XXV

L’odio per gli ebrei

La persecuzione e la sopravvivenza degli ebrei, una minoranza di modesta entità e di antica origine, è un fenomeno unico nella storia, che ha stimolato nel corso dei secoli molte domande e innumerevoli risposte.

Le teorie che hanno tentato di dare una risposta globale si sono basate sull’idea che esistesse, al di là della contingenza storica, una costante di tipo metafisico, psicologica o religiosa, sulla quale molti esperti hanno fondato la loro ottica interpretativa. Per esempio, molti studiosi cristiani hanno cercato di avvalorare l’idea che l’odio per gli ebrei sia un’invariante storica, nata ben prima dell’avvento del cristianesimo, e così in modo surrettizio hanno cercato di ridurre le responsabilità del mondo cristiano nei confronti degli ebrei.

Affermare che gli ebrei sono sempre stati perseguitati significa sottointendere che in qualche modo possono essere considerati colpevoli e che questo triste destino in fondo se lo sono meritato (del resto non sono stati accusati di deicidio?).

In realtà la questione è più complessa. È vero che gli ebrei hanno subito molte vessazioni, ma la storia è stata un mattatoio per molti popoli ed è facilmente dimostrabile che gli ebrei non hanno attirato su di loro solo ostilità, bensì in molti casi hanno suscitato un grande interesse e anche ottenuto molte simpatie.

L’odio antiebraico come costante metafisica è il frutto di valutazioni interessate e sospette. Si può, più correttamente, parlare di situazioni storiche differenti che meritano di essere attentamente studiate nel contesto culturale di riferimento con tutti gli approfondimenti che possono essere necessari.

Baruch Spinoza è stato uno dei primi e dei più acuti osservatori del destino ebraico, anche se ebbe con il giudaismo un rapporto ambivalente e si scontrò con la propria comunità:

«E, se sono sopravvissuti per tanti anni» ha scritto nel Trattato teologico-politico «pur essendo dispersi senza Stato, ciò non stupisce affatto, dal momento che essi si sono separati a tal punto da tutte le genti, da attirare contro di sé l’odio di tutte: e ciò non soltanto per i riti esterni, contrari a quelli di tutti gli altri popoli, ma anche per il segno della circoncisione al quale essi restano religiosamente attaccati. Che sia quello che appunto li sostiene, è ormai noto per esperienza… Quanto al segno della circoncisione, io ritengo che esso abbia… tale importanza da persuadermi che questo solo basterebbe a far sopravvivere per l’eternità il popolo ebreo.»

Spinoza coglie un aspetto essenziale del problema: la singolarità del destino ebraico è dovuta a una somma di cause esterne e interne. Tutti coloro che hanno cercato di dare una risposta al problema dell’antiebraismo e dell’antisemitismo si sono basati sui presupposti intuitivamente disegnati da Spinoza: cause endogene ed esogene, identità ebraica e società europea. Le risposte sono state numerose non solo perché ogni intellettuale ha le proprie preferenze e idiosincrasie, ma anche perché l’odio per gli ebrei nel corso dei secoli non è stato fondato su accuse omogenee e costanti.

Leggere l’intera storia del pregiudizio contro gli ebrei attraverso una sola lente sembra riduttivo; è invece più interessante la somma delle teorie proposte perché offre un quadro di insieme che riflette, nel microcosmo delle vicende di un piccolo popolo, le grandi angosce, gli odi, le ambiguità e i disagi dell’intera società umana nel corso dei secoli.

Naturalmente tutte le interpretazioni formulate dopo la Seconda guerra mondiale risentono, anche se non sempre lo ammettono esplicitamente, del terribile choc causato dagli avvenimenti del XX secolo. Dopo la Shoah nulla può essere visto come prima. E l’approccio psicanalitico si è mostrato in questi ultimi anni uno degli strumenti di indagine tra i più fecondi.

«I motivi più profondi dell’odio per gli Ebrei» scrive Sigmund Freud in Mosè e il monoteismo «sono radicati nel passato più remoto, agiscono dall’inconscio dei popoli e non c’è da stupirsi che sulle prime appaiano incredibili. Arrischio l’affermazione che la gelosia per il popolo che si è spacciato per il figlio primogenito e preferito del Padre divino non è stata superata ancor oggi dagli altri popoli, quasi questi avessero prestato fede a tale pretesa.»

Questa visione dell’antigiudaismo è anche il riflesso di una teoria contenuta nello Zohàr, un testo mistico ebraico di probabile matrice medievale: «Ed è perché Dio ha affetto per Israele e lo avvicina a sé che tutte le nazioni idolatre odiano Israele; perché esse si sono tenute a distanza, mentre Israele è stato portato vicino a Dio. Analogamente era a motivo dell’amore che Giacobbe mostrò a Giuseppe, più che a tutti gli altri suoi figli, che essi cospirarono per assassinarlo, benché fosse loro fratello. Quanto più grande dunque dev’essere l’ostilità delle nazioni idolatre verso Israele!».

Freud scrisse questo saggio quando già l’ombra minacciosa di Hitler si proiettava su Vienna. Il suo tentativo di dimostrare che Mosè non era ebreo, bensì egiziano, se da un lato fa del popolo ebraico lo zimbello della burla più grande della storia, dall’altro otterrebbe lo straordinario risultato dell’affrancamento dalla persecuzione perché essa potrebbe perdere ogni giustificazione se l’origine egizia di Mosè fosse provata: Israele non sarebbe più il popolo eletto da Dio e il segno del Patto tra Dio e l’uomo, la circoncisione, non avrebbe più alcun senso. Consapevole che la dinamica dell’antisemitismo è una reazione di coloro che sono stati «battezzati male» e che non si sono adattati alle prescrizioni repressive del codice di Mosè, Freud, per rintuzzare l’antisemitismo, si era forse sforzato di separare Mosè dall’immagine degli ebrei. Mosè non era ebreo e allora gli ebrei non potevano essere accusati di esercitare il giogo mosaico: perché prendersela con il Super Io se l’unico responsabile non era neppure ebreo?

Il padre della psicanalisi aggiunge che «un fenomeno di intensità e durata come l’odio dei popoli per gli ebrei deve avere naturalmente più di un fondamento». L’idea che gli ebrei possano essere considerati stranieri in un paese dove vivono, magari dal tempo dei romani, gli pare debole. Più interessante gli sembra la constatazione che gli ebrei sono stati sempre una minoranza: «Altre ragioni dell’odio per gli ebrei sono più forti, come la circostanza che essi vivono per lo più come minoranze fra gli altri popoli poiché il senso comunitario delle masse abbisogna, per essere compiuto, dell’ostilità contro una minoranza estranea, e la debolezza numerica di questi esclusi è un invito alla repressione».

Queste considerazioni costituiscono un primo nucleo delle teorie psicanalitiche del fenomeno antiebraico e antisemita.

