XXI

Il Libro nero

Molti anni dopo la morte di Stalin, in un periodo in cui i magistrati si occupavano di riabilitare molti onesti comunisti colpiti da condanne ingiuste, un giudice incaricato di far luce sulla caccia ai cosmopoliti (cioè i migliori scrittori yiddish), ignaro di quanto era realmente accaduto, domandò allo stesso Erenburg: «Ditemi, che cos’è il Libro nero? Decine di condanne hanno colpito decine di persone accusate di aver collaborato a questo libro».

La storia delle vicissitudini del Libro nero, oltre a essere importante in sé, ha un significato emblematico che getta un fascio di luce sul funzionamento della macchina politica dell’Unione Sovietica.

Alla domanda di quel giudice curioso Erenburg spiegò con pazienza che quel libro in realtà non esisteva, non era mai stato pubblicato: lo avevano compilato parecchi redattori, e quasi tutti costoro erano stati prima accusati falsamente, poi condannati in processi-farsa e, infine, messi a morte. Il fatto che lui stesso e Grossman, i due principali responsabili di quel delicato lavoro, fossero sopravvissuti senza essere colpiti dalla sventura non sapeva spiegarselo, se non come un miracolo o un arbitrio del destino. Il giudice, con un profondo sospiro, gli tese la mano in silenzio, e la sua stretta e uno sguardo fecero intuire a Erenburg che aveva capito.

Se la stesura del Libro nero fu per Il’ja Erenburg una sofferenza, il tentativo di pubblicarlo fu un incubo senza fine.

Il volume, infatti, sarebbe apparso in edizione integrale solo nel 1994, quando tutti i diretti protagonisti erano scomparsi, grazie a Irina Erenburg, figlia dello scrittore, la quale mise a disposizione dell’editore tedesco l’esemplare che risaliva al 1947 e che, ormai pronto per la stampa, era stato bloccato e poi considerato definitivamente perduto. Nel 1980 ne era apparsa un’edizione russa, l’anno successivo a New York un’edizione inglese, nel 1984 una in yiddish a Gerusalemme e nel 1991 una in ebraico a Tel Aviv, tutte a cura dell’Istituto Yad Vashem, ma con qualche importante lacuna. Nel 1990 la «Literaturnaja Gazeta» menzionò il libro e ne pubblicò un breve estratto. L’edizione tedesca del 1994 e la traduzione italiana del 1999 si sono potute giovare sia della copia preziosamente conservata da Irina Erenburg sia di quella dattiloscritta, non censurata, conservata dai servizi segreti sovietici e resa disponibile di recente, dopo l’apertura degli archivi. «La storia del Libro nero» ha scritto Irina nella postfazione «assomiglia a quella del nostro Paese, nella quale gli enigmi irrisolti, o come si usa dire oggi, le zone d’ombra, abbondano.»

L’idea di scrivere un Libro nero era nata nel corso del conflitto, quando molti soldati al fronte avevano deciso spontaneamente d’inviare a Il’ja Erenburg, la cui popolarità e il cui impegno nella lotta antifascista e antinazista erano ben noti, un’enorme quantità di documenti e testimonianze raccolti nei territori dove avevano luogo le operazioni belliche, e una mole impressionante di lettere in cui raccontavano quanto avevano visto e sentito. Verso la fine del 1942 Albert Einstein, insieme allo scrittore ebreo polacco Scholem Asch, a Ben Zion Goldberg e al Comitato degli scrittori e artisti ebrei statunitensi, propose al Comitato antifascista ebraico di raccogliere tutti i documenti possibili sullo sterminio degli ebrei d’Europa.

«Abbiamo portato avanti la proposta di Einstein» dichiarò Itzik Fefer alla riunione del CAE del 25 aprile 1946 «ma la faccenda ha stentato a decollare. Non sapevamo se si doveva compilare un “libro nero” dedicato esclusivamente alle atrocità commesse dai tedeschi contro la popolazione ebraica.» L’idea, infatti, si scontrava con le tesi della propaganda sovietica, che non parlava mai dello sterminio ebraico e metteva piuttosto l’accento sul numero complessivo di vittime fra i civili sovietici. La scusa ufficiale per giustificare questo atteggiamento reticente era che non bisognava prestarsi al gioco della macchina della propaganda nazista, che fin dall’inizio aveva proclamato la necessità di «liberare» l’URSS «dagli ebrei e dai comunisti». Questa impostazione, tuttavia, non era del tutto limpida o esente da remore, poiché i dirigenti del PCUS, se all’interno del Paese non volevano enfatizzare quanto stava accadendo, all’esterno invece facevano di tutto per guadagnarsi l’appoggio delle organizzazioni ebraiche internazionali e sottolineavano con ampiezza di particolari i massacri quotidiani di ebrei.

