XXIII

La Shoah: annientamento

È stato definito Olocausto, erroneamente. In realtà non vi è stato niente di sacrificale, si è trattato di uno sterminio brutale, ingiustificato, incomprensibile. Non sono state le vittime a chiamarlo Olocausto, a prendere le distanze, per separare l’esperienza intellettuale da quella emotiva. Se lo si chiama con il suo nome, assassinio di massa, allora la repulsione è immediata. «Parlare di “olocausto”» ha sottolineato Bruno Bettelheim, che ha provato direttamente l’orrore dei campi e che in tarda età si è suicidato, come è accaduto a tanti altri superstiti «ci consente di padroneggiarlo intellettualmente laddove i fatti nudi e crudi, se fossero chiamati con il loro nome consueto, ci sopraffarebbero emotivamente: perché si è trattato di una catastrofe che supera ogni comprensione, che supera i limiti della nostra immaginazione, a meno che non ci obblighiamo a estendere tali limiti fino ad abbracciare questi terribili eventi.»

I nazisti stessi parlarono di «soluzione finale».

Olocausto è una parola che si trova nei Salmi e che, attraverso associazioni consce e inconsce, crea connessioni improprie e addirittura false tra un perverso assassinio di massa e antichi riti religiosi. Hanno ragione Bettelheim e tutti coloro che sostengono che le vittime di quel delirio omicida non possono né debbono essere chiamate martiri, perché quelle sventurate vittime non hanno patito né per ideali né per fede, ma a causa della colpa di essere nati e sono state vittime di un impulso omicida e di pulsioni distruttive. Pensare che il loro nefando assassinio di massa possa avere un qualche significato recondito significa cercare nella loro morte un benché minimo motivo di sollievo. La rottura del linguaggio non è un fatto accidentale: è una componente essenziale del carattere radicalmente negativo dell’avvenimento e non si può né si deve cercare consolazione nel linguaggio.

L’unicità di quello sterminio nella storia umana non deve far dimenticare che si è verificato in un quadro altrettanto terribile di morte e di distruzione e che, prima e dopo questa catastrofe, altri stermini hanno colpito altri popoli. La Shoah, lo sterminio, ha colpito non solo milioni di ebrei, ma anche moltitudini di zingari, di omosessuali, di handicappati, di malati mentali, di antinazisti, di innocenti civili di numerose popolazioni europee. In questo scenario di morte e di distruzione gli ebrei sono i principali destinatari di un messaggio di odio estremo e di annientamento. Dire che è stato unico non significa affermare una categoria di normalizzazione né di fissazione ossessiva, né un pretesto per dare forma a una concezione giudeocentrica della storia o per creare le premesse di un culto della memoria storica che finisca per mitizzare il genocidio antiebraico; non significa rivendicare uno statuto particolare nella scala dell’orrore. Significa che dopo Auschwitz l’umanità deve riflettere senza fine e capire che si tratta di qualcosa che, pur sfuggendo alla comprensione di uomini normali, ha le sue radici in quella «logica aberrante» che spesso in tante parti del mondo ha generato e genera massacri efferati.

«La specificità della Shoah» ha scritto lo psicoanalista Antonio Alberto Semi «è data dal contesto – l’Europa, la Germania, la prima metà del XX secolo – che sembrava escludere questa possibilità. E la specificità del trauma della Shoah sta nell’assenza della sua iscrizione nelle possibilità culturali note. Esso è stato un trauma doppiamente inelaborabile, in quanto neppure previsto dalla rete culturale. Si sono dovute creare nuove parole per descrivere ciò che è accaduto nella Shoah

Nelle prime rudimentali camere a gas furono anzitutto sterminati gli handicappati fisici e mentali. Questo massacro provocò una tale indignazione negli ambienti religiosi e tra la gente comune che il potere fu costretto a sospendere il programma di eugenetica. Il regime, pur totalitario, venne a patti con l’opinione pubblica.

«Contro la persecuzione degli ebrei, contro l’arbitraria uccisione di massa» ha scritto Bruno Bettelheim «e neppure contro il progetto di sterminio del popolo ebraico si formò un simile movimento di opinione pubblica; anzi. In verità, la stragrande maggioranza del popolo tedesco sembrava approvare la persecuzione degli ebrei, o comunque sancirla con atti di omissione, a parte poche isolate voci levatesi a contrastarla. Ma fu facile per il regime soffocare queste voci, perché non avevano seguito.» Anni di massiccia propaganda antisemita avevano avuto un effetto perverso.

