiore: «Le regioni iniziarono ben presto a uccidere troppe persone e troppo in fretta: ChruŠčëv, il capo di Mosca, ordinò per esempio la fucilazione di 55.741 funzionari, andando così ben oltre la quota di cinquantamila inizialmente richiesta dal Politburo. Il 10 giugno 1937 ChruŠčëv scrisse a Stalin chiedendogli il permesso di fucilare duemila ex kulaki, in modo da raggiungere la quota stabilita. Gli archivi dell’NKVD ci mostrano come avesse firmato molti mandati di cattura. Nella primavera del 1938 pianificò l’arresto di 35 dei 38 segretari provinciali e cittadini, il che ci da l’idea di quale fosse l’intensità di questa caccia alle streghe. Avendo il proprio ufficio a Mosca, consegnava direttamente le proprie liste della morte a Stalin e Molotov».

Nikolaj Ežov, prima di essere eliminato, denunciò i letterati amanti della moglie: fra questi Šolochov, che godeva della simpatia di Stalin e fu perdonato, mentre Babel’, che evidentemente gli era meno simpatico, fu assassinato. Il 16 gennaio 1940 Stalin firmò 346 condanne a morte accomunando persone differenti che fino a quel momento, per qualche incomprensibile motivo, pur essendo già state compromesse da alcune testimonianze, non erano ancora state colpite dalla repressione: tra queste, il direttore teatrale Vsevolod Mejerhol’d e il giornalista Michail Kol’cov. Tutti vennero torturati sadicamente. Scrisse Mejerchol’d a Molotov: «Sono un povero vecchio malato di sessantacinque anni. Gli investigatori hanno cominciato a usare la forza su di me. Mi hanno fatto stendere a pancia in giù e hanno iniziato a colpirmi sulle piante dei piedi e sulla schiena con una sferza di gomma… Mi hanno fatto sedere su una sedia e mi hanno colpito i piedi dall’alto… nei giorni successivi, quando quelle parti… erano segnate da ampie emorragie interne, hanno ripreso a colpirmi sui lividi rossi, blu e gialli. Il dolore era così intenso che mi sembrava ci versassero dell’acqua bollente… Urlavo e piangevo dal dolore. Mi hanno picchiato sulla schiena… mi hanno preso a pugni in faccia tirando i colpi dall’alto… per via dell’insopportabile dolore fisico i miei occhi continuavano a lacrimare senza sosta».

Nei giorni successivi tutti furono assassinati. Spesso le vittime erano scelte con criteri del tutto casuali, e la repressione non rispondeva neanche lontanamente a eventuali logiche di ipotetica lotta politica. Forse l’unico scopo era instaurare un terrore diffuso e indiscriminato. Difficile dire, a questo punto, se il sanguinario Stalin fosse antisemita a causa della sua paranoia, nutrita da un odio ingiustificato ma intenso, o forse solo per consolidare il suo potere assoluto. Quando decise di colpire chi lo ostacolava, o gli dava l’impressione di farlo, si comportò in maniera spietata contro chiunque e colpì indifferentemente milioni di persone, intere popolazioni, o anche singoli individui che avevano collaborato con lui per anni o che erano stati legati intimamente alla sua famiglia. Per esempio, fece arrestare e fucilare persino qualche medico che aveva tentato di curarlo. Quando poi sua figlia Svetlana frequentava due ebrei, Aleksej Kapler e Grigorij Morozov, che in seguito avrebbe sposato, Stalin colpì le famiglie di entrambi e ordinò l’arresto dell’ignaro padre del secondo. Forse li avrebbe colpiti anche se non fossero stati ebrei. Malenkov comunque, messo sull’avviso, si adoperò perché sua figlia, al fine di evitare rischi, si separasse dal marito Vladimir Shamberg, mentre il dittatore fece fucilare il cognato Aleksej Svanidze con la moglie Marija, ebrea.

Nei primi mesi del 1949 l’epurazione dilagò in Ucraina, Bielorussia, Moldavia, Lettonia e Lituania. Deportazioni, sparizioni improvvise, fucilazioni segrete si moltiplicarono. In particolare, tra gli ebrei furono in pochi a salvarsi: gli addetti all’industria atomica e degli armamenti e qualche alto burocrate come Boris Vannikov, Efim Slavskij, Semën Ginsburg, Pavel Judin, David Raiser, Venjamin DymŠitz, Iosif Levine. Non mancavano zelanti collaboratori, intellettuali ebrei in preda alla paura, che chiesero a gran voce, sperando in tal modo di salvarsi, di colpire i sionisti manifesti o occulti. Il cineasta Mark Donskoij attaccò il regista Sergej Jutkevič e altri amici ebrei accusandoli di essere al soldo dei sionisti; il pittore Aleksandr Gerasimov criticò Erenburg che difendeva il sionista Marc Chagall. Nelle aule universitarie gruppi di studenti, opportunamente manovrati, processarono in pubblico eminenti personalità come Georgij Gurvič, Aron Trainin, Ekaterina FleiŠitz, Michail Strogovič, Moisej Schiffman.