Le variazioni politiche della congiuntura internazionale finivano quindi per riverberarsi direttamente sul gruppo di lavoro che si occupava della redazione del Libro nero, creando condizioni di notevole incertezza. Si procedeva, come ebbe a dire Grossman, «a tentoni e al buio» e in più direzioni: ora si rafforzavano le relazioni con le organizzazioni americane, ora prevaleva la diffidenza verso l’esterno e alcuni canali di comunicazione venivano repentinamente chiusi per ordine delle autorità. Erenburg stesso, in una riunione di collaboratori tenutasi il 13 ottobre 1944, dichiarò: «Per molto tempo non è stato chiaro se la pubblicazione di questo libro sarebbe stata autorizzata. E, a tutt’oggi, i termini di tale autorizzazione mi risultano incomprensibili. Mi è stato chiesto di redigere una nota sul contenuto e le finalità del libro. Per farlo mi sono basato sulle conclusioni raggiunte nel nostro primo incontro. La nota è stata scritta e inoltrata. Non ho ancora ricevuto una risposta diretta, ma tramite il rappresentante del Comitato ebraico [antifascista] mi hanno mandato a dire: “Realizzate il libro, e se riuscirà bene sarà pubblicato”… Credo che, ottenuta l’autorizzazione a preparare il manoscritto, dovremo concentrare la maggior parte delle nostre energie nella lotta per farlo stampare».

Le sue parole lasciavano trasparire tutte le perplessità e le preoccupazioni dell’intero gruppo che lavorava alacremente alla realizzazione del progetto: «Dato che gli autori di questo libro non siamo noi, ma i tedeschi, e lo scopo dell’opera è chiaro, non riesco a capire che cosa significhi “se riuscirà bene”: non si tratta di un romanzo di cui non si conosce il contenuto». Erenburg era dell’idea che il Libro nero dovesse essere pubblicato non solo in Unione Sovietica, ma anche negli Stati Uniti e in Inghilterra, e intendeva coinvolgere personalità ben note come Konstantin Simonov e Aleksandr Tvardovskij. Del resto, il CAE era in contatto con il World Jewish Congress, il Congresso mondiale ebraico, e fra le due organizzazioni era stato deciso che ciascuna avrebbe messo a disposizione dell’altra il materiale raccolto autonomamente, in vista di una pubblicazione che doveva avvenire in molti Paesi.

Negli Stati Uniti, in quello stesso 1944 fu creato un Comitato per la pubblicazione del Libro nero, e la presidenza fu affidata a Ben Zion Goldberg e Nahum Goldmann (del Congresso mondiale ebraico). Fu altresì costituito un collegio redazionale internazionale che, oltre a esponenti del Comitato degli scrittori, scienziati e attori ebrei, membri del CAE e del Congresso mondiale ebraico, comprendeva rappresentanti del Consiglio nazionale ebraico di Palestina, il Waad Haleumi Leisrael. Il CAE sovietico teneva i contatti con il collegio redazionale internazionale senza chiamare in causa la Commissione letteraria. Così, il 19 ottobre 1944, all’insaputa di Erenburg, Itzik Fefer e Šachno Epstein (segretario responsabile del CAE) inviarono negli Stati Uniti 552 pagine di materiale documentario raccolto nell’URSS. Più tardi Fefer assicurò che Erenburg non era stato avvisato soltanto perché la spedizione del materiale era stata sollecitata dall’ambasciatore sovietico negli USA, Gromyko, senza alcun preavviso.

Questi piccoli episodi rivelano che quel progetto era oggetto di molte attenzioni e sollecitazioni, non sempre armoniche e congruenti. Per esempio, nel luglio 1943 era apparso sul periodico «Ejnjkeit» un appello a far pervenire al CAE testimonianze sullo sterminio degli ebrei da parte dei nazifascisti, e subito dopo il CAE aveva deciso di effettuare una propria raccolta di documenti in vista di una pubblicazione autonoma, mentre la commissione letteraria nella prima fase di attività aveva preso in considerazione ed elaborato soprattutto documenti ricevuti da Il’ja Erenburg. Perciò, per superare i contrasti fra i due organismi fu istituita una commissione speciale guidata da Solomon Bregman, che prese visione del materiale raccolto separatamente dai due organismi. Nelle «Osservazioni generali» di questa commissione speciale, in data 26 febbraio 1945, per la prima volta si menzionavano due versioni del Libro nero e si elencavano le differenze. Fu anche criticata la linea scelta dalla commissione presieduta da Erenburg di rimaneggiare in forma letteraria il materiale documentario e testimoniale, ritenendo invece che il Libro nero dovesse mantenere un carattere di raccolta di documenti, con la massima fedeltà alle fonti e senza alcuna rielaborazione con propositi estetici.

Questo contrasto fra due concezioni differenti aveva già portato, durante una riunione della Commissione letteraria il 13 ottobre 1944, a un vivace scambio di battute tra Erenburg e Grossman a proposito del modo d’intervenire sui racconti dei testimoni oculari. Il primo aveva sostenuto che l’impatto emotivo della testimonianza di un individuo è molto simile a quello di una «creazione artistica», illustrando il suo approccio con queste parole: «Se, per esempio, si riceve una testimonianza epistolare, tutto ciò che l’autore ha inteso esprimervi dovrà essere restituito. Tutt’al più si tratterà di abbreviarla: a questo si è limitato il mio intervento sui documenti che ho ricevuto». Grossman, invece, era convinto che fosse necessario spersonalizzare i documenti e metteva l’accento sul fatto che lo scopo principale del libro era «parlare in nome degli esseri umani che giacciono sottoterra e non hanno più la possibilità di farsi sentire».

