«Mangio ergo sum»

Ciclicamente mio padre si metteva a dieta, ma mai perché gliel’aveva detto il dottore.

Le raccomandazioni mediche gli facevano un baffo, e non si poteva nemmeno insistere o dargli torto più di tanto, visto che, a parte un episodio, è sempre stato benissimo. Non ricordo che abbia mai preso medicinali, se non in casi rarissimi, quando proprio non poteva farne a meno. Beveva tutto il giorno acqua e limone, e il suo corpo funzionava perfettamente così com’era, nonostante la mole e le mangiate epiche.

Per mio padre il cibo era una goduria, una soddisfazione: amava i sapori decisi, i sughetti libidinosi in cui fare la scarpetta con il pane, le ricette semplici e abbondanti, e amava mangiare con gli altri.

Mangiare insieme era per lui un rito sacro. Negli ultimi anni, se non mi vedeva a pranzo mi invitava per cena, e viceversa. Gli piaceva avere ospiti, tant’è che chiedeva sempre a mia madre di buttare un chilo di pasta in più, «caso mai bussasse alla porta qualcuno di inatteso». «Cosa ti costa, Mariucci?» le chiedeva. «Alla peggio si butta, ma vedrai che non avanza. Non risicare, che se arriva qualcuno non abbiamo niente da offrirgli.» Era una bugia bianca affinché in tavola ci fosse un piatto di pasta «abbandonato» da cui pescare, cosa che faceva regolarmente benché la sua porzione fosse già assurda: se tutti avevano una fondina, lui aveva una teglia.

Mia madre ogni tanto cercava di fare il contrario, ovvero di limitare la quantità di cibo. Lui se ne accorgeva subito e le spiegava ogni volta che mangiare tanto per lui non era uno sfizio, ma un bisogno che aveva da sempre: «Quando ero neonato mia madre non aveva il coraggio di offrirmi un misero biberon, com’era la regola, ma aveva escogitato un sistema tutto suo per approvvigionarmi della quantità di latte necessaria: ne preparava tre e io mi ci attaccavo fino a sazietà».

Mia nonna, Rina, era la regina dei sapori.

Era una bella donna, minuta, elegante, dolcissima. Un ricordo vividissimo che ho di lei la ritrae nella sua cucina, tra pentole e fornelli, mentre ride. Non c’è il suono, è come un fotogramma di un film muto, ma vedo chiaramente la bocca aprirsi in un sorriso e la testa spingersi appena all’indietro. Papà la adorava, ricambiato.

La domenica mattina, nella casa ai Parioli dove mio padre era cresciuto, cucinava ore per preparare un sontuoso pranzo per tutta la famiglia. Eravamo tanti: oltre a noi cinque, c’erano ovviamente i nonni e zia Vera con i suoi tre figli. Per l’occasione il tavolo da pranzo rettangolare veniva allungato con due prolunghe di legno e imbandito con una tovaglia bianca e il servizio di piatti riservato alle grandi occasioni.

Il profumo che usciva dalla porta della cucina era così inebriante che lo seguivo e mi intrufolavo in quel regno odoroso, con la speranza nemmeno troppo segreta di ottenere un pezzetto di pane da intingere nel sugo mentre ancora sobbolliva sul fuoco. Nonna di solito apriva una scatola di metallo e ne estraeva una zolletta di zucchero, che mi offriva chiedendomi di attendere, come premio per la mia pazienza. Mi piaceva passare del tempo in cucina con lei, seduta su una sedia di legno vicino ai fornelli. Facevo dondolare i piedi, che ancora non toccavano terra, e nel frattempo osservavo i suoi gesti e ascoltavo le sue storie. La nonna mi raccontava che papà da piccolo non avrebbe smesso mai di mangiare, così lei, per paura che stesse male, chiudeva frigorifero e credenza con un lucchetto. Un giorno, avrà avuto un paio d’anni, l’aveva trovato seduto per terra alle prese con una grande scatola di cioccolatini che avevano regalato a suo padre. Quando gli si avvicinò, scoprì che la scatola era vuota: aveva mangiato tutti i cioccolatini! «Come ogni madre» mi disse «temevo che sarebbe stato malissimo. Invece, al contrario, con la pancia così piena il tuo papà dormiva persino meglio, aveva un sonno più profondo.»

Un anno, forse era il 1976, decidemmo di passare il Natale in Colombia. I miei genitori volevano rivedere una coppia di cari amici che non frequentavano da un po’, Jacqueline e Salvo Basile, e dopo le feste papà avrebbe cominciato a girare un film proprio a Cartagena.