«Assolutamente imperdonabili» continua Freud «appaiono però due altre particolarità degli ebrei. Innanzi tutto il fatto che, per certi aspetti, sono diversi dai popoli che li ospitano. Non fondamentalmente diversi, poiché non sono asiatici di razza straniera, come i nemici asseriscono, ma per lo più un misto di resti di popoli mediterranei ed eredi della civiltà mediterranea. Eppure sono differenti, spesso indefinibilmente differenti dai popoli nordici soprattutto, e l’intolleranza delle masse si esprime stranamente di più contro piccole distinzioni che contro differenze fondamentali. Il secondo punto si fa sentire ancora di più, ed è il fatto che essi tengono testa a ogni oppressione, che alle più crudeli persecuzioni non è riuscito di sterminarli, e anzi che mostrano di avere la capacità di affermarsi nel commercio e, laddove sia loro consentito, di dare validi contributi in ogni campo della civiltà.»

Dopo aver attirato l’attenzione sul significato che può avere l’uso della circoncisione, che ricorda «qualcosa da dimenticare, appartenente al passato primordiale», egli scrive infine: «Non dimentichiamoci che tutti questi popoli che oggi eccellono nell’odio per gli ebrei sono diventati cristiani in epoca storica tarda, spesso spinti da sanguinosa coercizione. Si potrebbe dire che sono tutti “battezzati male” e che sotto una sottile verniciatura di cristianesimo sono rimasti quello che erano i loro antenati i quali professavano un barbaro politeismo. Non avendo superato il rancore contro la nuova religione che è stata loro imposta, l’hanno però spostato sulla fonte donde il cristianesimo è loro pervenuto. Il fatto che i Vangeli narrano una storia che si svolge tra ebrei e tratta solo di ebrei ha facilitato questo spostamento. Il loro odio per gli ebrei è al fondo il loro odio per i cristiani, e non vi è di che meravigliarsi se nella rivoluzione nazionalsocialista tedesca questa intima relazione tra le due religioni monoteistiche trova così chiara espressione nel trattamento riservato a entrambe».

Il meccanismo che scatena l’odio per gli ebrei è semplice e ha le radici nella tendenza antica dell’uomo alla malvagità, all’aggressione, alla distruzione e quindi alla crudeltà. Un gruppo, per realizzare la sua unità interna minacciata di frantumarsi, non ha di meglio che proiettare le proprie tensioni verso un altro gruppo, possibilmente più debole, che sia oggetto di sentimenti ostili.

«Il popolo ebraico, per la sua dispersione in tutti i luoghi, ha convenientemente servito» scrive Freud «sotto questo punto di vista la civiltà dei popoli che lo ospitavano. Non fu… l’opera di un caso inintelligibile se i tedeschi fecero appello all’antisemitismo per realizzare più completamente il loro scopo di supremazia mondiale.»

Gli ebrei sono stati capro espiatorio tradizionale perché minoranza, perché considerati stranieri, perché diversi nei riti e in qualche caso nei costumi e perché, considerandosi popolo eletto, hanno saputo nella maggior parte dei casi rispondere alla pressione esterna con un alto senso di autostima che ha suscitato nuovo e più acuto risentimento.

Freud ritenne che un’ostilità così persistente fosse la conseguenza di un’invariante capace di emergere in situazioni particolari: le masse, come l’individuo, trattenevano a livello di tracce mnestiche incoscienti le impressioni del passato e questi contenuti rimossi, in condizioni nuovamente favorevoli, potevano produrre effetti nuovi e molto forti. Egli inserì il problema dell’antisemitismo in una riflessione non solo sulla storia del popolo ebraico, ma sulla storia delle vicissitudini che l’umanità ha dovuto affrontare per elaborare una buona capacità critica. Il passaggio dalla certezza della sensorialità alla supremazia del pensiero viene visto dalla psicanalisi freudiana come una conseguenza del passaggio dal matriarcato al riconoscimento dell’autorità del padre. La religione ebraica ha concepito un unico Dio. Per i cristiani pertanto l’ebraismo rappresenta in primo luogo il Padre, sia a causa del rigido monoteismo che caratterizza questa religione, sia perché da essa trae origine il cristianesimo, che è la religione del Figlio.

La coesistenza di questi due grandi sistemi simbolici e di pensiero si presta dunque anche a raffigurare l’eterno conflitto tra le generazioni, e l’antisemitismo può diventare una terribile valvola di sfogo di conflitti che, pur essendo squisitamente intrapsichici e individuali, sembrano essere un percorso obbligato per tutti gli individui quando devono superare le varie tappe del loro personale sviluppo.

Secondo questa teoria l’antisemitismo diventa un’occasione per sfogare un odio inconscio che altrimenti dovrebbe rimanere represso, con il rischio che questa componente inconscia – e per taluni aspetti atemporale – si trasformi in una componente invariante delle culture occidentali. Freud concepì la visione altamente drammatica del conflitto tra ebraismo e cristianesimo alla luce degli sviluppi più recenti dell’antisemitismo che lo colpirono direttamente negli ultimi anni della sua vita.

Naturalmente non è facile capire a che punto un conflitto psichico si trasformi da normale a patologico e diventi distruttivo. Nel campo dei pregiudizi contro gli ebrei si può ragionevolmente sostenere che, se il pregiudizio antiebraico o antisemita resta sotto un livello di guardia e non dà luogo a conseguenze sgradevoli, la situazione è normalmente accettabile. C’è sempre nella società qualcuno che detesta un poco qualcun altro e in treno il viaggiatore solitario guarda sempre con diffidenza istintiva chi entra nel suo scompartimento. L’ostilità umana non è un sentimento raro, ma un elemento comune del vivere sociale e ha in molti casi una funzione di autoprotezione contro le proprie paure. Le diffidenze esistono tra comunità diverse, tra settori diversi all’interno di una comunità, tra gruppi all’interno di settori diversi, e nei gruppi tra sottogruppi: un minimo di conflittualità forse è anche salutare. Forse.

Negli ultimi anni della sua vita Freud scrisse un breve articolo dal titolo Una parola sull’antisemitismo che merita di essere ripreso quasi integralmente.