La Commissione Bregman fece ulteriori osservazioni di metodo sul materiale preparato da Erenburg: «Si rileva nell’abbozzo in questione un’insistenza eccessiva sull’ignobile attività dei traditori del popolo in Ucraina, Lituania, ecc., cosa che attenua la forza dell’accusa contro i veri imputati, i tedeschi, obiettivo fondamentale e determinante del libro». In modo più esplicito sottolineò la necessità che il Libro nero fosse sottoposto a una «redazione politica competente» e, criticando con toni severi il CAE e la Commissione presieduta da Erenburg, finì per influenzare sia la selezione delle testimonianze sia la rielaborazione del manoscritto, pur raccomandando con le dovute cautele la pubblicazione, sia pur parziale, di entrambe le raccolte. Si sarebbe anche potuto suddividere in vari opuscoli il materiale raccolto da Erenburg.

Nel marzo 1945 Solomon Lozovskij, vicepresidente del Sovinformburo, con una lettera (conservata nel fondo nell’archivio dello Yad Vashem) informò Erenburg che le conclusioni della Commissione Bregman erano state approvate, e che sarebbe stato preferibile pubblicare le due raccolte separatamente, soprattutto perché in Inghilterra e negli Stati Uniti i «nemici» non avrebbero potuto obiettare ai sovietici di aver presentato rielaborazioni letterarie e non, invece, documenti autentici. Erenburg era stato anche messo sotto accusa dal CAE per un invio di documenti negli Stati Uniti, ma sia la Commissione Bregman sia Lozovskij erano arrivati a concludere che si trattava di un’accusa montata ad arte. Erenburg, in ogni caso – come testimoniò Grossman nell’aprile 1945 –, reagì sdegnosamente e si decise ad abbandonare la Commissione letteraria che aveva presieduto, perché contrario a due pubblicazioni parallele, o anche a opuscoli separati. Qualche settimana prima aveva inviato una lettera a tutti i collaboratori del Libro nero per informarli che il progetto originario era saltato, e che potevano disporre liberamente di quanto avevano prodotto in modo autonomo. Poco tempo dopo apparve sulla «Pravda» un articolo di G.E. Aleksandrov che accusava Erenburg di semplificare troppo la questione, e probabilmente le dimissioni furono anche una risposta a questo attacco.

Alla fine di maggio il CAE si riunì alla presenza di Lozovskij e in quell’occasione A.A. Severin manifestò le proprie riserve, dicendo, in maniera solo apparentemente criptica, che «le forze suscitate» si erano «espresse solo in senso centrifugo», e «una volta innescate tali forze» i dirigenti del Comitato si erano «dimostrati incapaci di controllarle». Ancora una volta era Erenburg – criticato, apparentemente, per la sua lentezza – il vero obiettivo dell’attacco. Bregman aggiunse: «In quella Commissione regna un caos indescrivibile: litigi, insulti. Finora la cosa non era nota… se lo fosse stata, si sarebbero potute prendere subito le debite misure. Ritengo che vi siate lasciati portare fuori strada: “Una personalità della statura di Erenburg” avete pensato “entra in polemica con noi! Allora dobbiamo cedere”. Noi tutti abbiamo grande stima per il compagno Erenburg, ma quando è necessario dobbiamo richiamare all’ordine anche lui».

Bregman, tuttavia, considerava soddisfacente il livello del materiale elaborato dallo scrittore e dai suoi collaboratori e si disse favorevole a inviarlo negli Stati Uniti. Che l’incertezza fosse diffusa lo testimoniano le parole di Lozovskij: «Erenburg dice di aver ricevuto l’incarico generico di compilare un “libro nero”. Avreste fatto meglio a impartire ordini precisi: da un mese a questa parte tutti cercano di ricordare chi ha dato quale incarico e a chi». Nel giugno 1945 il Libro nero (meglio: quella parte del manoscritto ritenuta già pronta) fu sottoposto a una perizia da parte del giornalista M. Subocki, che giudicò il lavoro con grande severità: «È indispensabile rimaneggiare pazientemente tutti i contributi, soprattutto quelli sull’Ucraina… per correggere l’erronea impressione che ne deriva, e cioè che nello sterminio della popolazione ebraica abbiano avuto un ruolo decisivo gli elementi antisovietici locali». La sua idea era che soltanto i tedeschi avevano svolto un ruolo nello sterminio degli ebrei e che non bisognasse amplificare il ruolo dei collaborazionisti e della popolazione locale, per evitare che elementi antisemiti, dichiarati o occulti, potessero accreditare la tesi cara alla propaganda fascista secondo cui gli abitanti dei territori occupati avevano collaborato attivamente con gli invasori contro gli ebrei. Quanto ai membri degli Judenraten, Subocki affermò: «Bisogna evitare di presentarli come persone sostanzialmente ineccepibili e oltremodo eroiche».

In luglio il collegio di redazione approvò queste osservazioni, ed elaborò in base ai nuovi criteri una revisione completa di quanto era stato fatto fino a quel momento, ordinando anche il materiale secondo criteri geografici. Fu decisa l’acquisizione di nuovi documenti e testimonianze e, soprattutto, di immagini fotografiche. A Solomon Lozovskij fu chiesto di scrivere un’introduzione politica, che invece fu redatta da Vasilij Grossman, e all’accademico Il’ja P. Trainin di preparare una conclusione giuridica. Qualsiasi traduzione in lingua straniera avrebbe dovuto ricevere la previa approvazione dai capi del Sovinformburo. Ormai, come tutti sapevano, stava per cominciare il processo di Norimberga e non c’era più tempo a disposizione per discutere se preparare o no due differenti versioni del materiale; perciò, alle autorità sovietiche tornava utile ripescare il nome di Erenburg per spenderlo sulla scena internazionale.