Nel 1950 tutte le istruttorie allestite per distruggere il CAE e giustiziarne i leader erano pronte. Alcuni comprimari di scarso peso, una quindicina di persone, furono fucilati subito, e Lozovskij e Šimeliovič, insieme ad altri 110, restarono a disposizione per il processo successivo. Almeno cinque morirono sotto tortura, altri dieci, considerati i capi, furono fucilati e altri ancora condannati a lunghe pene detentive da scontare nei campi di deportazione in Siberia.

Stalin, negli ultimi tempi, era stato distratto da altre faccende che considerava più gravi: l’affare di Leningrado, iniziato nel luglio 1949 (e che doveva portare all’eliminazione di pericolosi concorrenti come Nikolaj Voznesenskij, membro del Politburo, Aleksej Kuznecov e Pëtr Popkov), nel 1950 era giunto a maturazione proprio quando Malenkov aveva preso il posto di Ždanov. In novembre Abakumov, allora capo della Lubjanka, interrogò il professor Jakov Etinger dell’Istituto di medicina di Mosca, che però era al di fuori di qualsiasi gioco politico o di appartenenza al CAE e morì sotto tortura. Arrestato a sua volta nel giugno 1951, Abakumov fu sostituito da Rjumin, il quale, dotato di una fantasia perversa, decise d’inventarsi quello che poi fu chiamato il «complotto sionista della Lubjanka» e fece arrestare un gruppo di ebrei che ivi lavoravano e che avevano contribuito da parte loro allo smascheramento del «complotto del CAE»: Leonid Rajhman, Naum Ejtingon, Norman Borodin (Gruzenberg), Lev Schwarzman, Michail Makliarskij, Solomon MilŠtein, Aron Belkin, Efim Libenson, Andrej Sverdlov.

Tutti gli accusati della prima e della seconda ora furono processati insieme, ma a porte chiuse e con grande discrezione, anche perché molte prove raccolte erano del tutto inconsistenti. Sulla preparazione e lo sviluppo del dibattimento Arkadij Vaksberg ha ritrovato nel 1989 un rapporto che spiega bene i retroscena e la cronologia degli avvenimenti. Quindici persone finirono, nel gennaio 1949, davanti ai soli giudici (la presenza del procuratore e degli avvocati, infatti, non fu ritenuta necessaria): Solomon Lozovskij, Itzik Fefer, Perec MarkiŠ, David Bergelson, David Hofstein, Lena Štern, Boris Šimeliovič, Benjamin Zuskin, Iosef Spinak, Lev Talmi, Il’ja Wattenberg, Čajka Wattenberg-Ostrovskaja, Emilia Teumin, Iosif Iuzefovič Solomon Bregman. Der Nister – ovvero Il Nascosto, pseudonimo di Kaganovič – e Isaac Nusinov, pure accusati, sarebbero morti in detenzione nel 1950 prima del processo-farsa. MarkiŠ, Hofstein, Kvitko, Bergelson e Der Nister erano, con altri, i principali esponenti di quella letteratura yiddish nell’Unione Sovietica che fu brutalmente annientata.

Lozovskij era accusato esplicitamente di aver cercato di ottenere capitali americani per fondare in Crimea uno Stato ebraico e di aver cercato l’appoggio di membri del governo sovietico per questo tentativo controrivoluzionario. Di fronte ai carnefici, sottoposto a tortura, il grigio burocrate finì per firmare una serie di false confessioni; nel 1952, però, durante il processo chiese scusa a coloro che aveva calunniato, costretto in stato di necessità, e di fronte ai giudici stupefatti mostrò una forza e una dirittura morale insospettata: «Ho calunniato due donne, Lena Solomovna Štern e Polina Semjova Molotova». La Molotova, cioè la Žemčužina, fu in ogni caso spedita in prigionia nel Kazakhstan e ricondotta a Mosca nel 1953 per essere coinvolta nel complotto del camici bianchi. Lozovskij fu così convincente che il giudice Aleksandr Čepkov sospese l’interrogatorio e manifestò a Ignat’ev e a Rjumin il proprio disagio per la totale infondatezza delle accuse. Malenkov però ordinò la prosecuzione del dibattimento, e alla fine Čepkov condannò tutti a morte, a eccezione di Lena Štern.

In luglio il processo al CAE non si era ancora concluso, anche perché Stalin non aveva ancora deciso la strategia repressiva da adottare, non tanto con riferimento alle pene, quanto piuttosto alle conseguenze politiche che desiderava ottenere. Nel 1951 le sorti del dibattimento si intrecciarono con altri avvenimenti. Rjumin accusò Abakumov, principale istruttore della farsa, di complotto contro i dirigenti del Politburo, di essersi arricchito grazie a contatti con organizzazioni trockiste e, ridicolmente, di sionismo, e lo fece arrestare, mettendo in luce l’organizzazione superficiale del processo contro il CAE e il fatto che l’attività dei nemici dello Stato sovietico era stata in parte occultata deliberatamente per favorire imputati come Lozovskij, Štern e Šimeliovic.