«Esaminando sulla stampa e nella letteratura le dichiarazioni che sono state provocate dalle recenti persecuzioni contro gli ebrei, mi è capitato fra le mani un saggio che mi è parso talmente fuori dell’ordinario che l’ho subito stralciato pensando che mi potesse servire. L’autore si esprimeva press’a poco così: “Premetto che non sono ebreo e che dunque non è un coinvolgimento egoistico a farmi parlare. Ciò nonostante mi sono vivamente interessato alle manifestazioni di violento antisemitismo di questa nostra epoca, e particolarmente ho fatto attenzione alle proteste che si sono levate contro di esse. Le proteste sono giunte da due parti, dal campo ecclesiastico e da quello mondano, in nome della religione, in nome di esigenze umanitarie; le prime furono scarse e vennero tardi, ma vennero anch’esse, infine, e perfino Sua Santità il Papa fece sentire la sua voce. Devo ammettere che ho tralasciato di dire qualcosa quando ho dato notizia delle proteste provenienti da entrambi i campi, qualcosa all’inizio e qualcosa alla fine. Proverò ora a colmare queste lacune. A mio avviso tutte queste proteste potrebbero iniziare con una premessa che suonerebbe, più o meno, così: ‘Sì. È vero, anch’io non amo gli ebrei. Li sento, in qualche modo, estranei e mi sono antipatici. Hanno caratteristiche sgradevoli e grandi difetti; credo anche che l’influsso che essi esercitano su di noi e sulle nostre faccende, sia essenzialmente dannoso. Paragonata alla nostra, la loro razza è evidentemente inferiore, tutto ciò che essi fanno lo testimonia’. A questo punto potrete seguire, senza alcuna contraddizione, l’effettivo contenuto di queste proteste. Eccolo. ‘Ma noi professiamo una religione dell’amore. Dobbiamo amare i nostri nemici come noi stessi. Sappiamo che il Figlio di Dio ha donato la sua vita terrena per redimere tutti gli uomini dal peso del peccato. Egli è il nostro modello, e dunque, qualora consentissimo che gli ebrei siano insultati, maltrattati, derubati e ridotti in miseria, peccheremmo contro la volontà di Dio, e contro il comandamento della religione cristiana. In maniera analoga si esprimono i laici, i quali credono al Vangelo dell’Umanità.’ Ammetto che tutte queste dichiarazioni mi lasciano insoddisfatto. Oltre alla religione dell’amore e dell’umanità esiste anche la religione della verità che in queste proteste si è fatta sentire troppo poco; la verità è questa: per secoli e secoli abbiamo trattato ingiustamente il popolo ebraico e, esprimendo su di esso un giudizio ingiusto, non facciamo che continuare sulla stessa strada. Non compie il suo dovere in questa faccenda chi di noi non comincia con l’ammettere questa nostra comune colpa. Gli ebrei non sono peggiori di noi, hanno delle caratteristiche un poco diverse dalle nostre e altri difetti, ma, complessivamente, non abbiamo diritto di guardarli dall’alto al basso. Per certi aspetti, anzi, ci sono superiori. Non hanno bisogno di tanto alcol come noi per trovare che la vita è sopportabile. I crimini, le brutalità, gli assassini, le rapine, le violenze sessuali sono, fra loro, eventi rarissimi, sempre hanno tenuto in gran conto le opere e gli interessi spirituali, la loro vita familiare è più intima, provvedono meglio di noi ai loro poveri e sentono la carità come un sacro dovere. In nessun senso possono essere detti inferiori. Da quando li abbiamo ammessi a cooperare con noi nelle nostre imprese culturali, hanno acquistato ogni sorta di meriti per i loro preziosi contributi in tutti i campi del sapere scientifico, dell’arte e della tecnica. Smettiamola dunque, una buona volta, di trattarli con degnazione e condiscendenza, laddove hanno tutti i diritti di pretendere giustizia.”»

Divertenti e sorprendenti sono le righe di commento che Freud dedica a questa pagina.

«Una così vigorosa presa di posizione da parte di un non ebreo mi ha, come è ovvio, profondamente impressionato. Eppure, devo confessarvi una strana cosa. Sono un uomo molto anziano, la mia memoria non è più quella di un tempo, e non riesco a rammentare dove ho letto il saggio di cui ho riportato alcuni brani, né il nome di chi l’ha scritto. Forse uno dei lettori di questo giornale potrà aiutarmi? Qualcuno mi viene sussurrando che forse ho in mente il libro del conte Heinrich Coudenhouve-Kalergi, L’essenza dell’antisemitismo; in esso sono infatti contenute proprio le cose di cui l’autore, da me cercato, ha segnalato la mancanza nelle recenti proteste, e altre ancora. Conosco questo libro, è apparso nel 1901 ed è stato ripubblicato con una bella prefazione dal figlio dell’autore nel 1929. Eppure no, non può essere quello. Il testo che mi fluttua nella mente è più breve e più recente. O forse mi sbaglio, forse un testo come quello che ho descritto non esiste affatto, e, forse, l’opera dei due Coudenhouve non ha avuto alcun influsso sui contemporanei.»

Sarebbe stato interessante conoscere il punto di vista di Freud su quel fenomeno singolare che si verificò in Polonia dopo la guerra e che viene chiamato «antisemitismo senza ebrei».

Che i fantasmi degli antichi abitanti, che sono stati massacrati, possano ancora turbare le coscienze e suscitare irrazionali sensi di colpa ancestrali, è comprensibile. Tuttavia resta sorprendente che l’odio antiebraico sopravviva in luoghi dove ormai la presenza ebraica è stata annientata.

«Questo tipo di antisemitismo» ha scritto Norman Cohn «è frutto di fantasia e quello che immagina è l’opposto della realtà. Nella realtà gli ebrei sono tanto differenziati quanto ci si potrebbe aspettare data la loro storia straordinariamente variata.»

Gli eventi del XX secolo hanno dimostrato che l’antisemitismo è un fenomeno potenzialmente e pericolosamente patologico e che le sue conseguenze possono essere terribilmente distruttive. In un primo momento può essere utilizzato per attenuare temporaneamente un malessere economico e sociale, ma la soluzione antisemita, come ogni soluzione patologica, finisce per andare a detrimento del gruppo che l’ha adottata.

Oggi, alla luce delle moderne teorie di psicologia dinamica e psicanalitiche, l’antisemitismo viene considerato espressione di un turbamento emozionale profondo e l’antisemita viene analizzato, con sfumature e accentuazioni diverse, alla stregua di un malato mentale.

Da queste considerazioni può emergere un’interessante osservazione: se non c’è dubbio che l’antiebraismo ha bisogno dell’ebraismo e si sviluppa, sia pure attraverso conflitti e tensioni spesso esasperate, in corrispondenza con il suo oggetto del desiderio, in un conflitto simbolico costruito su due poli l’antisemitismo, che ha per oggetto l’ebreo nella sua fisicità, sviluppa la propria degenerazione nevrotica fino alla psicosi, valicando il limite oltre il quale le pulsioni si impadroniscono dell’Io e mettono in atto comportamentidistruttivi. L’odio è tale che l’oggetto del desiderio può anche non esistere: l’oggetto dell’antisemitismo è un semita inesistente nei fatti, perché la razza semita è una storiella, frutto delle idee della fine del XIX secolo, priva di ogni scientificità; con l’antisemitismo viscerale e patologico l’odio per gli ebrei arriva a quei livelli di impensabilità che hanno prodotto la Shoah, l’annientamento. La conversione coatta imposta agli ebrei era un atto simbolico che conteneva in sé la panacea di tutti i mali e riassorbiva, sia pure attraverso un processo autoritario, l’ebreo nella società; l’annientamento, invece, sviluppa la scissione all’infinito e lascia intendere che essa è insanabile non solo per la vittima, ma anche per colui che prova pulsioni così distruttive, verrebbe voglia di dire autodistruttive, perché ben poca umanità rimane in chi coltiva violenze simili.

A questo punto l’antisemitismo non è più un discorso sugli ebrei, ma sugli antisemiti stessi, che sono individui psichicamente malati, protesi verso quell’abisso in cui vogliono trascinare anche le loro vittime.

Questi schemi interpretativi sono solo un primo approccio a una teoria più articolata: non basta un’analisi psicanalitica di ogni antisemita per conoscere il fenomeno dell’antisemitismo nel suo complesso, anche perché le perturbazioni dell’ambiente economico o politico finiscono per interagire con la struttura psichica individuale, esaltando reazioni e comportamenti, di solito esasperandoli e indirizzandoli in senso irrazionale, perché la folla non è moltitudine ordinata, ma orda primitiva.

«L’antisemitismo» ha scritto Otto Fenichel «è così la condensazione delle tendenze più contraddittorie: la ribellione istintiva contro le autorità e la repressione e la punizione di questa ribellione intellettuale diretta contro se stessi. Inconsciamente per l’antisemita, l’ebreo è colui contro il quale vorrebbe ribellarsi e simultaneamente rappresenta le tendenze ribelli che egli ha in se stesso.»