Lo scrittore, ancora vent’anni dopo, avrebbe confessato di aver provato, leggendo quelle lettere e preparando quel dossier, un vero terrore, e di aver deciso già nel 1943 di raccogliere quel materiale – diari, lettere d’addio, deposizioni di testimoni – sullo sterminio degli ebrei, per pubblicarlo e gettare un fascio di luce sulla «soluzione finale» nei Paesi dell’Est, cioè sul massacro sistematico organizzato nei territori occupati in Russia, Ucraina, Bielorussia, Lettonia, Lituania ed Estonia e sulla sorte degli ebrei sovietici deportati nei campi di sterminio in territorio polacco: Auschwitz, Treblinka e Sobibór.

Le informazioni che arrivavano dai territori occupati dai tedeschi erano sempre più drammatiche. È scritto nell’introduzione del Libro nero: «In alcuni di questi luoghi i condannati opposero un’accanita resistenza armata. Tali insurrezioni, accuratamente preparate, scaturirono dalla volontà d’impedire la partenza dei convogli diretti a Treblinka e ad altri campi di sterminio. L’insurrezione del ghetto di Varsavia scoppiò per i medesimi motivi: anche in quel caso la scintilla della rivolta, organizzata molto tempo prima, fu la deportazione degli ebrei della capitale polacca a Treblinka. Ecco perché, in questo caso specifico, i curatori hanno deciso di violare il principio che si erano imposti, secondo cui si sarebbero dovuti raccontare soltanto fatti accaduti entro i confini del territorio sovietico occupato, e hanno accolto nel volume una testimonianza sulla rivolta del ghetto di Varsavia, in modo che risultassero rappresentati con precisione analoghi avvenimenti verificatisi nei territori sovietici occupati dai tedeschi. Decisivo incoraggiamento all’insurrezione del ghetto di Varsavia provenne dalla gloriosa vittoria di Stalingrado, che, come un raggio di speranza, squarciò le tenebre dei lager e dei ghetti».

Nell’ultima frase è evidente il tentativo di mettere in buona luce i successi dell’Armata Rossa.

«Le vittime erano trasportate sul luogo dell’esecuzione in treno, cosicché normalmente non sapevano fino all’ultimo momento dove stessero andando; si faceva loro intendere che avrebbero avuto un nuovo posto di lavoro, in un’azienda agricola o in una fabbrica. Nel campo di sterminio di Treblinka era stata addirittura costruita una finta stazione ferroviaria, con biglietteria e orari, in modo che chi vi arrivava non riuscisse subito a rendersi conto di non avere più scampo. Talvolta, prima di morire le persone venivano costrette a scrivere lettere ai famigliari, il che attenuava l’irrequietudine e sopiva i sospetti… Possiamo affermare con sicurezza che, in tutta la storia del genere umano, mai fu commesso crimine paragonabile a questo, che vide coniugarsi in una combinazione affatto nuova il sadico furore di assassini professionisti con un piano elaborato da autorità ufficiali. Dall’atrocità di tali delitti la popolazione dei territori occupati rimase come stordita. Spesso, fino agli ultimi minuti le vittime stesse non riuscivano a capacitarsi di essere condotte a morte, tanto mostruoso e assurdo sembrava loro che si potessero trucidare tutt’a un tratto milioni d’innocenti.»

I tedeschi facevano in modo che le vittime designate rimanessero fino all’ultimo incerte sul proprio destino. Per ingannarle era stato messo a punto un procedimento che fu adottato sistematicamente: si diffondeva la voce che i condannati fossero radunati per essere scambiati con prigionieri di guerra tedeschi, o destinati a lavori agricoli, o per essere trasferiti nei campi situati nella parte occidentale del territorio occupato. Spesso, uno o due giorni prima della strage i tedeschi iniziavano a costruire nei ghetti bagni o altri impianti di uso comune, per fugare ogni sospetto. Benché restassero loro solo poche ore di vita, le vittime erano invitate a indossare abiti pesanti e a portare viveri per due settimane. Dopo essere state incolonnate, ricevevano false informazioni sulla meta della marcia che le attendeva: dovevano recarsi a piedi fino alla stazione ferroviaria indicata e quindi salire sul treno. Quando però, carica di viveri e abiti pesanti, la colonna raggiungeva la strada maestra, le veniva imposto un improvviso cambiamento di percorso e, qualche istante dopo, i condannati si ritrovavano nel bosco, davanti alle fosse appena scavate.

«Queste menzogne e queste simulazioni servivano agli uomini di Hitler per scongiurare ogni pericolo di resistenza o insurrezione, anche se la ferocia dei carnefici colpì spesso i più indifesi, i più deboli, i più disorientati: i vecchi, i malati, gli invalidi e i minori, oppure le persone che dovevano occuparsi di un gran numero di familiari, spesso malati o inabili al lavoro… È contro questa gente indifesa e disarmata che i reggimenti delle SS e quelli di polizia, le squadre della Gestapo, i reparti d’assalto e di vigilanza, equipaggiati con armi automatiche e motorizzati, compirono la loro opera sanguinaria. La sproporzione fra i carnefici, dotati di ogni mezzo della moderna tecnologia bellica, e le vittime inermi, fra la superiorità delle orde fasciste, munite di un dettagliato piano omicida, e la totale impreparazione di chi improvvisamente si vedeva spinto sull’orlo della fossa, insieme a vecchi e bambini, era impressionante.»