La Shoah ha posto alla fede, secondo Leon Ashkenazi, due importanti questioni. La prima alla coscienza universale: come mai un simile avvenimento ha potuto prodursi nel seno e dal seno della civiltà universale illuminata e umanista? La seconda alla coscienza ebraica: come è stato possibile, al di là delle responsabilità dei nazisti o della civiltà occidentale nel suo insieme, che tali avvenimenti si siano abbattuti sul popolo ebraico?

Capire, cercare di riflettere è difficile, terribilmente difficile. Ogni tentativo di guardare dentro quel baratro di abiezione procura una sensazione di annichilimento: delle emozioni, delle passioni, dell’intelletto. Trovare una spiegazione una volta per tutte sarebbe comodo perché ci permetterebbe di chiudere quel capitolo, di darci una ragione, di smettere di soffrire. Chi non ricorda il proprio passato è destinato a riviverlo, ha scritto George Santayana.

Nel caso della Shoah c’è un modo solo per ricordare veramente: cercare di capire l’inconcepibile, ma non concludere mai la ricerca e, nello stesso tempo, agire prima che accada, perché a nessuno accada mai più. Se una teoria per cercare di spiegare quel momento storico è un’aspirazione, l’unica vera catarsi può essere data dall’azione, dalla lotta contro la sopraffazione prima che divenga totalitarismo.

«La memoria umana» ha scritto Primo Levi ne I sommersi e i salvati «è uno strumento meraviglioso, ma fallace. È questa una verità logora, nota non solo agli psicologi, ma anche a chiunque abbia posto attenzione al comportamento di chi lo circonda, o al suo stesso comportamento. I ricordi che giacciono in noi non sono incisi nella pietra; non solo tendono a cancellarsi, ma spesso si modificano, o addirittura si accrescono, incorporando lineamenti estranei.»

Nel corso dell’evacuazione del ghetto di Riga nel dicembre 1941 i nazisti colpirono Simon Dubnov, illustre storico ebreo. Aveva 81 anni. Si dice che le sue ultime parole pronunciate in yiddish siano state: «Schreibt und farschreibt» (Scrivete e registrate).

Yad v’shem: questo è il nome del luogo dedicato allo sterminio in Israele ed è anche un’espressione biblica che indica la promessa del Signore di dare ai giusti che non hanno figli (cioè che non hanno chi li commemori) una commemorazione, un nome che si tramandi in eterno.

Un giorno la generazione dei testimoni, di Primo Levi, di Elie Wiesel, scomparirà, e allora solo se la memoria storica sarà sufficientemente storica per resistere alla scomparsa dei testimoni, e se esisteranno strumenti concettuali adeguati a una ricerca senza fine, sarà possibile esorcizzare simili fantasmi.

La Shoah non è un annientamento ebraico, ma un annientamento dell’intera umanità e deve servire come punto terribile di riferimento delle coscienze. Ecco perché il tentativo di alcuni storici di normalizzare l’eccezione deve essere guardato con rispetto, ma con grande diffidenza e magari messo in discussione: incorporare nella storia generale quel punto singolare utilizzando categorie, tecniche di ricerca, analisi consuete, fermerebbe prima la riflessione e poi fermerebbe il ricordo.

Auschwitz è stata una novità assoluta. Non si tratta di un evento che è possibile capire in termini ordinari e rituali: sarebbe riduttivo. Numerosi storici hanno cercato di interpretare lo sterminio alla luce della sua modernità perché per la prima volta nella storia un complesso sistema amministrativo, burocratico e industriale è stato usato per eliminare un popolo in un modo pianificato, organizzato. È tutto vero, ma non è tutto: è stato qualcosa di più e di diverso.