Fenichel scrisse una breve, ma intensa memoria dal titolo Elementi di una teoria psicoanalitica dell’antisemitismo in cui parte dalla psicanalisi dell’antisemita per arrivare a offrire un contributo alla comprensione di quel fenomeno sociale che è l’antisemitismo, un passaggio che giudica indispensabile, ma assolutamente non sufficiente.

Come mai, si domanda, la base psicologica di massa dell’antisemitismo subì una radicale trasformazione in Germania tra il 1925 e il 1935? Appare evidente ai suoi occhi che tutto è dipeso dalla efficacia di una azione capillare di propaganda: certo l’antisemitismo portava al ceto medio qualche vantaggio economico, ma questa poteva essere considerata una spiegazione superficiale. Qual era davvero lo scopo perseguito dalla propaganda antisemita?

Fenichel risponde così: «A questo proposito possiamo forse imparare qualche cosa di più importante dal caso della Russia zarista che non da quello della Germania. I Protocolli dei Savi di Sion furono vergati dalla polizia zarista la quale sapeva bene quale fosse lo scopo di una simile operazione: in conseguenza della terribile miseria diffusa nel paese serpeggiava nella popolazione un atteggiamento di ribellione contro i poteri costituiti. La polizia fece la supposizione che, se la propaganda avesse funzionato, gli ebrei e non le autorità sarebbero stati individuati come la causa delle condizioni vigenti, e che dunque le tendenze rivoluzionarie sarebbero state dirette contro di loro. I terribili pogrom che ne conseguirono, hanno dimostrato che tale intento fu raggiunto».

Fenichel quindi dà spazio a quella che egli chiama la «teoria del capro espiatorio». «Le persone si trovavano in una condizione di conflitto tra la tendenza a ribellarsi e il rispetto per l’autorità al quale erano da sempre state educate. L’antisemitismo diede dunque loro un mezzo per soddisfare, in uno stesso momento, queste due tendenze contraddittorie, cioé la tendenza alla ribellione, cui dar luogo sotto forma di azioni distruttive dirette contro persone indifese, e la tendenza al rispetto, espressa dalla obbedienza ai comandi emanati dal potere costituito.»

Questa teoria del capro espiatorio, nella sua genericità, poteva essere adattata a tutte le minoranze.

Il secondo interrogativo, tuttavia, non poteva essere che questo: quale sarebbe potuta essere la reazione di un gruppo di minoranza nel momento in cui fosse diventato oggetto di simili proiezioni aggressive?

Ancora: come mai ci si imbatte, con particolare facilità, nell’antisemitismo? Perché questo ruolo è stato fatalmente adatto al popolo ebraico?

Indifesi e politicamente deboli, gli ebrei sono stati spinti a esercitare nelle società dove vivevano alcuni mestieri particolari, come, per esempio, i prestatori di denaro e i commercianti e, spesso, le masse popolari li hanno identificati con il possesso della ricchezza. È ben noto che in realtà le popolazioni ebraiche, in particolar modo nei paesi dell’Est, vivevano in condizioni di estrema indigenza. Quello che pareva essere prevalente su tutto era il senso di estraneità che derivava dai riti religiosi e che conferiva un misterioso potere magico ai protagonisti di cerimonie così suggestive.

«Non è facile» ha scritto Fenichel «sospettare di malvagità le persone che hanno la stessa nostra razza, o i poteri costituiti dalla nostra società, mentre è comune che un sospetto di questo tipo ricada su chi appare chiaramente diverso da noi, su chi parla una lingua diversa e si comporta con uno stile differente.»

Questa estraneità poteva essere considerata apparente o reale?

Per cercare di districare l’ardua matassa, Fenichel si sforza di fare un passo avanti abbandonando l’analisi della psicologia dell’individuo antisemita, per occuparsi della psicologia degli ebrei. Naturalmente ammette subito che l’ostinazione, con cui gli ebrei hanno resistito all’assimilazione nel corso dei secoli, rappresenta un problema troppo complesso perché lo si possa esaminare in sufficiente dettaglio in poche pagine. Si limita perciò a formulare solo qualche osservazione non esaustiva.

Il «sistema del ghetto» che escludeva gli ebrei dalla partecipazione alla vita delle popolazioni circostanti è il punto di partenza di ogni possibile analisi, anche perché gli stessi ebrei finirono per accettarlo e, in molti casi, considerarlo come uno scudo di protezione piuttosto che una discriminazione da cui difendersi. In questo modo gli ebrei potevano continuare a conservare le loro caratteristiche in mezzo a popolazioni completamente differenti, mentre contemporaneamente restavano intatte le antiche incomprensioni.

Le peculiarità ebraiche, secondo Fenichel, erano numerose e alcune risalivano ai tempi antichi: i riti e la letteratura sacra derivavano da epoche remote; inoltre abiti, linguaggi e abitudini sembravano al di fuori della storia. Paradossalmente, nel caso degli ebrei tedeschi, le caratteristiche anche linguistiche assorbite in Germania furono mantenute quando questi gruppi si spostarono verso Est, verso le terre polacche e russe.

Gli ebrei avevano conservato la caratteristica essenziale degli stranieri: presenti, ma sconosciuti, imprevedibili e capaci di sorprendere.

«L’estraneità degli ebrei» ha scritto Fenichel «era di un tipo del tutto speciale a causa del loro carattere arcaico, che spesso si combinava con una superiorità indiscutibile in certe aree, una superiorità di cui forse, di volta in volta, gli ebrei commercianti facevano uso per ottenere vantaggi dalle popolazioni presso le quali si stabilivano. Gli ebrei erano intelligenti e, al tempo stesso, sembravano capaci di disporre di qualche antico potere primordiale con il quale gli altri avevano perduto il contatto.»

Le statistiche criminologiche potevano ampiamente testimoniare che, anche in condizioni miserabili, essi rispettavano l’igiene, che la loro etica era piuttosto buona rispetto alla media di altri popoli, che la loro sessualità non era affatto diabolica, come si favoleggiava. La loro estraneità arcaica e misteriosa e la loro debolezza politica li rendevano però estremamente vulnerabili e, dopo essere stati usati spesso come facile capro espiatorio, erano temuti: chi avrebbe potuto pensare che non desiderassero vendicarsi delle offese ricevute? L’omicidio rituale, l’avvelenamento dei pozzi: queste erano accuse che si basavano sul timore che essi, perseguitati, potessero vendicarsi.

«Freud ci ha insegnato» ha scritto Fenichel «che ciascuno di noi lotta per tutta la vita con le pulsioni rimosse che continuano a esistere nell’inconscio e che tra queste pulsioni originarie, le tendenze omicide e le pulsioni sessuali fanno la parte del leone, soprattutto quegli impulsi sessuali che sono considerati più riprovevoli, infimi, immondi. La brama di uccidere, l’amore per la sporcizia e la voluttuosità abietta sono tutte cose che le persone cercano a tutti i costi di tenere ben segregate nel loro inconscio. Un mezzo per difendersi contro la spinta all’espressione che preme dall’inconscio è rappresentato dalla proiezione, cioè la tendenza a vedere negli altri ciò che non si desidera che diventi cosciente rispetto a se stessi. La proiezione è una manifestazione che risulta marcata in certe malattie mentali, ma essa è, comunque, presente anche nelle persone normali, ad esempio nei promotori di crociate contro l’omosessualità che, di fatto, combattono contro i loro stessi impulsi omosessuali rimossi.»