Alla fine di agosto il nuovo ministro della Sicurezza dello Stato Semën Ignat’ev informò Malenkov e Berija che, fino a quel momento, le attività nazionaliste e spionistiche del gruppo legato al CAE non erano ancora state svelate, e l’inchiesta prese vigore solo quando Stalin in persona ordinò l’arresto di alcuni colonnelli, fra cui Naum «Leonid» Ejtingon, che aveva partecipato all’assassinio di Trockij: a quel punto tutti gli arrestati, a partire da Lozovskij, furono sottoposti di nuovo a tortura nella speranza che confessassero alla svelta le loro poco plausibili colpe. Verso la fine di dicembre Stalin decise di scatenare una nuova ondata di terrore. Ignat’ev e Rjumin avevano arrestato molti nuovi sospetti e cercavano di mettere in difficoltà, con le loro trame, Molotov e Berija. Stalin temeva il potere di quest’ultimo e desiderava ridimensionarlo, mentre Ignat’ev gli faceva discretamente sapere che forse il capo della polizia segreta teneva segrete anche le sue (del tutto improbabili) origini ebraiche.

Tra il 1946 e il 1953 le lotte sanguinose fra i clan che dominavano l’oligarchia sovietica si svilupparono in varie fasi e le vicende in cui gli ebrei si ritrovarono a essere, loro malgrado, protagonisti riflettono le contorsioni di un sistema totalitario e inefficiente incapace di liberarsi della violenza e della vendetta. In questo ambito l’idea del complotto si rivelava un’arma vincente capace di giocare un ruolo sociale e politico decisivo, coniugando vecchi arcaismi e ideologie totalizzanti.

Nel febbraio 1952 Stalin convocò Ignat’ev e gli disse che, se non fosse riuscito a ottenere rapide confessioni dagli imputati in carcere, sarebbe finito in compagnia di Abakumov. Il dittatore era in precarie condizioni di salute. «Muoiono tutti! Ščerbakov, Ždanov… tutti rapidamente. Bisogna cambiare i vecchi medici, trovarne di nuovi…» Era in preda all’ossessione della morte? Quest’uomo, che era stato un grande carnefice, ora aveva paura? Ben presto i medici sarebbero stati al centro della nuova tormenta.

Nel marzo 1952 gli organi della Sicurezza dello Stato avevano deciso di incriminare altre 213 persone, fra cui Vasilij Grossman, Samuil MarŠak, Boris Sluckij, Il’ja Erenburg, Matveij Blanter, Boris Zbarskij, Isaak Zubok, Isaac Zvavič e, probabilmente, Boris Pasternak, ma poi non se ne fece nulla. In agosto il processo, che non fu mai pubblico, arrivò alla sua conclusione. Šimeliovič, torturato, protestò fino all’ultimo. Tutti, a parte la Štern, sarebbero stati condannati alla pena di morte e fucilati. L’eliminazione del CAE, frutto di tattiche crudeli e caotiche e, forse, d’improvvisazione, mise in evidenza l’inadeguatezza del potere politico sovietico, ma anche la sua fredda e sistematica determinazione repressiva.

Il Birobidžan, la regione autonoma ebraica, subì gli effetti della liquidazione del CAE: tutti i suoi dirigenti furono investiti dall’accusa di collusione con gli Stati Uniti e di voler fomentare un nazionalismo borghese, e parecchi non riuscirono a sottrarsi alle condanne a morte pronunciate con generosità (per alcuni poi trasformate in pene detentive di venticinque anni). Nel frattempo la campagna contro i sionisti si era estesa, come si è detto, agli Stati satelliti. In Ungheria, al processo Rajk, tre accusati su sette erano ebrei, dettaglio messo apertamente in rapporto con la controrivoluzione sionista. In Romania, con le stesse accuse, finì agli arresti Anna Pauker (Rabinovič). In Polonia Jakub Berman, Hilary Minc e Edward Ochab furono espulsi dagli organi dirigenti. In Cecoslovacchia finirono alla sbarra Rudolf Slánský (Salzmann), Evžen Löbl, Arthur London, André Simone, Bedřich Geminder e Rudolf Margolius.

Stava per arrivare il momento culminante di questa scenografica tragedia (svoltasi negli anni neri fra il 1948 e il 1953): il 13 gennaio 1953, esattamente a cinque anni dall’assassinio di Mihoėl’s, la «Pravda» annunciò che era stato arrestato un gruppo, ancora incompleto, di medici assassini, accusati di avere già ucciso Ždanov e di aver pensato all’assassinio di Stalin. V.N. Vinogradov, M.B. Kogan, P.I. Egorov, M.S. Vovsi, A.I. Feldmann, I.G. Ettinger, A.M. Grinstein, G.I. Majrov: quasi tutti erano ebrei, alcuni dei quali morti in carcere a causa del trattamento ricevuto. Naturalmente avevano avuto complici illustri e legami con i servizi segreti britannici e con l’organizzazione americana Joint; i marescialli Jukov e Konev, per esempio, avevano pensato di servirsi di loro per rovesciare il regime. «Ignobili spie e assassini sotto la maschera di professori di medicina» scrisse la «Pravda».

