XXIV

Ebrei e cristiani ai nostri giorni

Il processo di emancipazione delle comunità ebraiche in Italia fu messo in moto dalle armate di Napoleone, alla fine del XVIII secolo, un po’ ovunque tranne che a Roma. Pio VI era morto in Francia e Pio VII, eletto a Venezia nel 1800, tornò a Roma, confermò l’amministrazione precedente e continuò a governare il suo ghetto come se nulla fosse accaduto. Degli ottomila ebrei romani ne rimanevano solo tremila; gli altri erano emigrati in Stati più accoglienti.

Nel 1808 anche Pio VII fu portato a Fontainebleau, ma la libertà del ghetto durò solo un breve periodo. Finita l’epoca napoleonica, il papa ritornò, ripristinò la chiusura delle porte del quartiere ebraico e stabilì che il pagamento delle tasse doveva essere confermato con una retroattività di sette anni a favore degli istituti dei catecumeni e dei neofiti. Vennero chiusi anche i negozi fuori del ghetto e gli studenti ebrei furono espulsi dall’università; inoltre, insensibile all’evoluzione dei tempi, il papa ordinò che venissero riprese le prediche coatte e riconfermò ai gesuiti e all’Inquisizione il ruolo consueto. Per impedire che il ghetto si svuotasse fu fissata una multa per coloro che avessero voluto andarsene. Le pressioni per ottenere le conversioni aumentarono: 116 uomini e 80 donne giunti da varie parti tra il 1813 e il 1869 furono battezzati a Roma, per conferire al gesto grande solennità e clamore.

Leone XII (1823-1829) mantenne una linea conservatrice: confermò gli antichi divieti relativi ai servi cristiani e le prediche coatte. Nel 1827 ribadì l’Editto sopra gli Ebrei del 1775, che conteneva le regole cui doveva conformarsi la vita privata degli ebrei. Alla sua morte gli ebrei abbatterono le porte del ghetto, dove su tremilacinquecento abitanti almeno milleseicento erano in condizioni di indigenza e trecento i poveri bisognosi.

L’elezione di Pio IX mutò la situazione: nel 1846 egli abolì l’umiliante omaggio del primo giorno di carnevale, soppresse le prediche coatte e nell’aprile del 1848 ordinò che le porte del ghetto fossero definitivamente smantellate. Nel novembre scoppiò la rivoluzione romana, che durò fino al luglio dell’anno successivo quando il papa tornò a Roma con un desiderio di rivincita contro tutti. Obbligò gli ebrei a tornare nel ghetto e rimise in uso le discriminazioni all’università, i limiti relativi ai domestici cristiani e agli spostamenti nello Stato Pontificio. Crebbero i casi di conversione coatta, alcuni clamorosi come quelli del piccolo Edgardo Mortara nel 1858, di Graziosa Cavagli nel 1863, di Giuseppe Cohen nel 1864.

All’inizio del 1870 gli ebrei di Roma inviarono al papa una supplica per fargli conoscere la triste condizione in cui si trovavano: «C’è pochissima aria e luce e in qualche via il sole non ci batte che di rado, o mai… dateci ascolto, Santo Padre, e i figli di Israele conosceranno gli effetti della Vostra generosità già legati al Vostro Nome immortale».

Le truppe del generale Cadorna entrarono a Roma dalla breccia di Porta Pia il 20 settembre 1870. Il 13 ottobre Vittorio Emanuele II eliminò finalmente ogni disuguaglianza civile e politica tra i cittadini romani.

Numerosi storici hanno convenzionalmente considerato il 1870 come l’inizio di un ciclo di antisemitismo politico di forma nuova in Europa, che si concluse nel 1914. In Italia però il sentimento di ostilità contro gli ebrei non si manifestò in modo virulento. La comunità italiana era tra le più assimilate fra quelle europee: gli ebrei italiani non si distinguevano in nulla dai loro compatrioti cattolici. L’odio nei confronti degli ebrei e la loro assimilazione nella società non sono sempre correlati; anzi si è potuto notare in alcune situazioni che una forte assimilazione non è stata un riparo dal tenace pregiudizio, fosse esso antigiudaico (di tipo religioso) o antisemita (di tipo razziale). Addirittura gli antisemiti moderni videro, nel desiderio degli ebrei di perdere la loro identità, l’impossibilità di difendere un giudaismo giudicato negativamente e una conferma alle proprie teorie.

L’assenza di un forte pregiudizio contro gli ebrei in Italia ha fatto nascere interrogativi in molti storici, quasi che l’avversione per gli ebrei dovesse essere un obbligo e la sua assenza richiedesse una giustificazione. Antonio Gramsci osservò che entrambi, ebrei e non ebrei, professarono nel periodo risorgimentale lo stesso nazionalismo e questo comune sentimento generò un rapporto di buon vicinato. Renzo De Felice ha visto nella debolezza numerica ed economica della comunità italiana il motivo di una totale mancanza di risentimento da parte della maggioranza dei non ebrei.

Tra il 1881 e il 1911 la popolazione ebraica non crebbe molto: da 34.000 a 40.000. Nella maggior parte era povera, anche se non mancavano eccezioni: alcune banche e importanti compagnie di assicurazione erano guidate da finanzieri ebrei. Si segnala una partecipazione ebraica forte, in rapporto all’esiguità del numero, nelle professioni liberali, nelle carriere accademiche, nel mondo dell’editoria e del giornalismo; furono ebrei alcuni proprietari di giornali, direttori e giornalisti, e editori come Treves, Bemporad, Lattes, Formiggini, Voghera.

È probabile che l’argine al razzismo in Italia sia stata la Chiesa cattolica: l’etica cristiana è autenticamente antirazzista e inoltre il mondo cristiano ha sempre manifestato una forte predisposizione a convertire coloro che erano al di fuori del suo grembo, ma non a distruggerli: il razzismo biologico, oltre che estraneo, si opponeva al suo desiderio di salvare le anime con il battesimo.

Se poi è vero che la violenza dell’antisemitismo dell’Europa centrale fu il frutto di una reazione paranoica al senso di insicurezza provocato dall’esistenza in Austria e in Germania di vaste minoranze nazionali, nell’Italia liberale questi turbamenti non ebbero motivo di manifestarsi e per questo l’antigiudaismo assunse connotati meno gravi e diventò antisemitismo solo quando il nostro paese fu infettato dall’hitlerismo.

Le accuse dei liberali erano banali: l’ebreo venne visto come un perturbatore dello Stato e come un elemento di dubbia fedeltà. Qualche caso fu clamoroso: il deputato Francesco Pasqualigo di Lonigo nell’estate 1873 mandò al re un telegramma chiedendogli di impedire che Isacco Pesaro Maurogonato diventasse ministro del Regno. In sé l’iniziativa non ebbe seguito, mentre fu clamorosa la reazione della stampa. Gli schieramenti furono trasversali: fra i sostenitori e gli oppositori di Pesaro Maurogonato era possibile trovare vicini liberali e reazionari. La polemica proseguì per settimane e vi parteciparono con vibranti interventi numerose personalità politiche e intellettuali di livello nazionale. È singolare che alcuni dei sostenitori di Maurogonato, che passavano per filoebrei, sostenessero che gli ebrei dovevano assimilarsi facendo matrimoni misti.