L’antisemita proietta nell’ebreo la parte peggiore di se stesso: per questo lo vede come un assassino sporco e pervertito, come l’incarnazione della brama di uccidere e della sessualità più abietta.

«Diventerà presto chiaro» prosegue Fenichel «che in tal modo questa proiezione può venire facilitata, ma già risulta adesso evidente il motivo per cui gli impulsi più dissoluti vengono deviati verso gli ebrei. Per l’inconscio della persona dissoluta l’ebreo rappresenta non soltanto l’autorità che egli non ha il coraggio di attaccare, ma anche le sue pulsioni rimosse che egli odia e che gli sono proibite.»

L’antisemita sembra, dunque, condensare tendenze massimamente contraddittorie: la ribellione pulsionale diretta contro l’autorità e la crudele soppressione e punizione di questa stessa ribellione pulsionale diretta contro se stessi.

«L’Ebreo con la sua lingua incomprensibile e il suo strano Dio» ha scritto Fenichel «appare perturbante agli occhi dei non ebrei non solo perché costoro non riescono a comprenderlo e quindi lo possono immaginare capace di tutti i tipi di peccato, ma ancor più perché, da qualche parte nel profondo, essi riescono invece a capirlo benissimo dato che i suoi modi sono arcaici, cioè esibiscono una serie di elementi che il non ebreo una volta possedeva, ma che in seguito ha perduto.»

I tedeschi, inoltre, consideravano la lingua e l’abbigliamento ebraici non soltanto strani, ma vedevano in essi una vera e propria caricatura, una presa in giro della loro stessa lingua e del loro stesso stile.

L’yiddish, agli occhi di un tedesco, era una specie di lingua germanica mascherata «sotto una foggia strana e vilipesa».

Quasi con sorpresa Fenichel osserva che ci si è dimenticati che «Ama il tuo prossimo come te stesso» è una frase ebraica e non cristiana. Questa rimozione, essendo di natura irrazionale, purtroppo non può essere modificata da nessuna esperienza reale vissuta da un antisemita a contatto con una persona ebrea. Del resto è ben noto che molto spesso gli individui antisemiti hanno tra i loro conoscenti qualche ebreo che considerano privo di quelle caratteristiche negative comunemente proiettate verso gli ebrei in generale, e ciò non muta in alcun modo il loro antisemitismo, anzi, quella che gli appare una eccezione gli permette di confermare la «propria regola».

Alla base di queste perversioni è possibile rintracciare una costante: la paura, un sentimento che si manifesta in forme molteplici e che può essere esorcizzata con difficoltà.

C’è la paura che nasce dal timore dello straniero, o che scaturisce dalla convinzione che chi ha subito un torto farà di tutto per vendicarsi. C’è la paura di chi si sente debole e attaccando i più deboli finisce per fingere di sentirsi forte e inattaccabile. Certo, l’ostinazione e l’arroganza dei più deboli possono suonare come una provocazione inaccettabile e il circolo vizioso può diventare ancora più violento e incomprensibile, in un gioco perverso di azioni e di reazioni.

Tra gli elementi perturbanti gli psicanalisti, come del resto aveva sottolineato lo stesso Spinoza, hanno individuato la circoncisione, che, pur non essendo una pratica solamente ebraica, viene generalmente considerata dagli antisemiti un tratto ebraico che fa riemergere paure ancestrali.

Alla fine l’antisemita, se confortato da una propaganda forte e menzognera e da situazioni ambientali ed economiche di forte sofferenza, arriverà a estreme conseguenze: il Dio ebraico e dunque gli ebrei sono il demonio che viene odiato e temuto al tempo stesso.

La vulnerabilità ebraica da questo punto di vista appare a Fenichel esemplare: non solo per l’adesione a modelli arcaici, ma anche per il tradizionale rifiuto da parte di folti gruppi ebraici, con un orgoglio sospetto ed estremo, di cogliere opportunità, che qualche volta venivano offerte, di totale assimilazione all’ambiente circostante. Pur non usando la violenza non si poteva certo dire che gli ebrei non erano capaci di utilizzare strumenti di aggressività indiretta rivolta contro l’esterno e anche contro l’interno dello stesso gruppo: da un lato questa tenace volontà di sentirsi popolo eletto, cioè scelto tra tutti gli altri popoli, non poteva non essere percepita che come irritante, dall’altro la tradizione ebraica era fortemente patriarcale, coniugava una autorità patriarcale con una libertà intellettuale accentuata e, ancora una volta, potenzialmente capace di apparire sovversiva.

La reazione ebraica alle discriminazioni si era giovata di alcune formule difensive che parevano fatte apposta per canalizzare le pulsioni inconsce di chi li odiava: quanto più gli altri ci escludono tanto più siamo vicini a Dio a un livello più profondo – dicevano a se stessi –, oppure grazie alla partecipazione al potere del nostro Dio siamo magicamente superiori ai nostri nemici, ai quali siamo invece inferiori dal punto di vista fisico. Del resto si può ben capire che nella disgrazia gli ebrei cercassero una consolazione e una giustificazione a quello che dovevano sopportare.

Le diverse teorie dovrebbero in ogni caso tener conto delle differenti situazioni storiche. Per esempio, se in Russia gli ebrei sono rimasti chiusi nelle zone di residenza e la cultura ebraica non si è diffusa nel paese, in Germania gli ebrei tedeschi avevano finito con il considerarsi come autentici tedeschi e si erano mostrati ben più patrioti degli stessi nazionalisti.

Inoltre perché l’antisemitismo arrivi a manifestarsi in modo virulento e pericoloso, alle pulsionalità inconsce degli antisemiti si devono sommare condizioni sociali estremamente favorevoli: una scontentezza diffusa che rasenti la paura e una propaganda negativa capillare e insistente capace di demonizzarli oltre ogni limite.

«La teoria psicanalitica della proiezione morbosa» hanno scritto Horkheimer e Adorno «ha indicato come sostanza di essa la traslazione sull’oggetto di impulsi socialmente vietati del soggetto. Sotto la pressione del Super Io, l’Io proietta come intenzioni maligne nel mondo esterno le velleità aggressive provenienti dall’Es (che rappresentano, per la loro virulenza, un pericolo per l’Io stesso) e ottiene così di liberarsene nella reazione a questa realtà esterna, sia (nella fantasia) come identificazione con il presunto malvagio, sia (nella realtà) come pretesa legittima difesa.»

Secondo i due noti esponenti della Scuola di Francoforte questi impulsi vietati sono, per lo più, di natura omosessuale e derivano da un rapporto fortemente conflittuale con il padre: nella paranoia quest’odio tende alla brama della castrazione come universale distruttivo. Il malato regredisce all’indifferenza arcaica di morte e sopraffazione. Questo gioco di proiezioni è stato facilitato dalle caratteristiche specifiche, socioeconomiche e religiose, del popolo ebraico.

E se il borghese concede che l’antisemita abbia torto, pretende almeno che sia colpevole in qualche modo anche la vittima.