Si è anche pensato che lo sterminio perpetrato dai nazisti sia stato una interruzione del corso normale della storia, una formazione cancerosa cresciuta nel corpo della società civile, una follia momentanea nell’ambito di una storia di saggezza; una grande tragedia che ha colpito solo gli ebrei e quindi può suscitare rammarico e commiserazione, magari sensi di colpa, ma non un messaggio perenne, non un ammonimento contro l’odio. Sono rimasti alcuni testimoni con i loro numeri segnati sul braccio, con il loro animo pieno di fantasmi e di ricordi, e basta. La cifra di sei milioni prima ha suscitato impressione e disgusto, poi, per via della ripetizione e di qualche abuso retorico, ha perso efficacia, si è spersonalizzata e consumata via via nell’immaginario collettivo così denso di messaggi contraddittori della società contemporanea. Oggi l’Enciclopedia dell’Olocausto pubblicata da Israel Gutman ha stimato le vittime in 5.800.000 persone.

Anche da parte ebraica in qualche caso si è perduto il senso di un messaggio forte, inequivocabilmente unico: chi ha visto negli arabi dei nuovi nazisti ha fatto una tragica confusione che non gli ha permesso di discernere con chiarezza il senso di situazioni storiche profondamente differenti. Le stesse polemiche sul Convento del Carmelo ad Auschwitz hanno spinto a pensare che si potesse o si dovesse ridurre tutto a una memoria solamente e tenacemente ebraica. Togliere il simbolo della Shoah agli ebrei nel tentativo di cristianizzarlo è ingiusto, ma è anche ingiusto impedire all’intera umanità di tenere conto di questo ammonimento, di considerarlo una ferita per tutti gli uomini anziché la conclusione di un odio secolare contro pochi.

Se la ricerca non deve aver fine, Auschwitz deve restare assolutamente immobile, statico nel tempo come luogo di ricordo, patrimonio di tutta l’umanità, sì che ogni uomo ne sia partecipe. Hiroshima non è un evento che interessa solo i giapponesi. Lo sterminio di masse innocenti non è un trauma privato di una sola nazione; l’immaginario collettivo dell’intera società ne resta sconvolto. Come trauma effettivamente ha perso i contorni della realtà, è diventato un tragico archetipo senza sfumature: le vittime erano il bene e i carnefici il male assoluto. Hannah Arendt fu messa a tacere quando osò dire che le vittime di un regime disumano potrebbero aver perso parte della loro umanità lungo la strada verso l’inferno.

Elie Wiesel ha detto che «non si può spiegare Auschwitz perché l’Olocausto trascende la storia». Isaac Deutscher si è chiesto se tra mille anni sarà possibile comprendere Hitler, Auschwitz, Majdanek e Treblinka e poi ha spiegato che al contrario la posterità sarà ancora più disarmata di noi.

Non vi è dubbio, come ha notato Saul Friedländer, che nella mescolanza di modernità e di arcaismo, di società industriale e di mitologia romantica, di razionalità burocratica e di delirio teutonico, che è rintracciabile nel sistema nazista e nella sua ideologia antisemita, si trovano contraddizioni che non è facile ridurre a sintesi coerenti.

Gli storici cercano spiegazioni nella storia, ma in questo caso non possono bastare. Non ha senso ridurre tutto quello che è accaduto in Germania a un’emanazione della volontà di potenza di Hitler, come hanno sostenuto gli storici «intenzionalisti». Non ha senso considerare la Shoah come il risultato inevitabile di una radicalizzazione progressiva del sistema e attribuire a Hitler la responsabilità di averne coperto a posteriori gli aspetti aberranti, come vorrebbero alcuni storici «funzionalisti». Entrambi hanno cercato di capire la questione e di chiuderla in una teoria storica. Il loro merito è quello di aver sottolineato alcuni punti di grande interesse in una questione così complessa da non prestarsi a riduzioni unilaterali, ma la pretesa di aver capito tutto non è accettabile.

La Shoah come il compimento di un programma? oppure come realizzazione di una congiuntura particolare e per taluni aspetti inattesa? Sono alternative che chiudono la ricerca, che invece deve continuare.