Albert Einstein, il cui prestigio era già altissimo, scrisse in un primo momento nel 1945 una prefazione che fu subito rifiutata dal governo sovietico e che neanche successivamente fu mai presa in considerazione; il celebre fisico sosteneva infatti in quelle poche pagine due tesi non gradite a Mosca: la tutela delle minoranze nazionali e la deroga al principio di non ingerenza negli affari interni di un Paese in caso di violazione dei diritti umani; due assunti in aperto contrasto con le persecuzioni e le deportazioni di interi gruppi etnici disposte da Stalin. Inoltre, il suo intervento molto esplicito a favore degli ebrei, intesi come gruppo nazionale, era sgradito – sia per motivi ideologici sia per paura – anche a quegli ebrei antisionisti che temevano di irritare il dittatore sovietico. Nel suo scritto, infine, Einstein accennava alla questione di uno Stato ebraico, frutto del sogno sionista: «Questo libro raccoglie materiale documentario sull’azione sistematica di sterminio con cui il governo tedesco ha eliminato una parte cospicua del popolo ebraico. Garanti della veridicità dei fatti narrati sono le organizzazioni ebraiche che con il loro sforzo congiunto hanno reso possibile la realizzazione e la pubblicazione del presente volume. L’intento dell’opera è manifesto: essa vuole persuadere il lettore che un’organizzazione internazionale diretta a salvaguardare la vita umana può conseguire con efficacia il proprio scopo soltanto qualora non si mobiliti esclusivamente per soccorrere gli Stati vittima di aggressioni militari, ma anche per difendere le minoranze nazionali presenti all’interno di ciascuno Stato, giacché in ultima analisi sono i singoli individui che devono essere protetti dallo sterminio e dagli atti di barbarie. Non vi è dubbio che per raggiungere tale obiettivo occorre rinunciare al principio di non ingerenza negli affari interni, che negli ultimi decenni ha prodotto risultati disastrosi: del resto, nessuno ormai può più dubitare della necessità di compiere un passo gravido di conseguenze tanto importanti. Anche chi sostiene che ogni intervento difensivo esterno deve essere consentito solamente in caso di attacco armato si trova oggi costretto ad ammettere che la guerra e gli sconvolgimenti che essa comporta sono frutto degli sviluppi della situazione interna dei singoli Stati e non di mere opzioni militari o strategiche. Solo quando la necessità di assicurare all’intero genere umano condizioni di vita dignitose verrà riconosciuta e avvertita come un dovere comune da parte di tutti gli Stati e di tutti gli uomini, solo allora si potrà parlare non del tutto a sproposito di umanità civile. Fra tutti i popoli colpiti dagli eventi catastrofici degli ultimi anni, il popolo ebraico figura come quello che ha accusato, in percentuale, le perdite maggiori. Se esiste dunque la reale intenzione di riconoscere a ciascuno il giusto risarcimento, nel piano di riorganizzazione della pace mondiale al popolo ebraico dovrà essere riservata un’attenzione del tutto particolare. Il fatto che dal punto di vista politico gli ebrei non possano essere formalmente considerati una nazione perché privi di un territorio e di un governo non può in alcun modo costituire un ostacolo. Di fatto gli ebrei sono stati trattati come un’unica comunità, come una nazione in piena regola, e nel comportamento dei loro stessi nemici il loro status di gruppo politicamente unitario ha trovato implicita affermazione. Pertanto essi devono essere considerati una nazione nel senso corrente del termine, anche nel contesto degli sforzi per assicurare stabilità al quadro delle relazioni internazionali. A tale riguardo non si può non sottolineare un ulteriore aspetto. Per gli anni a venire, in intere regioni europee l’esistenza degli ebrei sarà materialmente impossibile. Dopo decenni di duro lavoro e grazie al sostegno finanziario fornito spontaneamente dagli altri popoli, gli ebrei hanno reso la Palestina una terra nuovamente ospitale. Tutti questi sacrifici sono stati compiuti alla luce della promessa formulata ufficialmente dai governi riuniti in consultazione dopo il primo conflitto mondiale, secondo la quale il popolo ebraico avrebbe ricevuto un territorio sicuro in cui insediarsi stabilmente proprio nella sua antica patria, la Palestina. Questa promessa è stata mantenuta in modo a dir poco timoroso e parziale. Ora, alla luce dei meriti straordinari acquisiti dagli ebrei, e specialmente dagli ebrei di Palestina, anche nel corso di quest’ultima guerra, è necessario chiedere conto della parola data: è il momento di esigere con forza che la Palestina, sia pure in rapporto alle sue capacità economiche, venga aperta all’immigrazione ebraica. Se le istituzioni internazionali vogliono guadagnarsi il credito che costituisce il fondamento stesso della loro esistenza, devono innanzi tutto provare di non avere ingannato chi, riponendo la propria fiducia in loro, ha affrontato durissimi sacrifici».