Il passaggio dal livello individuale a quello collettivo è stato oggetto dell’attenzione di Rudolf Loewenstein: «L’antisemitismo collettivo sorge non appena la pressione dei problemi sociali, economici e politici diviene intollerabile e può essere diminuita da una scarica sugli ebrei delle tensioni accumulate. Queste reazioni violente non si producono che nel momento in cui vi sono collettività intere, si tratti di un paese o di strati della popolazione di un paese, che sono o si credono minacciate e quando i loro timori e la loro aggressività sono utilizzati per dei fini politici da governi o da raggruppamenti potenti».

Lo stesso Otto Fenichel ha notato che l’antisemitismo non diventa un movimento di massa se non esistono condizioni particolarmente favorevoli: «Dapprima un movimento rivoluzionario o perlomeno un intenso malcontento delle masse nei riguardi della situazione esistente: un movimento che possa essere diretto contro il capro espiatorio ebreo; in seguito una vita culturale e una tradizione ebraica in mezzo alla cultura ospite, senza che tra le due culture vi siano troppi legami».

J.F. Brown ha messo in luce il meccanismo dello spostamento della frustrazione-aggressione: «L’ostilità verso i membri del gruppo interno è spostata al di fuori del gruppo e il processo nel suo insieme è razionalizzato. Che gli ebrei siano i beneficiari di uno spostamento è sopradeterminato contemporaneamente da fattori sociologici e psicologici. Una volta accertato nella cultura un antisemitismo latente, l’antisemitismo socio-patologico emerge attraverso l’esagerazione dei fattori sempre presentati. Sociologicamente discriminazioni sociali ed economiche accrescono l’antisemitismo perché conducono a dei comportamenti di rappresaglia da parte degli ebrei che possono essere facilmente esagerati negli stereotipi».

Diversa la prospettiva di indagine di Ernst Simmel: «Forse è il carattere collettivo di una comunità, la sua civiltà come se essa subisse delle turbe psicopatologiche, che si crea l’antisemitismo come un fenomeno di massa irrazionale. Applicando i nostri metodi psicanalitico-dialettici, possiamo dire non tanto che l’antisemitismo annichilisce le finalità della civiltà, ma che il processo stesso della civiltà produce l’antisemitismo come la formazione di un sintomo patologico… L’antisemitismo è un tumore maligno nel corpo della civiltà».

Simmel non considera l’odio razziale contro gli ebrei una nevrosi collettiva, ma qualcosa di più grave, una psicosi collettiva che in momenti catastrofici assume una forma irrazionale che sfocia nella situazione illusoria dell’antisemita che può perseguitare gli ebrei perché lui stesso immagina di essere perseguitato da loro. Il successo de I Protocolli dei Savi di Sion è la fotografia emblematica di questo processo psichico e delle sofferenze che scatena. In quanto individui, gli antisemiti possono essere «normali» nella vita civile, ma possono arrivare a credere a una particolare rappresentazione della realtà e lasciare che il loro Io venga sommerso dalla folla. La massa lo protegge e gli toglie il peso della responsabilità.

«L’antisemita qualunque» scrive Simmel «è uno che trova nel meccanismo dell’antisemitismo… una soluzione temporanea al suo conflitto latente con il genitore. Attraverso la partecipazione all’Io collettivo della folla può spaccare in due il potere parentale ri-esteriorizzato: nel capo che ama e nell’ebreo che odia… Scegliendo l’ebreo come oggetto del proprio odio, il suo Io si attribuisce il privilegio di attaccare questo Super Io, di punirlo invece di essere punito. Non sorprenderà dunque se diciamo che l’ebreo, in quanto oggetto di antisemitismo, rappresenta la cattiva coscienza della civiltà cristiana.»

«Accusare gli ebrei di ciò che si è e di ciò che si è fatto, ma che si censura»: così in sintesi Yves Chevalier ha sottolineato l’efficacia di un meccanismo che ha investito tutta la civiltà occidentale ed è stato utilizzato politicamente.

È così possibile pensare che non tutti gli antisemiti siano malati nello stesso modo. Molti individui, che non sono particolarmente capaci di reagire ai modelli sociali dominanti, si sono adeguati alle idee prevalenti nella società, sostenute dalle persone più autorevoli.

Saul Friedländer ha considerato quattro situazioni obiettivamente diverse che possono dar luogo a comportamenti simili: esistono persone che odiano gli ebrei o perché sono in concorrenza con loro, o perché sono dei conformisti privi di una reale partecipazione, o perché sono convinti che si tratti di un buon uso di uno strumento politico, o perché sono coinvolti in questo loro antagonismo a un livello profondo e che comprende la loro personalità.

In generale si può affermare che il pregiudizio diffuso, che si limita a esprimere antipatia moderata, non si oppone alla vita e alla integrazione degli ebrei nella società. Se i sentimenti ostili sono più forti, possono emergere gruppi politici disposti a cavalcare l’uso politico del fenomeno e allora gli ebrei diventano un comodo capro espiatorio. Se invece esistono agitatori fanatici che propugnano un antisemitismo violento e riescono a conquistare adepti fanatici, allora l’irrazionalità si diffonde indipendentemente dal comportamento, dal numero e dalla forza degli ebrei. Al limite gli ebrei possono anche non esistere fisicamente perché in realtà è il loro fantasma simbolico che gode di una singolare e stranamente reale consistenza. Appare evidente che, se l’area dell’antisemitismo generico è diffusa, l’azione di pochi fanatici può rivelarsi deleteria. Se invece la società sa esprimere una forte risposta alle tossine di pochi esaltati, allora anche il più fanatico razzista può essere isolato e posto in condizioni di non nuocere.

Ernst Simmel, che ha studiato il fenomeno antisemita nazista subito dopo la guerra nel 1946, ha notato che un gruppo può elaborare comportamenti che i singoli non sarebbero in grado di sostenere e ha visto nella persecuzione nazista l’esito di una forma paranoica della schizofrenia: i singoli assassini potrebbero non essere particolarmente esaltati o fanatici, ma il loro gruppo nell’insieme può comportarsi come un unico paranoico in preda alla sua mania.

Norman Cohn, autore di uno studio su I Protocolli dei Savi di Sion, si è convinto che la straordinaria vitalità di quel falso mito, la stupefacente capacità di trasformare individui apparentemente razionali in ciechi fanatici impermeabili all’evidenza, può trovare una giustificazione se legata a profondi e tenaci desideri inconsci. Del resto si intuisce facilmente che chi cerca soluzioni semplici (la colpa è dell’ebreo) a problemi complessi (capire il mondo) è un individuo che ha paura e abbisogna di inafferrabili, impossibili certezze. Nei momenti di crisi sociale, politica ed economica, con il crescere dell’angoscia aumenta la necessità di trovare un capro espiatorio alle incertezze della vita moderna. Riflettendo su ciò Cohn si è convinto che l’odio per gli ebrei nasconde un gioco di proiezioni negative inconsce e ha messo in evidenza un meccanismo mentale per mezzo del quale gli esseri umani vedono nel comportamento degli altri le tendenze anarchiche che temono di riconoscere in se stessi.