Anche i casi di conversioni coatte ricordati sopra, che non avrebbero potuto accadere senza il consenso delle autorità ecclesiastiche, pur nella loro straordinaria gravità, possono forse essere interpretati come un residuo di comportamenti autoritari di tipo medievale di alcuni gruppi piuttosto che il frutto di una linea nuova nel mondo cristiano. Così le intense devozioni popolari di Marostica, di Trento e di Marina di Massa, dove oggetto di culto erano piccoli martiri considerati vittime di omicidi rituali, erano arcaiche manifestazioni di un antigiudaismo tenace. Ancora nell’Ottocento e fors’anche nel Novecento accadde con una singolare frequenza che suore e preti zelanti impartissero battesimi a malati ebrei in punto di morte senza il loro consenso o dei parenti. Questi comportamenti avevano spesso conseguenze grottesche, con contese per il possesso del cadavere.

Le manifestazioni di antigiudaismo furono numerose dal 1880 al 1914, a opera di clericali. La rivista «Civiltà cattolica», che aveva un carattere semiufficiale dal momento che le bozze venivano sottoposte all’approvazione del pontefice, pubblicò centinaia di articoli contro gli ebrei tra il 1881 e il 1903, e numerose recensioni di libri antiebraici e antisemitici fino al 1914. In particolare nel 1881-1882 Giuseppe Oreglia di Santo Stefano, uno dei fondatori della rivista e fratello di un cardinale, scrisse vari articoli sull’omicidio rituale, suscitando aspre reazioni anche nel mondo cristiano, sì che persino il cardinale Henry Manning, di passaggio a Roma, pare abbia protestato vivacemente. In realtà questi scritti miravano a un attacco politico contro gli ebrei considerati manovratori di complotti e infine contro la società liberale e la modernità, considerata corrosiva e capace di cancellare i valori morali cristiani.

Qualche caso giudiziario clamoroso si era verificato anche in Italia nel corso dell’Ottocento: ad Acqui nel 1848 Bonaiut Ottolenghi era stato accusato di aver rapito un bimbo per cavargli del sangue e a Rovigo nel 1855 Caliman Ravenna era stato protagonista di un processo clamoroso per le stesse accuse. Che gli imputati fossero assolti non era molto importante per i giornalisti e i preti che continuavano a far rimbalzare sulla stampa notizie velenose; le loro accuse, come spiegarono gli stessi autori dichiarando di non avere avuto intenzioni antigiudaiche o antisemite, miravano a impedire con questi scandali una eccessiva familiarità tra ebrei e cristiani e a fornire a questi ultimi mezzi di autodifesa contro gli ebrei. Queste non limpide posizioni ideologiche rivelavano una profonda insicurezza e un disagio nel mondo cattolico che doveva confrontarsi con le trasformazioni di un paese di cui non sempre il clero riusciva a tenere il passo.

I tre celebri processi di Tisza-Eszlàr nel 1882, di Cleves in Renania nel 1892 e di Kiev nel 1913 permisero ai sostenitori delle accuse di omicidio rituale di avere l’aiuto di «Civiltà cattolica», che pareva molto affezionata a queste problematiche, e di alcuni giornali di provincia che riprendevano le autorevoli tesi del giornale cattolico.

Le comunità ebraiche risposero agli attacchi diffamatori in modo polemico, ma senza particolare forza propagandistica: dal 1888 al 1892 il giornale «Il Vessillo Israelitico» pubblicò pareri di esponenti di primo piano della politica e della cultura italiana favorevoli agli ebrei. Nel 1884 apparve Pro Judaeis di un certo Guidetti, pseudonimo di un Treves, che cercò di spiegare ai gesuiti che avevano sbagliato nemico e che erano i radicali e non gli ebrei che dovevano essere attaccati. Padre Giuseppe Oreglia rispose a Guidetti spiegando che l’ipotesi di far fare le analisi chimiche del pane azzimo per verificare che non contenesse sangue cristiano non era ammissibile perché eventuali tracce sarebbero scomparse nella cottura. In risposta alle critiche di un superiore, Oreglia scrisse che il suo scopo era stato quello «di alienare almeno alcuni da quella sì pericolosa famigliarità e stima e domestichezza con gli ebrei che è tanto vietata dalla Chiesa».

«L’Osservatore Cattolico», durante il processo Dreyfus, dedicò numerosi articoli alla polemica antiebraica, con la tesi che non essendo più possibile un secondo deicidio, gli omicidi rituali dovevano essere considerati un sostitutivo del primo deicidio. Dal novembre 1891 al novembre 1892 il giornale si lanciò in una campagna che aveva lo scopo di fornire «più materiale che una biblioteca su questa fatale questione ebrea». Campione della crociata fu don Davide Albertario, il quale sostenne che gli ebrei, attraverso il sangue dei cristiani, cercavano la redenzione e commettevano deicidio una seconda volta in quanto «Christianus alter Christus est».

«Civiltà cattolica» in realtà, pur non trascurando di attaccare in modo pesante gli ebrei giudicati eterni forestieri, capaci di omicidio rituale e di altre nefandezze, non si associò mai in modo esplicito a concezioni antisemitiche di tipo razziale e prese le distanze dalle manifestazioni violente che avevano visto ancora una volta in Europa gli ebrei come vittime. Non negò comprensione per i motivi che potevano spingere alla violenza verso i deicidi, ma riteneva che con gli ebrei occorreva comportarsi come con la peste: non la si poteva distruggere, ma si poteva circoscrivere. Occorreva puntare sull’assimilazione degli ebrei, sulla perdita della loro identità e sulla loro conversione.

I nemici nostrani degli ebrei, gli Oreglia, gli Albertario, non arrivarono a competere con gli antisemiti tedeschi, austriaci o francesi, del tipo di Rohling, Drumont o Lueger, anche perché le campagne clericali non ebbero particolari effetti dirompenti e furono sostanzialmente inefficaci. Esse si svilupparono nei momenti di conflitto tra la Chiesa e lo Stato unitario, o in occasione di qualche campagna elettorale quando si ricorreva a tutto pur di conquistare gli elettori. L’unica preoccupazione degli ambienti clericali era di evitare che gli ebrei potessero influenzare la popolazione cristiana e mettere in discussione l’autorità della Chiesa.

I sostenitori italiani di queste calunnie erano evidentemente interessati più a rafforzare la comunità cristiana che a minacciare i loro compatrioti ebrei, e preferivano prendersela con il fantasma ebraico delle regole talmudiche, lasciando liberi gli ebrei reali. Anche nel nostro paese gli ebrei furono visti come simbolo della modernità, di quel cambiamento del mondo che metteva paura, senza che ciò però conducesse a conseguenze negative come in Germania. Le preoccupazioni contro radicali e massoni spingevano la Chiesa a una polemica di attacco per nascondere le difficoltà del momento; gli ambienti clericali temevano la laicizzazione delle scuole e soffrivano per la situazione di conflitto che opponeva il mondo cattolico alle forze liberali e socialiste che emergevano nella società civile.