Raul Hilberg, autore della monumentale La distruzione degli ebrei d’Europa, accettando il metodo degli storici intenzionalisti ha interpretato lo sterminio come la conclusione logica di millecinquecento anni di persecuzioni antiebraiche. Egli ritiene che il genocidio sia stato la conclusione di un processo ineluttabile, progressivo e lineare. Nella politica antisemita dei nazisti ha distinto quattro fasi: definizione degli ebrei in base a una rigorosa legislazione; espropriazione di ogni loro bene; concentrazione nei ghetti orientali; sterminio. L’annientamento ha avuto due momenti: il primo dovuto all’opera degli Einsatzgruppen dall’estate 1941 alla primavera 1942, il secondo dovuto al funzionamento dei campi e delle camere a gas. Gli ultimi capitoli del libro di Hilberg prendono in considerazione le strutture complesse dello sterminio secondo una visione funzionalista: nell’analisi del funzionamento del partito, della burocrazia, dell’esercito, dell’economia, lo storico decompone la macchina del crimine in mille dettagli, ne distingue le scansioni, ne mette in evidenza la dinamica profonda.

Arno J. Mayer invece, in La soluzione finale nella storia, affronta il problema in una prospettiva generale: non più il genocidio isolato dal contesto, ma inserito nel quadro di una guerra terribile e perdente. Egli sottolinea l’importanza dell’antisemitismo, ma inquadrato in una prospettiva più ampia in cui è possibile trovare altri elementi culturali e politici non di secondo piano: l’idea di espansione a Est, il darwinismo sociale, l’antimarxismo. Fu questa miscela, secondo Mayer, a rendere la politica nazista tanto radicale da portare ad Auschwitz.

Gli itinerari culturali di questi due storici mettono in evidenza le dinamiche interne ed esterne del nazismo, le sue caratteristiche, e offrono importanti elementi per una valutazione globale del genocidio, tenendo conto della storia dell’antisemitismo e delle situazioni internazionali all’interno delle quali si è sviluppata la guerra. Queste due posizioni intellettuali hanno messo in evidenza che lo sterminio è stato il frutto perverso di condizioni eccezionali che hanno favorito l’accumulo di un potenziale distruttivo enorme.

Auschwitz ha dimostrato che lo sterminio di massa è possibile, ha mostrato che può accadere ciò che non è pensabile. Di questa ossessione l’umanità deve avere coscienza perché, anche se non è detto che la storia debba ripetersi, la memoria collettiva della società non può perdere il senso di quel trauma e scaricarlo sugli ebrei: non solo sarebbe troppo comodo, ma anche pericoloso, e non tanto per gli ebrei quanto per l’intera società che ha voluto rimuovere la coscienza. L’autoassoluzione, cioè la perdita della memoria sociale e l’amnesia, in questo caso sarebbe diabolica perché forse domani non potremmo riconoscere i nuovi pericoli, mentre non c’è dubbio che alle aberrazioni dei sistemi totalitari è più facile resistere prima piuttosto che dopo: prima è possibile la resistenza del gruppo, dopo c’è il sacrificio dell’individuo, il suo eroismo, il suo annichilimento. Lo sterminio è stato possibile perché il regime che lo ha provocato era totalitario: la memoria dei superstiti deve essere il vaccino contro queste tentazioni politiche di cui è noto l’inizio e non la fine.

Sarebbe un errore sterilizzare nella coscienza popolare quello che è accaduto. Di fronte ai grandi stravolgimenti della storia dapprima si cerca di capire, si cercano testimonianze su Hitler e sul suo regime, si approfondiscono le radici della storia tedesca e della sua cultura. Alla fine si tende a circoscrivere la responsabilità morale dei nazisti nello spazio e nel tempo, nel tentativo di cauterizzare la ferita che il nazismo ha inflitto alla civiltà occidentale, quasi che la ricerca possa avere conclusione una volta accertata la responsabilità morale e materiale dei fatti: luogo circoscritto, tempo limitato, non se ne parla più. L’idea che i responsabili rappresentino una malattia, una ferita della nostra civiltà, e non un prodotto possibile di una società sempre in pericolo, diventa la consolazione di un’inerzia morale: sparisce ogni asprezza, i campi di sterminio sono trasformati in qualcosa che può accadere come un evento naturale contro cui è inutile cercare di tormentarsi. Il modo di agire del mondo non cambia.