Grossman, nella sua prefazione, descrisse con crudezza lo sterminio degli ebrei e non trascurò neppure l’analisi di aspetti che oggi potrebbero apparire marginali, ma che facevano parte del rituale dell’annientamento: le truppe, per esempio, venivano invitate a economizzare le munizioni e ad assassinare, coprendole di terra ancora vive, molte persone in fosse comuni; oppure, i rapporti degli ufficiali a Himmler, che controllava personalmente il ritmo delle esecuzioni – scaglionate in mesi o trimestri –, mostravano che le stragi e la riduzione in schiavitù di milioni di esseri umani seguivano un piano determinato e regole precise. Il trasporto di milioni di persone doveva essere accuratamente pianificato e alla costruzione di camere a gas e forni crematori collaborarono chimici, termotecnici, ingegneri e manovali che progettarono e controllarono il buon andamento del processo di sterminio.

«Gli oggetti di valore e il denaro degli assassinati confluivano nei fondi di Stato, mentre mobili, oggetti vari, vestiti e scarpe venivano divisi per categoria, portati nei depositi centrali e quindi distribuiti. Le imprese agricole, le fabbriche di armi e i saponifici ricevevano secondo le loro ordinazioni capelli femminili, grasso umano e ossa sminuzzate.» L’omicidio e la rapina di massa non ammettevano né incertezze né improvvisazioni. Anche i tempi dovevano essere puntualmente rispettati: Himmler redarguì con durezza un rappresentante delle SS perché lo sterminio aveva accusato un lieve ritardo sul calendario programmato. È scritto nell’introduzione al Libro nero: «In qualche caso il trasferimento degli ebrei richiedeva qualche tempo e nel frattempo i tedeschi si affrettavano a organizzare in gran segreto i preparativi per il massacro. Sceglievano e predisponevano il luogo per la strage. Talora si usavano come fosse comuni trincee anticarro o avvallamenti e gole naturali; nella maggior parte dei casi, però, era necessario scavare. Per forma e dimensione le buche assomigliavano a profondi fossati. Il lavoro era eseguito da contadini prelevati dalla campagna circostante, da prigionieri dell’Armata Rossa o dagli stessi ebrei, portati dal ghetto per l’occasione. Nessuno degli uomini costretti a scavare immaginava l’effettiva destinazione delle fosse; tutti pensavano che si trattasse delle consuete opere necessarie in tempo di guerra. Dopo la conclusione dei lavori preparatori restava in genere un unico fattore che poteva dilazionare l’esecuzione: poiché nello stesso tempo erano mandati a morire milioni di bambini, donne, uomini e vecchi, le SS, i reggimenti di polizia e gli Einsatzkommandos dell’SD non riuscivano a far fronte alle proporzioni del massacro. Tuttavia non mancarono i casi in cui l’eccidio fu perpetrato in tempi più stretti del solito. Basti qui ricordare Kiev, dove lo sterminio, di crudeltà inaudita, interessò decine di migliaia di esseri umani ed ebbe luogo solo nove giorni dopo la conquista della città da parte delle bande armate tedesche».

Già all’inizio del 1944 alcuni estratti dell’opera, redatta in cinque lingue, furono pubblicati in anteprima sul giornale «Znamja» con il titolo Gli assassini dei popoli. Poi, appena il manoscritto fu completato, cominciò la lotta per la sua pubblicazione. Erenburg e Grossman, ben consci delle difficoltà, fecero anche esercizio di autocensura nel tentativo che la loro iniziativa non fosse bloccata. «Se riuscirà bene sarà pubblicato.» Queste parole erano rimaste impresse nella mente di Erenburg, che da quel momento aveva sempre temuto che i suoi sforzi potessero essere vanificati. Ormai la guerra apparteneva al passato, l’esercito sovietico occupava molti territori in Europa, e i dirigenti sovietici non avevano più alcun interesse a enfatizzare lo sterminio degli ebrei.

Per la pubblicazione del Libro nero era solo l’inizio di una storia tormentata. Nel 1946 apparve in Romania una prima parte del discusso testo, mentre a Mosca Lejb Strongin, il direttore della casa editrice di letteratura ebraica Der Emes, faceva sapere a Grossman di avergli spedito l’originale del libro per la composizione tipografica, e Itzik Fefer, membro del direttivo del CAE, confermò che la versione russa «era in corso d’opera». Si trattava però di una falsa impressione, e i fatti successivi lo avrebbero dimostrato ampiamente. Nel 1948 il CAE fu soppresso e le matrici tipografiche del Libro nero, pronte per la stampa, furono confiscate insieme alle bozze e al manoscritto, sottoposto già ad alcuni interventi censori che avevano colpito singoli passi e interi periodi.