«Civiltà cattolica» non attaccò solo gli ebrei, ma si accanì contro liberali e massoni e fece dell’ebreo il capro espiatorio delle difficoltà di un cattolicesimo assediato. La connessione ebrei-massoni, che era già stata evocata a proposito delle rivolte del 1848, tornò in auge negli anni successivi alla Humanum genus, l’enciclica di Leone XIII del 1884. In seguito gli ambienti clericali arrivarono a vedere nell’organizzazione massonica l’espressione di un complotto ordito dagli ebrei per penetrare nel mondo del giornalismo, della scuola e della politica. Nel 1896 il gesuita G.C. Franco dalle colonne di «Civiltà cattolica» accusò le logge giudeomassoniche di adorare il demonio. L’accostamento ebrei-massoneria, al di là di strumentalizzazioni fantasiose, non era completamente sbagliato: entrambi, giudei e massoni, si muovevano su posizioni liberali e laiche. Tra Ottocento e Novecento a Torino vi furono illustri ebrei massoni, come Cesare Goldmann e Giuseppe Jona. A Roma ebreo e massone fu il sindaco Ernesto Nathan, che resse l’amministrazione della città dal 1907 al 1914.

Lo storico Jacob Katz ha visto nella massoneria un grande canale di integrazione degli ebrei nella società europea e l’occasione per gli ebrei non più religiosi di avvicinarsi a una religione laica. La lotta politica favorì le strumentalizzazioni, soprattutto perché la paura dell’ebreo era radicata nell’immaginario cristiano nutrito di secoli di propaganda religiosa e perché, per la prima volta, gli ebrei erano apparsi sulla scena politica con diritti uguali a quelli degli altri cittadini. Si può dunque concludere che dal 1873 al 1896 gli scoppi di antigiudaismo clericale trovarono connessioni profonde con le aspre campagne antimassoniche messe in atto dalla Chiesa: l’attacco agli ebrei rivelava il disagio di una Chiesa che, temendo una progressiva scristianizzazione della società, reagiva in modo scomposto facendo ricorso a un repertorio desueto contro gli ebrei, ben lontano dalle manifestazioni razziste e antisemite tedesche o francesi.

Quando le spinte liberali e laiche, all’inizio del Novecento, si affievolirono, anche gli attacchi contro gli ebrei persero gran parte della loro virulenza e intensità. L’elezione di Giuseppe Sarto al soglio pontificio contribuì a migliorare l’atmosfera perché il nuovo papa aveva legami di amicizia con molti ebrei, alcuni dei quali eminenti uomini politici. Inoltre, alla vigilia della Prima guerra mondiale, alcuni esponenti politici ebrei di orientamento liberal-moderato o conservatore mostrarono molta comprensione nei confronti della Chiesa sui problemi che aveva con lo Stato. «Quali che siano i motivi di queste tendenze politiche» ha notato Andrew Canepa «resta il fatto che molti personaggi pubblici ebrei adottarono sui problemi della Chiesa la politica conciliatrice della destra moderata, dal quasi unanime appoggio dei deputati ebrei alla Legge delle guarentigie fino alla proposta di Luigi Luzzatti nel 1909 di vedere rappresentati nel Consiglio superiore del lavoro i sindacati cattolici.»

Nel dopoguerra si registra un mutamento di clima: alla polemica antiebraica di matrice religiosa si sostituisce un radicalismo di tipo antisemita, che si ispira non solo a idee razziste diffuse in tutta Europa, ma anche a una nuova propaganda ispirata ai famosi Protocolli dei Savi di Sion. Inoltre, dalla lotta tra modernisti e antimodernisti interna al mondo cristiano si sviluppano gruppi integristi che ebbero esponenti di spicco in monsignor Benigni in Italia e monsignor Jouin in Francia, e non è un caso che siano stati loro i principali propagandisti de I Protocolli negli ambienti cristiani dei due paesi.

«Nella posizione integrista» ha scritto Renato Moro «venivano in realtà a intersecarsi i due diversi filoni del pensiero cattolico più radicalmente reazionario… Il quadro di lotta metafisica… tra Chiesa e antichiesa che ne scaturiva giungeva comunque a saldare la teoria stessa del complotto con la prospettiva apocalittica dell’avvento dell’Anticristo.»

Queste posizioni non potevano non coinvolgere gli ebrei e gettare una nuova ombra sul loro destino. Se nel 1921 il fascismo fu visto come un’espressione delle congiure ebraiche, appena un anno dopo, rassicurati, i seguaci di Benigni lo interpretarono in modo opposto e nel 1928 come una risposta alla congiura di forze cosmopolite, tutte anticristiane e antinazionali, guidate dagli ebrei. Gli integristi non esitarono ad accusare i popolari di filosemitismo: il povero don Sturzo si espose a questa accusa per aver festeggiato la festa «semita» dell’1 maggio. Quando don Benigni, nel 1927, scelse la rivista di Preziosi, «La Vita Italiana», per continuare la sua battaglia contro il criptocomunismo dei gesuiti e contro gli ebrei, si può ben dire che in Italia comparve una forma di antisemitismo cattolico: non più antigiudaismo e polemica religiosa, ma antisemitismo e teoria della razza.

Un nuovo problema nel frattempo era sorto a dividere ebrei e cristiani: il sionismo.

Il I Congresso sionista del 1897 a Basilea turbò il Vaticano. «Civiltà cattolica» scrisse tra l’altro: «Ecco trascorsi 1827 anni, da che si avverò alla lettera la predizione di Gesù di Nazareth, che Gerusalemme sarebbe stata distrutta… che i giudei sarebbero stati menati schiavi fra tutte le nazioni, e vi durerebbero dispersi fino alla consumazione dei tempi… Secondo le sacre pagine il popolo giudaico deve sempre sussistere disperso e vagabondo fra gli altri popoli, affinché non solo con il deposito delle scritture, ch’ei venera e tiene in serbo, ma ancora col suo stato medesimo renda testimonianza della fede di Cristo. Quanto poi al ricostruire una Gerusalemme che divenga centro del risorto Regno israelitico, va osservato come sia ciò contrario alla predizione del medesimo Cristo».

Alla vigilia del congresso si diffuse la notizia che Leone XIII sarebbe ricorso a una enciclica per far conoscere la propria posizione ostile al possesso dei Luoghi Santi da parte degli ebrei. Herzl non riuscì neanche a farsi ricevere dal nunzio di Vienna, anche se la Santa Sede smentì qualsiasi passo diplomatico in relazione al congresso sionista. Solo due anni dopo Herzl incontrò il nunzio Egidio Taliani per fargli sapere che gli ebrei non intendevano occupare i Luoghi Santi. Il prelato lo accolse con simpatia e gli confermò la buona disposizione della Santa Sede e, come annotò il capo sionista nei diari, gli disse che «se gli ebrei erano stati chiusi nei ghetti era solo per proteggerli dalla folla». «Ci sono state anche delle interruzioni in questa tradizione benevola, ho osservato» riferisce Herzl.