Partimmo carichi di regali e di un colossale panettone da cinque chili, allora introvabile fuori dall’Italia. Sull’aereo papà lo infilò a forza nella cappelliera con gli altri bagagli a mano, tra le occhiatine ironiche dei passeggeri vicini, che devono aver pensato: «Ecco i migranti italiani, che partono con i dolci in valigia…».

Volavamo con Iberia, il nostro volo faceva scalo a Madrid e sarebbe atterrato a Bogotá dopo dieci ore. Quando fummo pronti per ripartire, un’hostess annunciò in varie lingue che, a causa di uno sciopero improvviso, non era stato possibile caricare il vitto sull’aereo. Niente pasto, dunque. La notizia fu accolta inizialmente con una certa superficialità, ma con il passare delle ore la fame si fece sentire. Io e i miei fratelli attaccammo con un lamento infinito. A un certo punto mia madre ebbe un’illuminazione e, raggiante, esclamò: «Ma c’è il panettone!».

Non l’avesse mai detto! Mio padre tuonò che il panettone era intoccabile, era un regalo per Jacqueline e Salvo. E poi era impensabile passare un Natale senza, non dovevamo nemmeno pensarci!

I Natali con lui erano e sono sempre stati molto tradizionali. Lui si occupava innanzitutto dell’albero, chiaramente di dimensioni esagerate, vero, con le radici e in vaso, in modo da poterlo poi ripiantare nel giardino della casa di campagna, a Morlupo, un piccolo paesino vicino a Roma. Per la nostra famiglia è un luogo molto speciale: abbiamo passato lì i nostri momenti più felici, le feste, i matrimoni, le comunioni e i battesimi dei nostri figli. È il nostro piccolo paradiso. La chiamiamo «Tara», perché mia madre ha per questo posto lo stesso attaccamento che Rossella O’Hara aveva per la sua terra. La casa è immersa in un ampio terreno coltivato, con orti, alberi da frutto e un piccolo vigneto.

Noi fratelli all’inizio di dicembre uscivamo al seguito di nostra madre armati di ceste per raccogliere muschio fresco, la base per il presepe: sopra vi posizionavamo con cura specchi per i laghetti, carta crespa per le montagne, carta stellata per il cielo e le statuine.

Era tutto bellissimo, ma la festa non sarebbe stata perfetta se, il giorno di Natale, papà non si fosse occupato del lato goliardico: coordinava la cucina, raccontava barzellette con una mimica sorprendente e faceva da mazziere per il mercante in fiera.

Quella volta, in aereo, mia madre lo lasciò dire, sicura che, di lì a poco, avrebbe avuto fame anche lui. Cosa che infatti accadde: a quel punto, mio padre finse di non voler più sentire le nostre lagne e ci accordò il permesso di salire sui sedili ed estrarre il magnifico panettone. Moriva dalla voglia di mangiarlo, era evidente, ma faceva l’indifferente. Cominciammo così a scartare quel tesoro sotto gli sguardi famelici degli altri passeggeri. Quando aprimmo l’involucro, un effluvio delizioso invase tutta la cabina, svegliando anche chi dormiva. A quel punto, tutti ci fissavano. Papà si sentì in obbligo di invitare i vicini ad accettare un assaggio del nostro pranzo improvvisato. E fu così che, strappandolo pezzo dopo pezzo con le mani, mangiammo tutto il panettone. Con lui, scomparve anche il tentativo di mio padre di godere di un pranzo di Natale tradizionale ai Caraibi. In compenso, all’arrivo a Bogotá i passeggeri ci salutarono con un applauso interminabile, rivolto non all’attore, ma al proprietario di un succulento panettone italiano!

Non ricordo con esattezza quando papà abbia cominciato a filosofeggiare sul cibo, probabilmente nel momento in cui le ricette che amava di più erano diventate sconsigliate, a causa dell’età e degli acciacchi. È partito dal motto «Mangiare è come respirare» per arrivare a sovvertire quello di Cartesio «Cogito ergo sum», trasformandolo in «Mangio ergo sum». Mettersi in competizione con Cartesio era un divertissement, una boutade da teatro dell’assurdo, ne era ben consapevole e ci si divertiva moltissimo; tuttavia, a volte, fiero della sua arguzia, con una punta di serietà ci chiedeva: «Ma ditemi voi se riuscite a pensare quando siete affamati…».