Eppure, neanche questa volta Stalin volle esporsi apertamente all’accusa di antisemitismo; così, conferì a Erenburg il premio Stalin internazionale, e il 24 gennaio 1953, mentre esplodeva con inusitata virulenza l’affare dei medici, la «Pravda» permise allo stesso Erenburg di scrivere un articolo che conteneva una violenta requisitoria antiamericana. Furono arrestate 37 persone, di cui 28 medici, mentre quasi contemporaneamente le mogli di Kvitko, Zuskin, Bergelson, MarkiŠ, Iuzefovič, eliminati in seguito all’affare CAE, venivano condannate a dieci anni di esilio. Anche Ivan Majskij, ex ambasciatore a Londra e già viceministro degli Esteri, fu arrestato e accusato di spionaggio: non venne liberato neanche dopo la morte di Stalin, perché la nuova dirigenza russa lo accusò di complicità con Berija e lo tenne in prigione fino al 1955. In febbraio fu imprigionata anche Maria Evzorovna Weizmann, dottoressa di fama accusata di sionismo e sospetta per aver avuto relazioni con Radek e Trockij, ma anche con suo cugino, Chaïm Weizmann, primo presidente d’Israele. Benché la maggioranza degli arrestati non fossero ebrei, non sfuggì all’opinione pubblica russa, né a quella internazionale, che si trattava di un attacco all’intera minoranza ebraica in Unione Sovietica.

«A Mosca» scrisse la vedova di Perec MarkiŠ «regnava un’atmosfera di pogrom. Era pericoloso per gli ebrei uscire per strada.» Eppure, il 30 gennaio 1953 Erenburg ottenne il premio Stalin. Quella sera disse poche parole.

«Quale che sia la sua origine etnica, un cittadino sovietico è, prima di tutto, un patriota del suo Paese e un autentico internazionalista, un avversario delle discriminazioni razziali e nazionali, un fervente fautore della fratellanza umana, un difensore intrepido della pace. In questa occasione solenne e festosa, nella Sala bianca del Cremlino, voglio rendere omaggio a quei combattenti per la pace che vengono perseguitati, torturati e banditi; voglio ricordare la notte buia delle prigioni, degli interrogatori, dei processi, e il coraggio di tanti.»

Alla vedova Mandel’štam raccontò che aveva la valigia pronta e che si aspettava di essere prelevato a casa da un momento all’altro.

In un’intervista rilasciata al «Corriere della Sera» il 29 settembre 2004, Boris Efimov (Friedland), celebre caricaturista, giunto a ben centoquattro anni di età, ha raccontato, fra l’altro, che in quanto ebreo e amico di Trockij temeva di fare una brutta fine: «Non mi hanno mai arrestato, anche se dal 1938 al 1941 avevo la valigia pronta per la prigione». In quegli anni molti tenevano la valigia pronta vicino all’ingresso e ascoltavano con il cuore in gola i passi sulle scale. Una cadenza differente poteva essere il segnale dell’arresto, magari notturno. L’ostilità era diventata palpabile: i bambini ebrei venivano minacciati nelle scuole e il vecchio antisemitismo volgare riprendeva fiato, isolando le famiglie ebree. Era in corso la preparazione di una serie di pogrom, secondo la migliore tradizione russa? Stalin aveva pensato che, per «proteggere gli ebrei», occorreva trasferirli tutti, ovvero deportarli in territori lontani destinati a essere ripopolati?

Nel 1953 il numero dei detenuti nei gulag è stato valutato in 2.750.000 e Berija aveva già mostrato la sua abilità in più occasioni nello spostamento coatto di grandi masse di persone. Deportare gli ebrei significava continuare una politica già messa in atto con altre sfortunate popolazioni; in fondo, non si sarebbe trattato di una novità.

Alla fine di gennaio Isaak Mintz, dell’Accademia delle Scienze, David Zaslavskij e il giornalista Havinson-Marinin, zelanti collaboratori del regime, indirizzarono alle personalità più importanti della comunità ebraica una petizione nella quale si sollecitava il governo, per motivi di sicurezza, a trasferire gli ebrei nelle terre d’Oriente. Nella lettera si metteva in discussione l’idea dell’unità del popolo ebraico e si attaccava anche Israele, considerato regno dello sfruttamento capitalista: i dirigenti sionisti non rappresentavano il popolo ebraico, ma erano invece espressione dei milionari ebrei legati al capitalismo statunitense. I firmatari, dopo aver dichiarato la propria lealtà al popolo russo, affermavano che i nemici della libertà delle nazioni e dell’amicizia dei popoli tentavano di corrompere gli ebrei russi sforzandosi di trasformarli in spie e nemici del popolo russo, creando così le condizioni per una rinascita dell’antisemitismo nelle forme più retrograde del passato. Il popolo russo, tuttavia, era a conoscenza che la grande maggioranza della popolazione ebraica era sua amica, e nessuno sarebbe riuscito a insinuare un cuneo fra i due popoli. Nemici di entrambi erano gli oppressori imperialisti, al cui servizio erano i dirigenti israeliani, spioni come Vovsi, Kogan e Feldmann, e tutti coloro che erano già stati messi in carcere.