Nel III Congresso sionista del 1899 la questione di Gerusalemme fu accantonata. Convinto che l’appoggio al suo sogno da parte del papa fosse decisivo, Herzl cercò di incontrarlo. Dapprima fu ricevuto dal segretario di Stato Merry del Val, e Herzl ne ha lasciato testimonianza nei suoi diari. Il cardinale gli disse che, finché gli ebrei avessero negato la divinità di Cristo, la Chiesa non avrebbe potuto pronunciarsi in loro favore e prima di congedarlo aggiunse: «Certo, un ebreo che accetta il battesimo per convinzione è per me la persona ideale… Ma perché noi ci pronunciassimo in favore del popolo ebraico, come Ella desidera, bisognerebbe che esso si fosse convertito… altrimenti non vedo alcuna possibilità di prendere l’iniziativa».

Pio X ricevette Herzl pochi giorni dopo: «No, noi non possiamo favorire questo movimento. Non potremo impedire agli ebrei di andare a Gerusalemme, ma favorire non potremo mai. La terra di Gerusalemme, anche se non sempre sacra, è santificata dalla vita di Gesù. Io, come capo della Chiesa, non posso dirle altra cosa. Gli ebrei non hanno riconosciuto Nostro Signore, perciò non possiamo riconoscere il popolo ebraico». Nei venticinque minuti del colloquio il capo sionista cercò di far presente la dura condizione ebraica e che il suo scopo era quello di risolverla, non di creare problemi religiosi, ma il papa replicò: «Due casi sono possibili… O gli ebrei rimarranno attaccati alla loro antica fede… e allora essi negano la divinità di Gesù e noi non possiamo aiutarli. Oppure andranno lì senza religione, e allora meno che mai possiamo avere a che fare con loro. La fede ebraica è stata il fondamento della nostra, ma è stata sostituita dall’insegnamento di Cristo e noi non possiamo più riconoscerle alcuna esistenza».

La posizione del papato rimase immutata per molti anni. Nei nuovi contatti che nel 1917 Nahum Sokolow ebbe con i cardinali Pacelli e Gasparri il clima parve più costruttivo e non di netta preclusione. Sokolow nei suoi diari racconta di aver trovato interlocutori abili e preparati che lo avevano messo più volte in difficoltà. Pur preoccupato delle rivendicazioni del Vaticano, egli tuttavia scrisse a Weizmann che gli pareva ci fosse una disposizione nuova verso il sionismo.

Nell’incontro del maggio 1917 dello stesso Sokolow con Benedetto XV si parlò ancora dell’idea ebraica di creare un focolare in Palestina e del problema dei Luoghi Santi, definito dal papa «di straordinaria importanza». La sua raccomandazione era stata molto chiara: «La questione sarà risolta tra la Chiesa e le grandi Potenze. Voi dovete rispettare questi diritti in tutta la loro portata». Sokolow non mancò di accettare l’impostazione vaticana, anche se non poteva non aver visto in essa da un lato l’esplicita esclusione degli ebrei come interlocutori e dall’altro il desiderio della Santa Sede di ottenere l’internazionalizzazione di ampie zone della Palestina, ma chiese al papa tutto il suo appoggio morale. «Penso che saremo buoni vicini» gli rispose Benedetto XV.

La dichiarazione Balfour, che impegnava la Gran Bretagna a favorire la creazione di una national home, e la conquista inglese di Gerusalemme nel 1917 portarono cambiamenti rilevanti: mentre gli esponenti sionisti continuavano a ripetere che non desideravano occuparsi del possesso dei Luoghi Santi, crebbe negli ambienti vaticani la diffidenza per il progetto sionista che da utopia sia pur con estrema lentezza acquistava ogni giorno di più una insospettabile concretezza. Chaïm Weizmann, capo sionista e futuro presidente dello Stato di Israele, dichiarò nel 1918 a Gerusalemme: «La città di Gerusalemme era per noi un santuario. Per questo motivo e soltanto per questo gli ebrei sono stati capaci di rispettare il sentimento di altri che consideravano Gerusalemme sacra. Non hanno voluto interferire in alcun modo con i Luoghi Santi ai quali il cuore dei mussulmani e dei cristiani si volge con riverenza».

Con il passare del tempo apparve sempre più evidente che Vaticano e sionisti avevano concetti diversi dei Luoghi Santi: per il primo si trattava di ampi spazi territoriali, per i secondi di zone ristrette a chiese o conventi e santuari. I sionisti erano convinti che da parte della Santa Sede vi fossero solo interessi religiosi, mentre in realtà il papa aveva in mente anche considerazioni politiche. Questa incomprensione divenne più forte dopo la Prima guerra mondiale perché la somma di fattori religiosi e politici rese molto intricato il quadro di riferimento. Man mano che il progetto sionista acquistava spessore le reazioni diventavano più forti non solo negli ambienti cristiani, ma anche in quelli mussulmani e le antiche diffidenze non tardavano a venire alla luce. Dalle dichiarazioni dei cardinali di allora si può dedurre che, se non vi era opposizione contro un insediamento ebraico di tipo umanitario, esisteva invece un espresso veto contro la possibilità che nascesse nella regione uno Stato indipendente. Le parole di monsignor Baudrillart, buon amico del segretario di Stato cardinale Gasparri, esprimono bene la posizione prevalente nel mondo cattolico: «Non ho nulla da obiettare a che costituiscano un focolare in Palestina. Ma uno Stato ebraico è qualcosa di assai diverso. Non gioverebbe agli ebrei, non avrebbe il dovuto fondamento legale. Gli ebrei sono una religione e una razza. Se divenissero una nazione, sarebbero ovunque stranieri. Non possono aspirare a due nazionalità. Non sta a noi suggerire ai governi una linea di condotta per quanto concerne il futuro della Palestina… La Croce ripristinata dovrebbe regnare sulla città [di Gerusalemme]».

In queste parole si sente l’eco di idee e sentimenti contrastanti: l’idea di razza si era impossessata anche di esponenti del mondo cristiano ed era entrata anche nel linguaggio comune, senza che ne fosse percepito l’uso improprio e fallace; dopo essere stati considerati stranieri per venti secoli, ora gli ebrei venivano minacciati di diventarlo se uno Stato fosse stato fondato; infine è possibile cogliere una sensazione di smarrimento nei confronti di un progetto che si rivelava sempre più minaccioso.

Nel marzo 1919 Benedetto XV, rompendo gli indugi, dichiarò di essere particolarmente preoccupato per la sorte dei Luoghi Santi e manifestò la propria ansia per le decisioni che sarebbero state prese dalla Conferenza di pace. Per lui e per tutti i fedeli cristiani sarebbe stato motivo di grande dolore se «i non fedeli fossero venuti a trovarsi in Palestina in una posizione di privilegio e di preponderanza; molto più poi se quei santuari santissimi della religione cristiana fossero affidati ai non cristiani».