«Seguendo le orme dello stesso Sigmund Freud» nota Cohn «diversi psicanalisti hanno affermato che gli ebrei, poiché negano il Dio cristiano, sono inconsciamente considerati figli ribelli, “cattivi”, insomma dei parricidi. Questo significa che per costoro [gli antisemiti] è stato per tradizione facile e allettante trasformare l’ebreo in un capro espiatorio per tutti i risentimenti inconsci che potevano nutrire contro il proprio padre, e per questa ragione contro il proprio Dio.»

In realtà, osserva lo studioso, nell’inconscio della cultura europea cristiana il popolo ebraico rappresenta una figura paterna collettiva, un padre che è stato trasformato in una figura tirannica e spietata: «Gli ebrei che vivevano nel mondo cristiano si trovarono quindi nella posizione ideale per ricevere le proiezioni associate con il padre “cattivo”». Un destino terribile, perché il padre cattivo creato dalla fantasia è molto più odioso di quanto possa essere un padre reale. Gli effetti dei processi psichici non sono limitati necessariamente all’infanzia, ma possono persistere nell’età adulta. Se il bambino matura, in età adulta imparerà ad accettare i sentimenti misti e quindi a controllare le proprie pulsioni; se il processo di maturazione non si realizza, probabilmente avrà bisogno di capri espiatori cui attribuire tutte le disgrazie. Da una maturazione imperfetta o incompleta possono emergere ossessioni che spingono gli uomini ad assumere condotte sociali fanatiche ed esaltarsi in fenomeni di massa in cui l’individuo perde la propria identità.

Cohn ritiene che il peculiare rapporto tra giudaismo e cristianesimo, tra il Dio ebraico e il Dio cristiano, si sia riflesso in un rapporto padre-figlio e che gli ebrei siano così diventati facilmente capri espiatori molto adatti, immagini di un potere spietato e crudele, non per nulla rappresentati nell’iconografia popolare come uomini estremamente vecchi. Le tradizionali accuse antiebraiche possono allora essere interpretate attraverso una nuova ottica.

«Basta guardare un disegno medievale che illustra una storia di omicidio rituale per conoscere il contenuto inconscio della fantasia. Un bambino (è significativo che si tratti sempre di un bambino e mai di una bambina) è circondato da un gruppo di uomini attempati, con lunghe barbe, che lo torturano, lo castrano, gli cavano il sangue che poi raccolgono. Lo stesso contenuto inconscio è chiaramente contenuto nell’altra accusa ormai ricorrente: la tortura dell’ostia consacrata. Essa naturalmente riusciva efficace dove si credeva che Cristo fosse veramente presente nell’ostia, cioè nei paesi di religione cattolica: in Polonia provocò massacri ancora alla fine del XVII secolo. Anche qui le illustrazioni mostrano barbuti ebrei che attaccano l’ostia con unghie e tenaglie, e, come per svelare il vero significato di queste storie, ci viene detto talvolta che non soltanto dall’ostia sgorgava sangue, ma che, nel momento culminante della tortura, Cristo appariva nell’ostia sotto forma di bambino piccolo, sanguinante e piangente.»

L’accusa di deicidio, che suscitò tante discussioni nel Concilio Vaticano II, nasconde il significato inconscio di parricidio.

Cohn afferma: «Per i cristiani il Cristo crocifisso ha molto più il significato di figlio che di padre. Perciò, se come sostiene l’insegnamento cristiano gli ebrei sono collettivamente responsabili della morte di Cristo, più che parricidi, sono gli assassini dei figli, i soppressori di una nuova generazione, quelli che distruggono le giovani vite e vanificano le promesse. E chiunque abbia assistito alla rappresentazione del mistero della Passione non può dubitare neanche per un momento che gli uomini medievali interpretassero veramente così la parte avuta dagli ebrei nella crocifissione».

L’ebreo nel mondo moderno, secondo lo studioso, ha conservato il suo valore simbolico di «cattivo» figlio e di «cattivo» padre. Ecco perché, quando gli ebrei diventano radicali e rivoluzionari, vengono visti come cattivi figli che negano l’ordine e l’autorità; quando invece la società moderna diventa incontrollabile e incomprensibile, ecco che gli ebrei vengono considerati i principali responsabili di questo cambiamento traumatico e doloroso, padroni di misteriosi poteri e padri cattivi. Ne I Protocolli gli Anziani di Sion sono delle figure paterne. Nell’Europa orientale, nel corso delle retate contro gli ebrei, sono state proprio le immagini paterne di vecchi barbuti che hanno suscitato l’odio più forte nei persecutori.

Le spiegazioni che vengono fornite del fenomeno dell’antiebraismo tendono a mettere in evidenza conflitti simbolici che sono espressione di due grandi religioni antagoniste, ma in realtà affondano le loro radici in un passato primordiale. L’antisemitismo, che racchiude in sé tutti gli elementi antiebraici, sembra essere lo sbocco violento di conflitti latenti, che ha come fine ultimo l’annientamento della potenziale vittima.

Il fenomeno può essere descritto in forma metaforica. «Nel corso della storia» ha scritto Michel Marrus «il sentimento antiebraico si propaga come un virus, la cui forma non varia affatto, sempre in grado di contaminare le società vulnerabili.» Il microbo opererebbe indipendentemente dagli stessi ebrei e con il trascorrere del tempo resterebbe essenzialmente lo stesso a dispetto delle variazioni superficiali nella maniera di essere: molte accuse, dall’assassinio rituale all’avvelenamento dei pozzi, trovano nell’inconscio la loro spiegazione e attribuire agli ebrei poteri sovrannaturali o magici significa proiettare all’esterno angosce che sono interne.

La descrizione di Marrus, proposta come metaforica, in realtà è anche un’interpretazione del fenomeno perché contiene in sé l’accettazione di un antisemitismo metafisico, ne chiarisce non solo l’efficacia e la pericolosità, ma gli attribuisce un’invarianza costante nel tempo. Questa metafora di Marrus è una descrizione del fenomeno che nasconde le sue cause profonde più che spiegarle.

Cesare Lombroso, che ha precorso le idee di Marrus con alcuni decenni di anticipo, arrivò alla conclusione che l’antisemitismo esisterebbe allo stato latente a causa del segreto piacere provato da ogni uomo di sentirsi superiore ad altri. Questo stato di potenziale pericolosità, secondo lo studioso italiano, può diventare epidemico in condizioni economico-sociali particolarmente delicate con l’intervento decisivo di sobillatori delle masse. La sua conclusione è la stessa di Marrus: l’antisemitismo è una malattia endemica ed epidemica.

Emile Durkheim, il padre della moderna sociologia, ha interpretato invece il fenomeno antisemita come una malattia della società, conseguenza di una sua disorganizzazione, ma introducendo esplicitamente l’elemento decisivo del capro espiatorio. «Quando la società soffre» scrive Durkheim «essa prova il bisogno di trovare qualcuno a cui possa imputare il male, su cui essa possa vendicarsi della sua delusione; e per questo ruolo sono naturalmente designati quelli ai quali già si attribuisce un qualche sfavore dell’opinione. Sono i paria che servono da vittime espiatorie…»

Quando la società civile ha individuato il proprio capro espiatorio e ha trovato la fonte del male che l’attanaglia, pare che ciò sia sufficiente perché la situazione cambi, anzi è già cambiata.