Tra il manoscritto originario e la versione censurata pronta per la stampa, e poi proibita e ritirata, c’erano differenze che già mettevano in evidenza il tentativo di ridurre complessivamente il significato della resistenza ideologica e intellettuale degli ebrei, come preludio alla lotta armata. Per esempio, il contributo dedicato al massacro di Babij Jar era stato dimezzato; eliminate le descrizioni delle condizioni in cui erano stati trovati i luoghi delle esecuzioni capitali dopo la liberazione; cancellati anche i passi che parlavano della collaborazione di alcuni russi allo sterminio, o la narrazione dell’eroica ribellione di tanti ebrei in diversi episodi. Si può leggere nell’introduzione: «Il lettore della versione censurata non doveva sapere nulla delle donne e dei bambini ebrei portati con i vaporetti al largo di Odessa e gettati in mare. Allo stesso modo fu eliminata la narrazione dei crimini compiuti dalle truppe d’occupazione tedesche e romene contro gli ebrei… Il censore non risparmiò neppure un breve appunto sul disperato tentativo di fuga degli ebrei di Leopoli per unirsi ai partigiani. Nel racconto su Białystok fu espunto il seguente passo: “Chiunque ha visto in quali terribili condizioni era ridotta a vivere la popolazione ebraica sotto il giogo di Hitler e con quale eroismo essa ha lottato contro i carnefici tedeschi, può capire quale grande contributo abbiano dato gli ebrei alla definitiva sconfitta del fascismo tedesco”».

Fortuitamente riuscì a scampare all’eccidio uno dei principali artefici del Libro nero, l’illustre poeta yiddish Abraham Sutzkever, il quale, come membro dell’Organizzazione partigiana unita del ghetto di Vilnius, si era aggregato nel settembre 1942 al gruppo di partigiani ebrei della foresta di Naro. Sutzkever raccontò come, su richiesta di Erenburg, nel marzo 1944 fosse volato a Mosca per redigere la parte dedicata alla Lituania. I due uomini avevano lavorato giorno e notte per completare la parte assegnata, ma nell’esemplare corretto per la stampa il nome di Sutzkever era stato cancellato perché, negli anni Quaranta, aveva lasciato l’Unione Sovietica per emigrare in Palestina.

«Questo massacro» si può leggere ancora nell’introduzione al Libro nero «non rappresentava che un anello della catena di terrore onnipervasivo con cui i fascisti tedeschi intendevano soffocare la volontà di resistenza del popolo sovietico, votato alla libertà. Tali inaudite crudeltà avrebbero dovuto paralizzare i sovietici. Il sangue fu versato a fiumi. Centinaia di migliaia di russi, bielorussi e ucraini furono trucidati.»

Questa carneficina era considerata dagli uomini di Hitler un preambolo alla definitiva occupazione del «Lebensraum orientale». L’uccisione dei civili russi, ucraini e bielorussi in numerose località era solo il primo passo dell’attuazione del programma di annientamento totale dei popoli slavi. Per quanto riguarda gli ebrei, invece, i piani sanguinari dei nazisti trovarono ovunque esecuzione immediata. In ogni luogo gli invasori eliminavano tutti gli ebrei che capitavano loro fra le mani. Li giustiziavano tutti, senza eccezioni. I bambini non ancora in grado di camminare, gli infermi, i malati e i vecchi ormai incapaci di muoversi con le proprie forze erano gettati su lenzuoli e trascinati sul luogo d’esecuzione, o vi venivano trasportati con camion e carri.

L’esecuzione avveniva in luoghi che distavano tra loro centinaia, quando non migliaia, di chilometri, ma seguiva quasi sempre il medesimo copione. Tale uniformità, quasi perfetta, attestava l’esistenza di istruzioni segrete preordinate cui i carnefici si attenevano scrupolosamente. La forma e la profondità delle fosse, le modalità del trasporto sul luogo, i chiarimenti e le spiegazioni fornite alle persone portate a morire: in una miriade di casi tutto questo si è ripetuto con impressionanti analogie.

La segregazione nei ghetti istituiti dai tedeschi nei territori occupati era una misura temporanea, l’immediato antefatto del massacro. Il ghetto era semplicemente un luogo di concentramento dei condannati a morte. Nel ghetto era possibile prelevare più comodamente le persone da giustiziare e riusciva più facile controllare le varie componenti della popolazione, distinguere i soggetti capaci di opporre resistenza dai bambini e dai vecchi indifesi.

Non mancarono comunque i casi in cui l’eccidio fu perpetrato in tempi più stretti del solito. Basterà ricordare Kiev.