Gasparri tornò sull’argomento pochi giorni dopo: «Il pericolo che più ci spaventa è la costituzione di uno Stato ebraico in Palestina… La Santa Sede deve parlare forte e chiaro perché si è diffusa la voce che appoggi le richieste sioniste». Qualche anno dopo, nel 1922, Gasparri dirà a Weizmann: «È la vostra Università (la cui prima pietra era stata posta nel 1918) che io temo».

Nel 1920 in tutta Europa vi fu una recrudescenza di antisemitismo favorita dalle incertezze politiche, economiche e sociali del dopoguerra, dai turbamenti suscitati dalla rivoluzione bolscevica e da una propaganda antisemita che sfruttando I Protocolli continuava a martellare l’opinione pubblica con i fantasmi dei complotti internazionali voluti dagli ebrei. Anche «L’Osservatore Romano» non restò insensibile a quel clima da caccia alle streghe: riprese un articolo apparso sul francese «La Croix» in cui si diceva tra l’altro che gli ebrei non solo avevano posizioni di dominio all’interno del gruppo dirigente sovietico, ma erano anche molto influenti sul governo inglese, che in maggioranza non adoravano più Dio ma Satana e costituivano quindi un vero pericolo per i cristiani.

Nel 1920 e 1921 per la prima volta in modo esplicito emerse nel mondo cristiano una decisa posizione antisionista. La voce del papa si levò nel giugno 1921 in difesa dei diritti dei cristiani in Palestina e suscitò echi e interpretazioni non sempre uniformi negli articoli della stampa internazionale. Tra gli altri intervenne nel dibattito Jacques Maritain: «Non si deve accettare che il problema ebraico serva come obiettivo sul quale riversare il malcontento della gente».

Ancora nel XII Congresso sionista, tenutosi a Carlsbad in Cecoslovacchia nel settembre 1921, Sokolow ricordò la posizione che il papa aveva manifestato nel loro incontro qualche anno prima, ma questa volta «L’Osservatore Romano» intervenne scrivendo che era ingenua la persuasione che ci fosse un consenso mondiale verso le aspirazione ebraiche perché occorreva tener conto del popolo palestinese e, inoltre, gli ebrei non erano un popolo, ma un’entità etnico-religiosa che non aveva diritto di fondare uno Stato per avere una doppia cittadinanza di riserva. La Palestina era la Terrasanta dove Gesù era stato sacrificato da un popolo che si era dichiarato responsabile di questo gesto per sé e per i suoi figli. Esisteva una prescrizione di qualsiasi diritto ebraico su quella terra già da quasi venti secoli.

Pochi mesi dopo la morte di Benedetto XV, il cardinale Gasparri inviò un documento alla Società delle Nazioni per esporre la linea del Vaticano sulla questione sionista e «L’Osservatore Romano» alla fine di giugno ne fece conoscere i contenuti; in sintesi: gli ebrei non dovevano diventare l’elemento dominante della regione e occorreva fondare un’Internazionale cattolica che si ponesse a protezione dei Luoghi Santi contro il giudaismo bolscevico.

Le asprezze del giornale cattolico non erano condivise fino in fondo dal nuovo papa, Pio XI, che ricevette qualche giorno dopo in Vaticano Sir Herbert Samuel con cui discusse le caratteristiche del Mandato inglese in Palestina, approvato nel luglio 1922 dalla Società delle Nazioni.

Il papa non lasciò trapelare reazioni immediate, sebbene la linea della Santa Sede ne uscisse sconfitta. Solo in occasione di un discorso al Concistoro nel dicembre 1922 pronunciò queste parole: «E per accennare a qualcuno dei pericoli più gravi, Ci tengono tuttora in vivissima angustia le cose della Palestina, di quella terra benedetta che fu la culla della nostra fede e che fu bagnata dai sudori e dal sangue del Redentore Divino. E Voi stessi ben sapete, o Venerabili Fratelli, quale opera abbia spiegato nel difendere i diritti dei Luoghi Santi il Predecessore Nostro desideratissimo Benedetto XV di cui ci resta monumento gravissimo la memoranda Allocuzione pronunciata nel Concistoro del 13 giugno del passato anno».

Se in quegli anni e anche in tempi successivi il Vaticano fu antisionista, non per questo si può dire che fosse antisemita: pur con cautele e non senza ambiguità intervenne a favore degli ebrei perseguitati.

Nello stesso tempo su «Vita e Pensiero» apparve un trafiletto anonimo dedicato alla morte di uno degli esponenti più autorevoli dell’ebraismo italiano: «Un ebreo, professore di scuole medie, gran filosofo, gran socialista, Felice Momigliano, è morto suicida. I giornalisti senza spina dorsale hanno scritto piagnucolosi. Qualcuno ha accennato che era il Rettore dell’Università Mazziniana. Qualcun altro ha ricordato che era un positivista in ritardo. Ma se insieme con il Positivismo, il Socialismo, il Libero Pensiero e con il Momigliano morissero tutti i giudei che continuano l’opera dei giudei che hanno crocifisso Nostro Signore non è vero che al mondo si starebbe meglio? Sarebbe una liberazione ancora più completa se, prima di morire, pentiti, chiedessero l’acqua del battesimo».

Queste righe fecero scandalo anche nel mondo cattolico. Alcuni mesi dopo il suo autore, padre Agostino Gemelli, ammise di aver scritto quel singolare necrologio e precisò che esso «non fu ispirato da odio antisemitico. Errore confessato, mezzo perdonato; e i lettori me lo vorranno perdonare, considerando almeno questo: che ogni giorno, come deve fare ogni buon cristiano, prego per la conversione degli ebrei».

La Santa Sede continuò a seguire con preoccupazione gli avvenimenti in Medio Oriente. «In Europa» scriveva nel 1924 il corrispondente da Gerusalemme de «L’Osservatore Romano» «si è troppo facili, con un superficialismo che irrita, a guardare al nuovo fenomeno semitico palestinese con aria scettica di compatimento. Ma la realtà è una sola: gli ebrei lavorano con eroica serietà di propositi. E, domani, dalle loro facoltà universitarie incominceranno la loro nuova campagna per una rivincita spirituale. L’eventualità di un argine da parte degli arabi non ha nessuna consistenza. La loro opposizione di prammatica non arresterà nemmeno di un passo l’avanzata del sionismo.»

«Da questa valutazione, coincidente con quella dei più attenti osservatori diplomatici» ha notato Silvio Ferrari «discendevano due linee interpretative: una, minoritaria, privilegiava una lettura in chiave religiosa del sionismo, giudicato un punto di passaggio verso la conversione degli ebrei al cristianesimo; l’altra, prevalente, insisteva sui pericoli che dal rafforzamento del movimento sionista derivavano per la presenza cristiana in Terra Santa. I gesuiti in particolare vedevano nel sionismo un’ipotesi non attuabile né convincente della questione ebraica e lo consideravano una mossa anticristiana e anticattolica. Alle reazioni dei giornali si associò monsignor Tardini allora segretario per gli affari straordinari della Santa Sede: “La Santa Sede non ha mai approvato il progetto di fare della Palestina una home ebraica”.»