In termini sociologici l’antisemitismo viene considerato per la prima volta un indice dello stato di salute della società: se è molto diffuso, allora l’intera società è in condizioni di sofferenza. Non è un caso che gli ebrei siano stati considerati capri espiatori ideali, soprattutto se non si dimentica che alla base di ciò vi sono stati secoli, per usare una felice formula di Jules Isaac, di insegnamento del disprezzo. Ma possiamo aggiungere altre considerazioni non marginali: gli ebrei sono sempre stati politicamente deboli perché minoranza, considerati stranieri, in una condizione costante di marginalità che ha favorito il coagularsi dell’aggressività sempre nella loro direzione.

Lo psicanalista ebreo Geza Roheim ha studiato, ispirandosi a Totem e tabù di Freud, le origini rituali della cerimonia del capro espiatorio e ha fatto l’ipotesi che esse debbano essere cercate nella ripetizione simbolica del conflitto tra il padre e il figlio, legandole ai riti ebraici della circoncisione. Singolarmente queste sue ipotesi si collegano alle parole di Spinoza e di Freud sull’importanza della circoncisione come segno distintivo ebraico ed elemento di sopravvivenza.

Hannah Arendt invece ha offerto una teoria essenzialmente politica dell’antisemitismo. Dopo aver distinto l’antigiudaismo medievale dall’antisemitismo moderno, è arrivata a dubitare addirittura che esistano tra i due fenomeni collegamenti stretti e che il secondo sia stato nutrito dall’odio religioso verso gli ebrei. Secondo la Arendt «la simultaneità del declino dello Stato-nazione europeo e dell’ascesa dei movimenti antisemiti, la coincidenza di un’Europa organizzata in nazioni e dello sterminio degli ebrei, preparato dalla vittoria dell’antisemitismo su tutte le altre ideologie nella lotta precedente per la conquista dell’opinione pubblica, indicano senza esitazione in quale direzione bisogna cercare la sorgente dell’antisemitismo».

Per dimostrare il legame che esiste tra discriminazione sociale e antisemitismo politico ha analizzato tre esempi: il caso Dreyfus in Francia, la Repubblica austriaca dopo la Prima guerra mondiale e la Germania nazista. In tutti questi casi si è fatto un uso politico del fenomeno antisemita per attaccare lo Stato e per indebolirlo. Fattori economico-sociali sono stati quindi la miccia che ha scatenato l’incendio del delirio antisemita.

Di tipo diverso, esistenzialista e fenomenologica, la riflessione di Jean-Paul Sartre sulla questione ebraica, riassunta in un breve saggio apparso in Francia nel 1947. Il filosofo francese non ritiene che l’antisemitismo possa essere considerato un pensiero protetto dal diritto di libera opinione e osserva che «del resto è tutt’altro che un pensiero, ma una passione. In questo senso l’esperienza non fa sorgere la nozione di ebreo, al contrario è questa che chiarisce l’esperienza; se l’ebreo non esistesse, l’antisemita lo inventerebbe». In armonia con la sua concezione filosofica più generale, Sartre ritiene che nessun fattore esterno può introdurre nell’antisemita il suo antisemitismo: «L’antisemitismo è una scelta libera e totale di se stessi, un atteggiamento globale che si adotta non solamente verso gli ebrei, ma verso gli uomini in generale, verso la storia e la società; è, a un tempo, una passione e una concezione del mondo. Indubbiamente in un determinato antisemita certi caratteri saranno più marcati che in un altro, ma essi sono sempre presenti insieme e si dirigono gli uni contro gli altri». Quest’ultima osservazione concorda con tutte le analisi della personalità autoritaria condotte dal gruppo della Scuola di Francoforte.

Ironico, il filosofo francese osserva che esiste un orgoglio appassionato dei mediocri e l’antisemitismo è un tentativo di valorizzare la mediocrità in quanto tale, di creare l’élite dei mediocri. Per l’antisemita l’intelligenza è ebraica, e lui può quindi disprezzarla, come tutte le virtù che possiede l’ebreo: esse sono dei surrogati che gli ebrei utilizzano per sostituire quella mediocrità equilibrata che sempre mancherà loro.

«Una delle componenti del suo odio è un’attrazione profonda e sessuale per gli ebrei. È appunto una curiosità affascinata per il male. Ma soprattutto (io credo) essa sorge dal sadismo.» Se gli antisemiti, come accade spesso, hanno amici ebrei che proteggono, questa è una specie di inversione del sadismo che coltivano e in tal modo si compiacciono di serbare ai propri occhi l’immagine vivente del popolo che esecrano. L’antisemitismo, in una parola, dice Sartre, è la paura di fronte alla condizione umana.

L’aspetto originale dell’analisi sartriana consiste tuttavia nella seguente osservazione: «L’antisemita rimprovera all’ebreo di essere ebreo; il democratico gli rimprovererebbe volentieri di considerarsi ebreo. Tra il suo avversario e il suo difensore l’ebreo sembra veramente a mal partito: sembra che non abbia altro da fare che scegliere l’albero a cui essere impiccato». I democratici non sono sufficientemente impegnati nella difesa delle differenze perché, pur non dichiarandolo esplicitamente, tendono a una società livellata. Non è esagerato «sostenere che sono stati i cristiani a creare l’ebreo provocando un brusco arresto della sua assimilazione… L’ebreo è un uomo che gli altri considerano ebreo… e in questo senso il democratico ha ragione contro l’antisemita: è l’antisemita che fa l’ebreo».

Sartre coglie nel segno quando dice: «L’ebreo è in situazione d’ebreo perché vive nel seno di una collettività che lo considera ebreo. Ha nemici appassionati e difensori senza passione», ma compie un errore quando pensa che sia stato l’antisemita a forgiare le caratteristiche ebraiche nella sua interezza. L’antisemita può aver forgiato alcuni aspetti esteriori dell’anima ebraica, può aver suscitato insicurezza e sofferenza, ma non ha mai toccato il nucleo più autentico. Esiste infatti un’identità culturale antica, un nucleo originale che non è frutto della storia, ma è frutto della Bibbia. Il filosofo francese, che pure rompe alcuni schemi politici e concettuali consolidati, dimentica o rimuove questa caratteristica essenziale. L’ebreo di cui Sartre dà un ritratto convincente è l’ebreo assimilato e borghese, magari francese e che oggi si fa chiamare Dupont; è ebreo ma non sa nulla delle proprie origini.

Pur non toccando tutti i contorni di un problema complesso, Sartre ha ragione tuttavia quando conclude che «il fenomeno primo è dunque l’antisemitismo, struttura sociale regressiva e concezione di un mondo prelogico» e che «l’antisemitismo è una concezione manichea e primitiva in cui l’odio per l’ebreo vi prende posto a titolo di grande mito esplicativo».

I miti non scompaiono necessariamente con le circostanze che li hanno creati; talvolta acquistano un’autonomia e una vitalità proprie che li guidano attraverso i continenti e attraverso i secoli, e così fu per la visione demonologica degli ebrei e del giudaismo.

Lo scrittore nero Richard Wright, a chi gli chiedeva informazioni sulla condizione della sua gente, rispose che non esisteva un problema nero negli Stati Uniti, ma solo un problema bianco. Analogamente si può dire che una questione ebraica non esiste ma piuttosto che c’è il problema di una questione antisemitica. Di fronte al XXI secolo occorre, contro ogni evidenza, avere fiducia e lavorare per rompere le barriere tra gli uomini.