«Kiev, Babij Jar. Le truppe tedesche entrarono a Kiev il 19 settembre 1941. Lo stesso giorno iniziarono a saccheggiare i negozi della Bessarabka. I capicasa trattenevano gli inquilini nei cortili. Nella Bessarabka alcuni ebrei furono fermati, picchiati a sangue e portati via su un grosso autocarro. Nesja Elgort rincasò (al 40 di via Saksaganskaja) dalla Bessarabka e trovò riuniti i suoi numerosi parenti, convenuti per il consiglio di famiglia. L’ormai anziana nonna Dina Smuleva guardò uno dopo l’altro tutti i suoi figli e, animata dal desiderio di sottrarli al nemico, disse: “Dio mio, dove ci possiamo rifugiare?”. Il 21 settembre il capofamiglia Ben Gerkovič si recò insieme a Rosa, la sorella di Nesja, in via Stalin per fare un sopralluogo a casa sua. Verso sera Rosa tornò e riferì che i tedeschi avevano portato via suo padre: dove, non lo sapeva. Così il mattino seguente Nesja decise di mettersi alla ricerca del padre. Non sapeva a chi rivolgersi. Insieme al figlio Il’jufa andò dal comandante. Lui si limitò a chiederle la nazionalità e, appena sentì che era ebrea, la cacciò fuori. In via Lenin, Nesja vide i tedeschi che colpivano alcuni uomini ebrei sulle gambe con il calcio del fucile: li facevano ballare e, dopo averli crudelmente malmenati, li costringevano a caricare pesanti casse su dei camion. Quelli crollavano sotto il peso eccessivo e subito i tedeschi davano loro una lezione con i manganelli. Il 22 settembre gli abitanti di Kiev furono svegliati da una violenta esplosione. Dal KreŠčatik venivano fumo e odore di bruciato. I tedeschi spingevano direttamente tra le fiamme tutte le persone che si trovavano nelle traverse del KreŠčatik, la via principale di Kiev. Vicino alla casa di via Saksaganskaja dove stava in quel momento Nesja Elgort, passò di corsa un tedesco. La guardò, fece un gesto con la mano alla gola e, indicando in direzione dell’esplosione, gridò: “Partigiani, Juden kaputt!”. Quel giorno i tedeschi avevano affisso ai muri delle case il seguente annuncio in ucraino: “Ebrei, comunisti, commissari e partigiani saranno eliminati”. Per ogni partigiano o comunista denunciato veniva promessa una taglia di 200 rubli. Tali annunci erano affissi in via Krasnoarmejskaja e in altre vie della città. La vita a Kiev diventava sempre più insopportabile. I tedeschi facevano irruzione nelle case, arrestando e portando via chi vi abitava. Questa gente non è mai ritornata. Dal suo appartamento la famiglia Elgort si trasferì in cantina. Nesja, che non aveva l’aspetto di un’ebrea, si incaricò di provvedere agli alimenti. Così la famiglia Elgort trascorse alcuni giorni in cantina. Sapendo che si nascondevano, il capocasa, Pavel’ Davydcenko, disse a Nesja, che stava andando a prendere l’acqua: “Perché vi nascondete? Sarete comunque evacuati da Kiev”. Già allora stava procedendo, in collaborazione con i tedeschi, a sgomberare gli alloggi dello stabile che gli era stato affidato. Un giorno, mentre cercava la suocera, Gitl Elgort, che voleva andare a visitare il suo appartamento in via Ziljanskaja, Nesja si imbatté del tutto inaspettatamente nel padre. Il suo aspetto la lasciò atterrita. Risultò poi che insieme ad altri ebrei, tra i quali anche un rabbino, era stato catturato dai tedeschi e rinchiuso in uno scantinato umido. Lì erano stati malmenati. Alcuni di loro avevano subito orribili torture, ma come per miracolo il padre di Nesja e il rabbino erano riusciti a salvarsi. Sulle guance incavate del vecchio le lacrime scorrevano a fiumi. Già il 22 settembre numerosi ebrei furono assassinati per le strade, alle pompe dell’acqua potabile e nei parchi. Il secondo e il terzo giorno dell’occupazione tedesca molti abitanti di Kiev, specialmente nei quartieri di Podol e Slobodka, videro la corrente del Dnepr trascinare cadaveri gonfi di vecchi e bambini torturati a morte. Venerdì e sabato 26 e 27 settembre nessuno degli ebrei che si erano recati nella sinagoga fece ritorno. La kievita Evgenija Litoscenko testimoniò che i suoi vicini, il vecchio Schneider e i coniugi Rosenblat, non erano rincasati dalla sinagoga. Aveva visto i loro corpi trascinati dal Dnepr. Queste dichiarazioni furono confermate da T. Mihaseva. I mitraglieri e i poliziotti tedeschi avevano circondato le sinagoghe. In più punti della città la corrente del Dnepr sospingeva sugli argini borse con oggetti per il culto. Quando gli uomini della Gestapo e gli informatori della polizia ucraina adocchiavano una persona con i capelli scuri, ne controllavano i documenti. Gli ebrei venivano picchiati e consegnati alla polizia o alla Gestapo e, la notte, fucilati.»

Il Libro nero contiene racconti sulle insurrezioni di diversi ghetti e lager: Białystok, Varsavia, Treblinka, Sobibór e altri. Ovviamente, tali racconti non possono fornire un’immagine completa della lotta armata. Si ebbero decine d’insurrezioni, di corso e durata variabili: da aspri combattimenti di un giorno con pistole e bombe a mano, come accadde a Luck, fino a vere e proprie battaglie, come nel territorio di Kremenec, dove gli ebrei riuscirono a raggiungere le montagne e a resistere per parecchi giorni. Una delle insurrezioni più importanti e gloriose fu quella del ghetto di Varsavia, che si tradusse in un’imponente battaglia combattuta per molti giorni dagli ebrei contro la fanteria tedesca, che poteva contare sull’appoggio di carri armati, pezzi d’artiglieria e aerei. Le insurrezioni dei ghetti si conclusero quasi sempre con la sconfitta degli eroi che vi presero parte. Il fatto che agli insorti il tragico esito fosse chiaro sin dall’inizio nobilita ancor di più la loro lotta.

All’inizio del 1944 il Libro nero poteva dirsi terminato: sarebbe dovuto uscire in cinque lingue. La rivista «Znamja» ne pubblicò qualche estratto e altre piccole parti furono pubblicate in riviste yiddish. Poi accadde quello che nessuno avrebbe potuto immaginare: cominciò la storia tormentata della sua pubblicazione.