David Dragunskij, eroe dell’Unione Sovietica, firmò con precipitazione, Venjamin Kaverin (Zil’berg) rifiutò dicendo che il testo di quella lettera era contrario alla sua coscienza, e che non intendeva vivere nel disonore: come avrebbe potuto approvare arresti massicci e deportazioni di innocenti? Il generale Jakov Kreizer, il cantante Marc Reiser, che Stalin teneva in considerazione, l’economista Evgenij Varga, forse anche Michail Botvinnik, il grande campione di scacchi, il compositore Isaak Dunaevskij, l’economista Iosif Tračenberg, lo storico Arkadij Jerusalimskij non firmarono. Molti altri però cedettero: l’ex ministro Boris Vannikov, il generale Salomon Kremer, l’illustre fisico Lev Davidovič Landau, Pëtr Kapica e molti accademici, fra cui Aleksandr Frumkin, Semën Wolfkovič, Grigorij Landsberg, gli scrittori Samuil MarŠak, Margarita Aliger, i violinisti David Ojstrach, Emil Gilels. Vasilij Grossman firmò sperando che il sacrificio di qualche decina di medici ormai condannati potesse salvare un intero popolo, ma lo fece con l’animo spezzato e con estrema esitazione. La paura, la disperazione, il rimorso si impossessarono di molti.

Naturalmente anche Erenburg fu coinvolto, ma seppe reagire con fredda determinazione, rendendosi conto che, con la sua firma o senza, nulla sarebbe cambiato, e allora si decise a scrivere a Stalin, consapevole di giocare una partita mortale, ma anche risoluto a tentare una carta, sia pure disperata. Scrisse nelle sue memorie: «Ho tentato d’impedire la pubblicazione sulla stampa di una lettera collettiva: per fortuna questa impresa demenziale non fu messa in atto. Gli avvenimenti avrebbero dovuto seguire il loro corso. Non è ancora venuto il momento di parlare, avevo pensato allora che se fossi riuscito a scrivere quella lettera a Stalin, forse sarei riuscito a fargli cambiare opinione. Penso oggi… che Stalin non ebbe il tempo di portare a termine il suo progetto».

Erenburg non scrisse la lettera subito, ma volle riflettere attentamente su ogni parola, poi, il 3 febbraio 1953, la consegnò a Dmitrij Šepilov, il quale l’avrebbe data a Malenkov che finalmente l’avrebbe fatta pervenire a Stalin una settimana dopo. La copia autentica con la sua firma è stata ritrovata a decenni di distanza.

«Caro Iosif Visarionovič,

Mi decido a disturbarvi per la sola ragione che la questione mi sembra di estrema importanza, e non posso risolverla da solo. I compagni Mintz e Marinin mi hanno trasmesso oggi il testo di una lettera alla redazione della “Pravda” che mi hanno proposto di firmare. Considero mio dovere farvi presente i miei dubbi e chiedervi consiglio. Mi sembra che l’unica soluzione radicale della questione ebraica nel nostro Stato socialista sia l’assimilazione completa, la fusione delle genti di origine ebraica con i popoli tra i quali vivono. Temo che l’esposizione pubblica di tutta una serie di rappresentanti della cultura sovietica, la cui origine costituisce il solo punto di unione, rischi di rafforzare le tendenze nazionaliste. Nel testo della lettera-petizione figura l’espressione “popolo ebraico”, che rischia di incoraggiare i nazionalisti e tutti coloro che non hanno ancora capito che la nazione ebraica non esiste. Sono particolarmente preoccupato per l’influenza di tale lettera sull’allargamento e il rafforzamento del movimento mondiale per la pace. Allorché, nelle diverse commissioni e durante le conferenze stampa, mi è stato chiesto perché in Unione Sovietica non esistono più scuole o giornali in lingua yiddish, ho sistematicamente risposto che dopo la guerra le vecchie zone di residenza sono totalmente scomparse e le nuove generazioni di cittadini sovietici di origine ebraica non vogliono isolarsi dai popoli tra i quali vivono. La pubblicazione di una lettera, firmata da intellettuali, scrittori, compositori, che allude a una certa comunità degli ebrei sovietici, non può che rinfocolare la ripugnante campagna antisovietica che conducono oggi i sionisti, i bundisti e altri nemici della nostra patria. Per i progressisti francesi, italiani, inglesi e di altri paesi non esiste il concetto di “ebreo” per indicare una nazionalità: da loro ciò non rinvia che a un’appartenenza religiosa e i calunniatori potrebbero utilizzare la lettera per le loro sporche finalità. Sono persuaso che sia indispensabile combattere con energia tutti i tentativi di risuscitare o di impiantare di nuovo il nazionalismo ebraico, che nelle circostanze attuali condurrebbe fatalmente a tradire la patria. A tal scopo, mi sembra indispensabile da un lato pubblicare articoli esplicativi (di cui una certa parte scritti da autori d’origine ebraica) e dall’altro pubblicare un chiarimento della “Pravda” stessa da ben formularsi all’interno del testo della lettera: ovvero che la stragrande maggioranza dei lavoratori d’origine ebraica sono profondamente devoti alla patria sovietica e alla cultura russa. Credo che tali articoli infastidirebbero parecchio i calunniatori stranieri e darebbero buoni argomenti ai nostri amici che lottano per la pace. Comprendete, caro Iosif Visarionovič, che non posso risolvere da solo tali questioni ed è perciò che ho avuto l’audacia di scrivervi. Si tratta di una decisione importante e mi azzardo a chiedervi di dare a qualcuno l’incarico di trasmettermi la vostra opinione circa l’opportunità che la mia firma figuri su un tale documento. Se i compagni della direzione mi fanno sapere che la pubblicazione del documento e la mia firma possono essere utili alla difesa della patria e al movimento per la pace, in quel caso firmerò la lettera…»