Henry Feingold ha notato che la «soluzione finale» segna il bivio dove il sistema industriale europeo ha deviato dalla propria strada; invece di migliorare le condizioni di vita, come era nelle speranze originarie dell’Illuminismo, ha cominciato a distruggere se stesso. Auschwitz fu anche un’estensione del moderno sistema di fabbrica. Invece di produrre merci, sfornava la morte come prodotto finale, in quantità giornaliere accuratamente riportate sul rendiconto dei dirigenti. Le ciminiere, simbolo della moderna fabbrica, sputavano l’acre fumo prodotto dalla combustione della carne umana. La rete ferroviaria d’Europa, perfettamente organizzata, trasportava alle fabbriche un nuovo genere di materia prima. Nelle camere a gas le vittime respiravano vapori tossici generati da pastiglie di acido prussico prodotte dall’avanzata industria chimica tedesca. Gli ingegneri progettavano i crematori, gli amministratori creavano un sistema burocratico funzionante con una efficienza che nazioni più arretrate avrebbero invidiato. Lo stesso progetto complessivo era un riflesso di una mentalità che chiameremo patologia scientifica, per non doverla chiamare moderno spirito scientifico.

Richard L. Rubenstein, un filosofo ebreo, ha scritto che il mondo dei campi di sterminio e la società da esso generata rivelano il lato sempre più oscuro della civiltà ebraico-cristiana, una civiltà che ha prodotto schiavitù, guerre, sfruttamento e campi di sterminio, ma anche alti ideali religiosi, grande arte e musica mirabile. La sua riflessione lo porta a pensare che è un errore credere che civiltà e crudeltà siano in antitesi, e che oggi la crudeltà, come molti altri aspetti del nostro mondo, sia amministrata in modo assai più efficiente che nel passato: essa non ha cessato e non cesserà di esistere; la stessa idea di soluzione finale è il prodotto di una mentalità burocratica moderna.

L’avvocato Servatius, difensore di Eichmann, ha dichiarato durante il processo che il potere genera il diritto e che l’ex SS non fece nulla di diverso dai vincitori.

È risaputo che l’ipotesi che i capi nazisti fossero criminali impazziti, sadici pazzi, soggetti asociali, non ha trovato conferma nella realtà dei fatti. In base a criteri convenzionali non oltre il 10% delle SS poteva essere considerato anormale. Alcune testimonianze di sopravvissuti sembrano confermare che non sempre si sono imbattuti in belve assetate di sangue e che a molti gli stessi prigionieri riconoscevano una coerenza di comportamento in una situazione del tutto speciale. È moralmente inquietante pensare che coloro che parteciparono ad azioni criminali sistematiche siano stati individui pressoché normali, che in molti casi provavano avversione nell’uccidere e che nonostante questo, presi in un meccanismo infernale, lo abbiano fatto.

Hilberg racconta che coloro che presero parte alla Shoah non erano tedeschi selezionati. Si sa che la natura stessa della pianificazione amministrativa, della struttura giurisdizionale e del sistema di contabilità non implicava una particolare selezione e formazione del personale. Qualsiasi agente di polizia poteva essere posto a guardia di un ghetto o di un treno; tutti gli avvocati che lavoravano presso l’Ufficio centrale per la sicurezza del Reich erano ritenuti in grado di assumere il comando di unità mobili incaricate delle uccisioni; ogni esperto finanziario dell’Ufficio economico amministrativo centrale era considerato adatto a prestare servizio in un campo di sterminio. In altre parole: l’esecuzione di tutte le operazioni necessarie veniva affidata al personale che in quel momento era disponibile.

Resta difficile capire come fu possibile trasformare normali tedeschi in esecutori di massa. Non c’è dubbio che le inibizioni morali che impediscono di commettere atrocità possono venire sbloccate se la violenza è autorizzata, se è routine e le vittime vengono disumanizzate grazie a definizioni di carattere ideologico. Routine e autorizzazione sono due azioni familiari e trovano espressione in quei principi di azione razionale che hanno dato origine alle istituzioni contemporanee.

Le SS, dice Hilberg, erano figli della nostra epoca. Ecco il punto centrale della questione ogni volta che riflettiamo sul significato della civiltà occidentale: se essa ha camminato più in fretta della nostra capacità di comprensione, non possiamo ritenere di avere pienamente sotto controllo il funzionamento delle nostre istituzioni sociali, delle nostre strutture burocratiche o della nostra tecnologia. Joseph Weizenbaum, esperto di informatica, dice che la possibilità di molti olocausti è persino aumentata con l’informatica.

Un’anonima SS disse a Primo Levi: «Hier ist kein warum» (Qui non c’è nessun perché). È proprio per questo che, dopo Auschwitz, i perché non possono mai cessare di esistere.