La prima significativa reazione contro l’antisemitismo da parte di organismi cattolici si manifestò nel 1926 quando da Antonio Van Asseldonck, procuratore generale dei canonici della Santa Croce, e da Francisca Van Leer, una cristiana olandese di origine ebraica, fu fondata l’associazione Amici di Israele cui aderirono 19 cardinali, di cui 5 consultori del Sant’Uffizio, Merry del Val segretario di Stato di Pio X, e oltre 278 vescovi e 3000 sacerdoti di tutte le parti del mondo. Nel loro programma spiccavano alcuni punti: la modifica della preghiera liturgica del Venerdì Santo Pro perfidis Judaeis, il ritiro dell’accusa di deicidio, la soppressione delle celebrazioni in cui si parlava di omicidio rituale.

In un primo momento l’associazione Amici di Israele riuscì ad avere tra le sue file anche due autorevoli membri del Sant’Uffizio, ma a poco a poco si ritrovò nel bel mezzo dello scontro tra integristi e antintegristi e improvvisamente nel marzo del 1928 la Congregazione del Sant’Uffizio decretò il suo scioglimento, sostenendo che essa aveva adottato un modo di agire e di pensare contrario allo spirito della Chiesa. Contestualmente, per la prima volta in modo ufficiale, il documento del Sant’Uffizio dichiarava: «Mossa da questo spirito di carità la Sede Apostolica protesse il medesimo popolo contro le ingiuste vessazioni, e come riprova tutti gli odii e le animosità tra i popoli, così massimamente condanna l’odio contro un popolo già eletto da Dio, quell’odio che oggi volgarmente suole designarsi con nome di “antisemitismo”».

Questa volta «Civiltà cattolica» intervenne ammonendo contro gli antisemiti estremisti, «quelli che specialmente si pascono di leggende e godono di spargerle tanto più inopportunamente, anzi dannosamente allo loro stessa causa, quanto meno sono criticamente fondate».

Ancora una volta il rapporto con gli ebrei si rivelava lo specchio delle diverse anime del mondo cattolico. La nuova linea dell’autorevole rivista rivelava la scelta degli ambienti ecclesiastici di mantenere un’equidistanza tra gli estremi opposti di antisemitismo e semitismo: così da un lato era stata abolita l’associazione Amici di Israele che voleva un rapporto intenso con gli ebrei e dall’altro era stato condannato l’antisemitismo, inaugurando una linea centrista che sia pur in termini meno bellicosi non dimenticava il pericolo giudaico.

Alcuni anni dopo, nel marzo 1937, di fronte alla situazione sempre più grave che andava degenerando soprattutto in Germania, Pio XI emanò l’enciclica Mit brennender Sorge, in cui i miti del sangue e della razza venivano condannati senza alcuna incertezza. Il documento papale tuttavia non parlava di antisemitismo e criticava solo una piccola parte delle leggi razziali emanate dal fascismo e dal nazismo: quelle che erano in conflitto con la legge canonica del matrimonio. Le dichiarazioni che fece il papa nel settembre 1938 in un’occasione meno formale, durante un incontro con alcuni fedeli, non ebbero la stessa solennità: «L’antisemitismo non è compatibile col pensiero e la realtà sublime che sono espressi in questo testo. L’antisemitismo è un movimento antipatico al quale noi, noi cristiani, non possiamo prender parte… Noi siamo spiritualmente semiti».

La morte colse Pio XI l’11 febbraio 1939. Sulla sua scrivania fu trovato quasi completo un progetto di condanna contro il razzismo e contro l’antisemitismo.

Pio XII, il suo successore, si comportò in maniera diversa e tacque, come si è detto in un capitolo precedente, anche nei momenti più drammatici.

Alla fine del 1945, dopo la tragedia della Seconda guerra mondiale, qualcosa di profondo era cambiato e molti capirono la necessità di demolire le antiche barriere tra la Chiesa e il mondo ebraico. Tra coloro che contribuirono in un modo decisivo ad abbattere antichi steccati, Jules Isaac, lo storico francese che perse ad Auschwitz l’intera famiglia, si prodigò per rompere il cerchio dell’insegnamento del disprezzo, scrisse libri esemplari sui rapporti tra ebrei e cristiani e combatté barriere ideologiche sino ad allora insuperate.

Nell’agosto 1947 si riunì a Seelisberg una conferenza internazionale contro l’antisemitismo alla quale parteciparono anche Jules Isaac e Jacques Maritain. I convenuti riconobbero che alcune espressioni del linguaggio e dell’insegnamento cristiano potevano aver favorito lo sviluppo dell’antisemitismo, che restava una minaccia ancora incombente. Rivolsero perciò un appello alle Chiese affinché fossero approfonditi alcuni temi cruciali indicati nei Dieci punti di Seelisberg. Era un primo passo non molto specifico, ma che aveva il pregio di indicare metodi e contenuti per rendere la comprensione tra giudaismo e cristianesimo più completa e profonda. Ad Amsterdam nel 1948 l’assemblea costitutiva del Consiglio ecumenico delle Chiese di ispirazione protestante e anglicana espresse sentimenti analoghi e a Magonza l’assemblea dei cattolici tedeschi fece altrettanto.

Nello stesso 1948, due settimane prima della scadenza del Mandato britannico, Pio XII emanò l’enciclica Auspicia quaedam, che diceva tra l’altro: «Intendiamo parlare dei Luoghi Santi di Palestina, che sono stati a lungo turbati. Se esiste infatti un luogo che dovrebbe essere particolarmente caro a ogni persona colta, è senza dubbio la Palestina dove, dall’alba dell’antichità, una luce di verità tante volte ha brillato per tutti gli uomini. Noi desideriamo perciò cari fratelli che le vostre suppliche si levino alla santissima Vergine per questa preghiera: che la situazione in Palestina venga risolta in maniera giusta e che con ciò la concordia e la pace siano pure felicemente ripristinate».

Il 14 maggio 1948, giorno della proclamazione dello Stato di Israele, «L’Osservatore Romano» scrisse: «Il moderno sionismo non è il vero erede dell’Israele biblico, ma uno stato laico… perciò la Terra Santa e i suoi Luoghi Sacri appartengono al cristianesimo, la vera Israele».

«Nei suoi resoconti sulla guerra in Terra Santa» ha scritto Pichas E. Lapide «“Civiltà cattolica” non lasciò molti dubbi circa le proprie simpatie. Gli arretramenti israeliani erano descritti come “vittorie arabe”, ma le vittorie israeliane erano delle semplici “avanzate”. Solo i comunicati egiziani e giordani venivano riportati per esteso, mentre si parlava delle truppe di Israele come degli ebrei di cui si deplorava sinceramente “l’occupazione di un’area più vasta di quella assegnata”.»