Estremamente ossequioso nella forma, Erenburg sottolineò due aspetti: «Nel testo della lettera-petizione figura l’espressione “popolo ebraico”, che rischia di incoraggiare i nazionalisti e tutti coloro che non hanno ancora capito che la nazione ebraica non esiste»; e ancora: «Sono persuaso che sia indispensabile combattere con energia tutti i tentativi di risuscitare o di impiantare di nuovo il nazionalismo ebraico, che nelle circostanze attuali condurrebbe fatalmente a tradire la patria». Con questo piccolo capolavoro di audacia e intelligenza politica, Erenburg tentava, sacrificando quelli che ormai erano condannati, di salvare la grandissima maggioranza degli ebrei russi, e per farlo impartiva al dittatore una lezioncina di teoria politica, dissimulata naturalmente da un linguaggio oltremodo rispettoso. Bisognava dire a Stalin tutto quello che voleva sentirsi dire, e poi convincerlo che la strada migliore andava dalla parte opposta: Erenburg sapeva che si trattava di un rischio mortale, ma era anche convinto che fosse necessario correrlo.

Anche il solenne funerale del fido alleato di Stalin, Lev Mechlis, da anni uno degli ebrei a lui più vicini, il 13 febbraio 1953 sulla Piazza Rossa, servì a seminare incertezza sul comportamento del dittatore: Mechlis, considerato dallo stesso Stalin un fanatico e definito un «demone tenebroso», nel 1930 era stato direttore della «Pravda», e molti ricordavano i suoi modi brutali. Una volta che Stalin si era messo a sbraitare contro gli ebrei di Trockij, Mechlis aveva reagito dicendo: «Io sono un comunista e non un ebreo». E poi aveva aggiunto: «Devi comprendere che c’è un solo modo per combattere l’antisemitismo: essere coraggiosi; se sei un ebreo, essere il più onesto possibile, puro come un cristallo, una persona modello soprattutto per quanto riguarda l’onorabilità». Con VoroŠilov, in quello stesso anno, aveva collaborato a una vera e propria decimazione degli ufficiali dell’Armata Rossa: furono fucilati tutti quelli che non erano in grado di convincere i sovietici della loro indiscussa lealtà.

Nikolaj Bulganin, molto vicino al dittatore, ha lasciato una testimonianza: dopo l’inevitabile condanna, si sarebbero dovuti impiccare i condannati davanti alla folla, nella Piazza Rossa e in altre piazze delle principali città del Paese, a Leningrado, Minsk, Kiev, Sverdlovsk. Questo sarebbe stato il segnale di una deportazione di massa degli ebrei verso le sterminate steppe orientali, e l’inizio di pogrom in molti luoghi. Altri dirigenti di spicco – Panteleimon K. Ponomarenko, Nikita ChruŠčëv, Anastas Mikojan e lo stesso Molotov, con diverse sfumature – hanno confermato questo disegno persecutorio di Stalin: la deportazione era propedeutica all’annientamento, che sarebbe sopraggiunto per sfinimento e per fame. Malattie e freddo avrebbero completato l’opera nelle prigioni e nei campi di deportazione, ritenuti in un primo momento insufficienti. Entro tre giorni Mosca doveva essere ripulita dagli ebrei e, se qualche trasferimento avesse presentato difficoltà, la questione doveva essere regolata sul posto.