Nell’ottobre 1948 il papa emanò un’altra enciclica, In multiplicibus, in cui si diceva: «Sarebbe opportuno, come migliore garanzia per la salvezza dei santuari, date le attuali circostanze, dare un carattere internazionale a Gerusalemme e ai suoi dintorni dove si trovano tanti e così preziosi ricordi della vita e della morte del nostro Salvatore… È anche necessario assicurare con garanzie internazionali sia il diritto di libero accesso ai Luoghi Santi disseminati in tutta la Palestina, sia la libertà di religione e il rispetto per gli usi e le tradizioni religiose».

La nascita dello Stato ebraico turbò le coscienze di molti teologi cristiani avversi al movimento sionista: ai loro occhi il popolo ebraico, ritenuto collettivamente responsabile della morte di Gesù, non aveva diritto di avere uno Stato e men che meno in Palestina, perché la sua dispersione era stata considerata per secoli come il segno della punizione divina provocata dal rifiuto di riconoscere la missione di salvezza del Cristo. La Chiesa in tempi remoti si era arrogata il diritto di essere il Verus Israel e aveva ereditato le promesse di Dio. Il sionismo perciò era un doppio anacronismo storico e non aveva alcun diritto di ottenere un risultato vittorioso. La conquista della terra di Israele, in contrasto con il disegno di Dio, non poteva che essere ostacolata e condannata. A queste considerazioni diffuse si opposero gli ambienti più illuminati del mondo cristiano, da Jean Daniélou a Jacques Maritain. Lo scontro si riaccese negli anni 1949-1950 dopo che il governo di Tel Aviv ottenne l’ammissione all’ONU senza impegnarsi come contropartita a internazionalizzare Gerusalemme.
Giovanni XXIII nel 1958, tra i primi atti del suo pontificato, decise di espungere dall’orazione che veniva recitata il Venerdì Santo e dal rito del battesimo agli adulti l’epiteto perfidis legato a Judaeis e la parola perfidiam. Perfidus non significa «perfido», bensì «miscredente», ma pochi tra i fedeli erano latinisti e capaci di cogliere la differenza di significato. Nel 1960 il papa dispose che il segretariato per l’Unione dei Cristiani preparasse una dichiarazione sul popolo ebraico da inserire nell’ordine del giorno dei lavori del Concilio Vaticano II. Incaricò di questa delicata missione il cardinale Agostino Bea, che sarà l’artefice del risultato. Giovanni XXIII non fece in tempo a vederlo perché morì il 3 giugno 1963. Come delegato apostolico in Turchia durante la Seconda guerra mondiale, Angelo Roncalli aveva salvato migliaia di ebrei, in particolare bambini, della Romania e della Bulgaria: il suo straordinario calore umano non sarebbe stato facilmente dimenticato.

Presentato nel giugno 1962 con il titolo Decretum de Judaeis, il testo apparve nel novembre 1963 come capitolo IV dello schema sull’ecumenismo e nella primavera del 1964 andò a finire nell’appendice dello schema. La votazione finale ebbe luogo nel 1965 con 2221 voti favorevoli, 88 contrari e 3 schede bianche. Giovanni XXIII aveva pensato di far approvare un documento interamente dedicato al popolo ebraico, che avrebbe dovuto rendere solenne il cambiamento di prospettiva della Chiesa di Roma verso gli ebrei. Il testo approvato, che pur costituiva un passo significativo, era molto meno importante di quello che avrebbe voluto papa Roncalli. Il cardinale Bea ha sostenuto che si arrivò a questo non a causa di resistenze politiche ma, verosimilmente, di pressioni arabe; si può ipotizzare che di tali reazioni si sia fatta scudo la parte più conservatrice della Chiesa, per evitare di far approvare un testo troppo aperto e favorevole al mondo ebraico.

La solenne dichiarazione di rottura con il passato fu quindi accantonata, ma non per questo difficoltà e resistenze terminarono. Nel libro La Chiesa e il popolo ebraico, il cardinale Agostino Bea ha raccolto le sue relazioni conciliari e ha ricostruito una storia tutt’altro che lineare, di forti opposizioni all’approvazione del documento, anche se lo stesso cardinale lasciò intendere che avrebbe preferito un testo in parte diverso e più audace. Si tratta di una vicenda che illumina i travagli della Chiesa negli ultimi anni e mette in evidenza quante difficoltà di ordine teologico e psicologico si frappongano a una comprensione tra mondo ebraico e cristiano. «Il tema del Cristo misconosciuto e respinto da un popolo cieco e refrattario» ha scritto Cesare Mannucci «non trova smentite nella dichiarazione; e nemmeno le trova il tema della dispersione di Israele come castigo per la crocifissione. L’autocritica cristiana ancora una volta si arena nelle secche della teologia e della politica.»

Nella dichiarazione finale Nostra Aetate n. 4, è possibile cogliere, al di là di osservazioni critiche e approfondimenti necessari, alcuni importanti elementi. La Chiesa riconosce che un vincolo particolare la lega al popolo ebraico e che gli ebrei sono amati da Dio in grazia dei padri; esprime inoltre la speranza di una riunificazione escatologica di tutti i popoli e la necessità di conoscere e di apprezzare il patrimonio comune. Quanto al problema della responsabilità per la morte di Gesù, ammette che la passione e la morte di Gesù non possono essere imputate indistintamente a tutti i giudei allora viventi, e tanto meno agli ebrei dei nostri giorni, così come non si possono presentare gli ebrei come rigettati da Dio «anche se le autorità giudaiche con i propri seguaci si sono adoperate per la morte di Cristo». Esprime infine una netta condanna dell’antisemitismo.

La Nostra Aetate rappresentò solo una tappa del lungo itinerario da percorrere per la comprensione tra ebrei e cristiani. Altre solenni dichiarazioni furono emanate nel 1967 dal Consiglio protestante belga per le relazioni tra ebraismo e cristianesimo, dal Dipartimento Fede e Costituzione del Consiglio ecumenico delle Chiese a Bristol, e poco dopo dal Direttorio per le relazioni ebraico-cristiane della Conferenza Episcopale degli Stati Uniti, nonché dal Sinodo pastorale cattolico di Santiago del Cile.

Analoghe dichiarazioni, che, come le precedenti, in gran parte esprimevano il desiderio di trasformare i contenuti di principio della Nostra Aetate in concreti atti di incontro quotidiano, furono fatte nel 1968 a Bogotá e nel 1970 dal Concilio pastorale della Chiesa olandese, che ha assunto un atteggiamento di particolare apertura e di avanguardia. Il Sinodo della Chiesa riformata olandese nello stesso anno ha emesso un altro documento dal titolo Proposte per una riflessione teologica su Israele, popolo, terra, Stato, che è uno dei testi di maggior interesse dell’ultimo trentennio.

Negli anni Settanta in numerosi paesi, dagli Stati Uniti alla Francia, dalla Germania all’Austria, analoghe proposte di dialogo e di approfondimento sono scaturite con una frequenza inusitata, originali nelle forme e nei contenuti.