Nel 1956 il «Times» riferì la versione degli avvenimenti di ChruŠčëv: Stalin avrebbe detto in una riunione del Politburo che tutti gli ebrei dovevano essere trasferiti in una regione del Nord per fissarvi una nuova zona di residenza. Mikojan e Molotov l’avrebbero messo in guardia dalle reazioni internazionali, mentre VoroŠilov, infuriato, avrebbe rovesciato sul tavolo un pacco di documenti: amava Stalin, ma ancora di più sua moglie, che era ebrea. Davvero in quegli anni qualcuno aveva il coraggio di sfidare Stalin? Nel giugno 1957 un corrispondente di «France Soir» rivelò che Ponomarenko avrebbe riferito che non era stato VoroŠilov, ma Kaganovič a esprimere la propria collera in maniera plateale. «Arrogante e virile, alto e forte, con capelli neri e affascinanti occhi castani, Kaganovič era considerato uno stalinista di ferro, e il dittatore aveva manifestato per lui delicatezze impensabili: per esempio, gli piacevano le barzellette raccontate da Pauker e da Kobulov sugli ebrei e rideva se Berija chiamava Kaganovič “l’israelita”.» Durante una delle cene a Kuntzevo, Berija cercò di costringere Kaganoviča bere di più, ma Stalin lo fermò: «Lascialo stare… Lo sai che gli ebrei non sono dei bevitori». In un’altra occasione chiese a Kaganovič come mai assumesse un’aria triste quando si raccontavano storielle sugli ebrei: «Guarda Mikojan, quando scherziamo sugli armeni, ride anche lui». «Vedi, compagno Stalin,» rispose Kaganovič «la sofferenza ha talmente plasmato il nostro carattere di ebrei, che siamo come i fiori di mimosa.» Le mimose, piante ultrasensibili, erano amate particolarmente da Stalin, il quale allora decise che in presenza di Kaganovič non si dovesse più scherzare sugli ebrei. Anche i dittatori più spietati possono avere un cuore?

«Abbiamo raccolto alcune testimonianze» disse Stalin a Kaganovič un giorno – a raccontarlo è Montefiore – «e tuo fratello è implicato nella cospirazione.» Sospettato di aver fatto costruire le fabbriche di aeroplani al confine russo per aiutare Berlino, Michail, fratello di Lazar Kaganovič, fu accusato di sabotaggio e di essere stato scelto da Hitler quale capo del governo fantoccio preparato dai nazisti per la Russia. Era un’idea talmente assurda che poteva trattarsi soltanto di un’idiozia partorita dalla mente di qualche sempliciotto dell’NKVD o di uno scherzo fra Stalin e Berija. «È una menzogna» rispose Kaganovič. «Conosco bene mio fratello. È un bolscevico fin dal 1905, fedele al Comitato Centrale.» «Come può essere una menzogna? Abbiamo le testimonianze» ribatté Stalin. «È una menzogna. Chiedo che si tenga un confronto.» Kaganovič negò sempre di aver tradito il fratello: «Se fosse stato un nemico, mi sarei schierato contro di lui, ma ero sicuro della sua onestà: lo protessi». Michail non fu arrestato: lo spinsero a suicidarsi prima dell’arresto, permettendogli così di non compromettere la famiglia.

Quando si diffusero le voci di una deportazione di massa degli ebrei per proteggerli dall’ira del popolo, Kaganovič manifestò tutta la sua preoccupazione; del resto, non poteva sfuggirgli che in previsione di un simile evento occorreva che l’opinione pubblica fosse ben addomesticata e favorevole, e la macchina propagandistica era già al lavoro per creare il massimo consenso. Appare verosimile che non sarebbero stati coinvolti solo gli ebrei, ma anche tutti coloro che, a torto o a ragione, risultassero inaffidabili agli occhi del regime. Quando Stalin gli mostrò la lettera predisposta per essere firmata da tutti gli ebrei di spicco dell’URSS, nella quale si sollecitava la deportazione degli ebrei per proteggerli dalle ire del popolo russo, Kaganovič gli espresse tutto il proprio dolore, ma rifiutò di firmare. «Perché non vuoi firmare?» gli chiese Stalin. «Sono un membro del Politburo e non una personalità ebraica» si giustificò Kaganovič. «Potrei scrivere un articolo.» Stalin strinse le spalle e disse: «D’accordo».

L’intera faccenda, nonostante l’apertura di molti archivi sovietici, è ancora lontana dall’essere chiarita del tutto. Per fortuna il 4 marzo 1953 Stalin era ormai agonizzante. Sarebbe morto ufficialmente il giorno dopo. Alla Lubjanka un carceriere – lo racconta Vaksberg – chiese al professor Jakov Rapoport, uno dei valenti medici sbattuti in cella: «Hanno trovato a mio zio la sindrome di Cheyne-Stokes. Di cosa si tratta?». Rapoport, sfinito dall’esperienza che stava vivendo, rispose con un pizzico d’ironia: «Se aspetti una eredità da tuo zio, puoi fare conto di averla in tasca». Non sapeva che lo zio in questione era Stalin e che una bella eredità l’avrebbe ricevuta proprio lui: la morte del dittatore, infatti, favorì la sua immediata scarcerazione. Rapoport era stato arrestato il 3 febbraio 1953.

«Nei giorni seguenti, apprendendo dell’arresto di tanti miei amici e conoscenti, mi resi conto che inevitabilmente ben presto sarebbe toccato a me: discussi più di una volta con mia moglie l’eventualità dell’arresto. Lei era convinta che chi non resisteva alla tortura (su cui correvano voci terribili poi rivelatesi vere) e firmava la confessione richiestagli, sarebbe stato sicuramente fucilato. Mi implorò perciò di resistere, di fare appello a tutto il mio coraggio e di non firmare nessuna confessione. Ricordai sempre le sue parole, che nei momenti peggiori della mia prigionia mi furono di grande conforto. Venne il giorno fatale: il 3 febbraio 1953. Tornando a casa con mia moglie verso l’una di notte, fui sorpreso dalla presenza nell’atrio della donna addetta all’ascensore: di solito se ne andava a mezzanotte dopo averlo chiuso. Con lei c’era un uomo dai lineamenti da pugile, in abiti civili. Quando fummo saliti, aprimmo la porta dell’appartamento, e mi vidi venire incontro sogghignando un uomo che indossava un cappotto blu con il bavero e il berretto di astrakhan: il tipico abbigliamento degli agenti del KGB. Ero così preparato psicologicamente all’incontro che la mia unica reazione consistette in una risatina incontrollata. Non voleva essere una bravata, né un atto di cortesia; era semmai una reazione involontaria alla presenza della morte… L’auto entrò nel cortile della Lubjanka… “Lei è stato arrestato in quanto nazionalista ebreo borghese e nemico del popolo sovietico. Confessi i suoi crimini.” La dichiarazione delle accuse che mi furono mosse mi fece sentire, in un certo senso, sollevato: pensavo che mi sarebbe stato facile dimostrare di non essere mai stato un nazionalista ebreo borghese, né un nemico del popolo sovietico. Ma mi sbagliavo: non immaginavo quale fosse l’interpretazione che del nazionalismo ebraico borghese davano gli agenti del KGB.»

Fu questo l’inizio di una lunga odissea che solo la morte di Stalin riuscì a interrompere. Jakov Rapoport fu uno dei pochi sopravvissuti. «L’affare dei medici» disse «è stato il punto culminante, la conclusione logica dell’alogico sistema staliniano.» Gli «assassini in camice bianco» sopravvissuti alle angherie, 37 con le loro famiglie, furono liberati il 3 aprile. Lena Štern fu fatta rientrare dal Kazakhstan, dove era stata deportata, e Molotov ebbe la possibilità di rivedere la moglie. Più lenta fu invece la riabilitazione dei membri del CAE, che sarebbe arrivata soltanto il 22 novembre 1955.

Michail Rjumin, colpevole dell’ideazione e dell’esecuzione del complotto, sarebbe stato fucilato il 22 luglio 1954. Abakumov, il suo nemico, tenuto in prigione da Berija, subì la stessa sorte. Altri furono dimenticati intenzionalmente, per evitare che si formasse un movimento in loro difesa. «Questa invenzione fantastica, inimmaginabile,» ha scritto Boris Suvarin, biografo di Stalin, «fu accolta con interesse e deferenza nel mondo esterno, intossicato di propaganda comunista.» Ha scritto Gor’kij in Rivolta degli schiavi: «Un popolo allevato a una scuola che ricorda con volgarità i tormenti dell’inferno, educato a pugni, a colpi di frusta e di nagajka (il frustino di cuoio dei cosacchi) non può avere il cuore tenero. Un popolo che è stato calpestato dai poliziotti sarà capace a sua volta di camminare sul corpo degli altri. In un Paese in cui l’iniquità regnò così a lungo, è difficile per il popolo realizzare da un giorno all’altro la potenza del diritto. Non si può esigere che sia giusto colui che non ha conosciuto la giustizia».

Possono bastare queste parole per spiegare la drammatica singolarità dell’esperienza ebraica in terra sovietica? Finita l’era staliniana, l’antisemitismo non scomparve dalla vita sovietica e riaffiorò soprattutto nei momenti in cui la crisi economica e morale si fece più acuta, agli inizi degli anni Sessanta e Settanta. La lotta contro il sionismo e l’interdizione della partenza di ebrei verso Israele continuarono per decenni, con altrettanta tenacia. I leader sovietici erano convinti di non poter accordare agli ebrei una deroga, perché altre popolazioni si sarebbero ribellate, chiedendo di godere dello stesso trattamento, e in un sistema totalitario perdere, sia pure di poco, il controllo sociale avrebbe potuto avere esiti dirompenti. Questo però è un nuovo capitolo di storia contemporanea. Infine, un’ultima considerazione. Donald Rayfield ha scritto: «Lo studio parallelo di Stalin e Hitler risulta spesso fuorviante. Le differenze sono notevoli come le somiglianze. I nazisti avevano un rapporto simbolico con l’industria e l’esercito tedeschi, e la loro aggressione omicida era diretta ad altri, fossero questi slavi, ebrei, omosessuali o comunisti. Un comune cittadino tedesco con enormi paraocchi, pur tenendo conto degli orrori della guerra totale, avrebbe potuto vivere anche sotto altri regimi. L’aggressione di Stalin, invece, si abbatté sui suoi simili: contrario a muovere guerra ai vicini, uccise i suoi generali, la sua élite di professionisti, persino la sua famiglia, persone da cui dipendeva la sua vita economica e politica».

Quelle abiezioni, pur diverse, proiettano ancor oggi un’ombra lunga, minacciosa e crudele.