Gli Orientamenti e i suggerimenti per l’applicazione della dichiarazione conciliare «Nostra Aetate» (n. 4) apparvero in un documento dell’1 dicembre 1974 a cura della Commissione per le relazioni religiose della Chiesa cattolica con l’ebraismo. In esso si sottolineava che l’iniziativa conciliare era situata in un contesto profondamente modificato dal ricordo delle persecuzioni e dei massacri subiti dagli ebrei in Europa: «Dopo duemila anni, troppo spesso segnati da ignoranza reciproca e da frequenti urti, la dichiarazione Nostra Aetate dava l’occasione di instaurare o perseguire un dialogo rivolto a una migliore conoscenza reciproca. Durante i nove anni trascorsi dalla promulgazione della dichiarazione, numerose iniziative sono state prese in diversi paesi. Tali iniziative hanno permesso di enucleare più chiaramente le condizioni nelle quali le nuove relazioni tra ebrei e cristiani possono essere elaborate e sviluppate. Sembra dunque giunto il momento di proporre, secondo gli orientamenti del concilio, dei suggerimenti concreti basati sull’esperienza, nella speranza che essi aiutino ad attuare nella vita della Chiesa le intenzioni esposte nel documento conciliare».

Dopo aver condannato tutte le forme di antisemitismo e di discriminazione, gli Orientamenti auspicano che i cristiani si sforzino di capire meglio le componenti fondamentali della tradizione religiosa ebraica e le caratteristiche essenziali con cui gli ebrei stessi si definiscono alla luce della loro realtà religiosa. Quattro i punti programmatici che vengono suggeriti dalla dichiarazione conciliare: il dialogo, la liturgia, l’insegnamento e l’educazione, l’azione sociale e comune.

Apparsi quasi dieci anni dopo la Nostra Aetate, gli Orientamenti esprimono un approfondimento giudicato concordemente da cristiani ed ebrei un nuovo passo in avanti, soprattutto se si nota che la condanna dell’antisemitismo è più netta e vi è il ripudio di ogni teologia negativa nei confronti dell’ebraismo, anche se nel documento non si parla dello Stato di Israele.

La Chiesa evangelica di Germania e la Conferenza Episcopale degli Stati Uniti nel corso del 1975 hanno elaborato alcuni documenti di dialogo molto avanzati, mentre la Conferenza regionale europea della fraternità mennonita in una dichiarazione relativa ai rapporti con gli ebrei ha espresso il turbamento per i silenzi mantenuti di fronte alle persecuzioni e la lettura religiosa della rinascita del popolo e dello Stato di Israele.

Altrettanto significativo il documento I sussidi per una corretta presentazione degli ebrei e dell’ebraismo nella predicazione e nella catechesi della Chiesa cattolica. Questo nuovo testo, pubblicato il 24 giugno 1985, frutto di un lavoro di paziente stesura, è innovativo soprattutto nei paragrafi in cui si sofferma sulle radici ebraiche del cristianesimo, sui rapporti di Gesù con i farisei, sulla posizione dei giudei nel Nuovo Testamento.

Non c’è dubbio che i passi compiuti dal mondo cristiano negli ultimi anni siano stati importanti, significativi e rilevanti, benché non sufficienti a colmare secoli di oscurantismi nei confronti degli ebrei. Un’inchiesta promossa dall’Associazione ebraico-cristiana e pubblicata da «Settimana», la rivista dei dehoniani di Bologna, ha infatti messo in evidenza che anche questi passi sono stati frutto di una riflessione teologica di vertice e non sono stati assorbiti dalla base della Chiesa. A vent’anni dalla Nostra Aetate il 66% dei sacerdoti, il 68% delle religiose, il 91% dei catechisti, il 97% degli insegnanti e il 78% degli studenti non aveva mai letto il documento conciliare.

Iniziative impensabili fino a non molti anni fa si sono succedute recentemente, come la visita di Giovanni Paolo II alla sinagoga di Roma del 13 aprile 1986 e la decisione della Conferenza Episcopale Italiana che il 17 gennaio di ogni anno venga celebrata nelle chiese una giornata di approfondimento della conoscenza dell’ebraismo. Tuttavia queste iniziative, come l’elaborazione teorica degli ultimi trent’anni sfociata nella Nostra Aetate e nei documenti successivi, meritano qualche riflessione. Si parla spesso di dialogo ebraico-cristiano senza tener conto delle differenze di struttura che esistono tra i due mondi. La Chiesa cattolica, e in generale anche le altre organizzazioni cristiane, sono sempre state strutturate in modo gerarchico. Una decisione di vertice diventa, o per lo meno così è stato in passato, un obbligo per tutti i fedeli. Diversa è la situazione degli ebrei: la loro organizzazione religiosa negli ultimi diciotto secoli non è mai stata gerarchica, non è mai esistita la possibilità di prendere decisioni di vertice da trasmettere alla base perché fossero accettate o addirittura messe in atto. La dispersione ha reso le singole comunità sempre più autonome e indipendenti, al punto che la tradizione di minoranza e maggioranza, già presente nelle interminabili e minuziose discussioni sul Talmùd, ha prodotto un’indipendenza di giudizio radicata e inestirpabile. Perciò, per esempio, l’incontro nella sinagoga di Roma non è stato un vertice tra i capi del mondo cattolico e del mondo ebraico, ma l’incontro del capo del mondo cattolico con il più importante dei rabbini della comunità di Roma, certo il più rappresentativo in Italia, ma non il rabbino capo d’Italia, perché tale struttura gerarchica non fa parte del costume e della mentalità ebraica italiana. Non vi è dubbio che tutti gli ebrei del mondo hanno gradito che il papa polacco abbia dimostrato tanta sensibilità da recarsi in visita alla sinagoga, ma non esiste un potere analogo a quello del papa all’interno dell’ebraismo e non è possibile un dialogo tra vertici dei due mondi.

I documenti degli ultimi trent’anni non sono il frutto di un dialogo perché sono stati elaborati in modo autonomo dalla Chiesa e le molte resistenze confermano come sia ancora lunga e complicata la strada di una migliore e reciproca conoscenza.

La caduta di Gerusalemme nel 70 d.C., la dispersione e l’esilio del popolo ebraico sono stati sempre interpretati come una punizione per la cecità di Israele che non riconobbe Gesù di Nazareth come messia; la rinascita di uno Stato non è stata mai considerata nemmeno concepibile. La persistenza della sopravvivenza degli ebrei mise in difficoltà i teologi cristiani dei primi secoli, ma sant’Agostino seppe elaborare la raffinata teoria del «popolo testimone» che ha avuto il merito di inglobare la sopravvivenza ebraica in una più ampia ideologia cristiana, rendendola coerente al quadro complessivo.

Ora il ritorno degli ebrei a Sion dopo duemila anni, la nascita dello Stato di Israele costituiscono un evento estraneo alla concezione teologica della storia cristiana, ne contraddicono alcuni capisaldi e non possono non creare imbarazzo. Non c’è un altro sant’Agostino che sappia giustificare questo evento disinnescando il suo carattere sovversivo e conferendogli una dimensione accettabile; del resto oggi i tempi sono cambiati e sono più difficili per tutti, anche per i teologi.