Stare a dieta per lui era contro natura: gli si chiedeva di rinunciare a qualcosa di fondamentale, di avere fame, tutto il giorno e tutta la notte, soffrendo e riuscendo a pensare solo al cibo. Per questo decideva di trattenersi per le due sole ragioni che considerava degne di tale impresa: o perché era troppo grosso per girare o perché era troppo pesante per pilotare l’aereo.

Diventava nervoso ancor prima di cominciarla, la dieta. Infatti, appena notavamo che nostra madre aveva preparato meno cibo del solito e lui polemizzava, noi figli alzavamo le antenne e, a turno, lanciavamo il grido d’aiuto: «Presto, dategli un panino!».

L’unica dieta che abbia mai seguito con piacere si chiamava Scarsdale. Veniva dagli Stati Uniti ed era nota come dieta miracolosa, visto che prometteva ingenti perdite di peso in un brevissimo periodo di tempo. Inoltre, non era rigida sulle quantità: non richiedeva di pesare gli alimenti, ma anzi concedeva di mangiare in certi giorni cibi «a volontà», a volte la frutta, a volte la verdura, a volte la carne e così via. Papà interpretava quell’«a volontà» alla sua maniera: se era il turno della frutta, per esempio, mangiava magari sei arance, cinque mele, quattro banane e montagne di frutti di bosco. L’apoteosi la raggiungeva quando toccava alla carne: allora si impadroniva del piatto da portata dove mia madre aveva messo i dieci hamburger che avrebbero dovuto sfamare tutta la famiglia e, se lei tentava di frenarlo, ribatteva: «Leggi qua! Non vedi che c’è scritto “carne a volontà”? Sto seguendo la dieta alla lettera! Se hai fatto pochi hamburger preparane altri per i ragazzi».

Era insaziabile, nella realtà come nei film. Ogni tentativo di farlo ragionare cadeva nel vuoto: continuava a ripetere che se il medico che aveva inventato la dieta Scarsdale aveva scritto «a volontà» un motivo ci sarà ben stato, e se non conosceva la sua, di volontà, peggio per lui!

Nel 1986 Renato Pozzetto e Carlo Verdone recitarono in un film dedicato al fenomeno emergente delle cliniche dimagranti. Il titolo era Sette chili in sette giorni. Questi luoghi promettevano risultati spettacolari, per di più in contesti parecchio allettanti, e così anche mio padre decise di provare. Per una settimana il suo guru sarebbe stato un dottore tedesco, che assicurava di fargli perdere cinque chili in sette giorni. Si ricoverò (si fa per dire, visto l’ambiente alquanto lussuoso) insieme a un amico fissato con le diete. Al loro arrivo il dottore li sottopose a tutti gli esami di rito e diede loro appuntamento per la sera. Poiché erano arrivati nel pomeriggio e avevano fatto uno spuntino, mio padre giunse senza problemi all’ora di cena. Si sedette nella sala ristorante, così sfarzosa da far dubitare che tutto quel lusso dovesse far dimenticare la scarsità del cibo, e attese che i camerieri servissero anche a lui i piatti coperti da elegantissime cloche che vedeva recapitare agli altri tavoli. Era certo che le cloche celassero una fregatura: quella sera la fregatura era una soglioletta rinsecchita delle dimensioni di un’alice. Papà la lasciò nel piatto e, con una scusa, tornò in camera, uscì dalla finestra e, tecnicamente, evase dalla clinica per raggiungere un ristorantino che aveva adocchiato lungo la strada. Ordinò all’oste tutto il meglio che aveva e pagò un conto esorbitante, del quale andava fierissimo: alla faccia di tutte le diete del mondo!

Qualche anno dopo, era il 1993, il commercialista di famiglia aprì una spa superaccessoriata nella campagna umbra, a Melezzole, e invitò i miei genitori, che accettarono con piacere. Al mattino si godettero massaggi e trattamenti, papà sopportò persino l’incontro con un nutrizionista. I problemi sorsero all’ora di pranzo, quando, sotto le consuete raffinatissime cloche d’argento, gli venne servita un’ala di pollo. A mia madre avevano portato una coscia: generosamente lei gli propose di fare uno scambio, ma lui si era già innervosito. Afferrò il menu, e con un certo conforto scoprì che la pietanza in arrivo era l’aragosta all’arancia. «Bene» pensò «il pesce è dietetico ma l’aragosta è pur sempre prelibata». Così mangiò la sua ala di pollo, in attesa della portata successiva. Quando aprì la cloche sotto la quale avrebbe dovuto trovare un trionfo di crostacei, vide una fetta d’arancia decorata con zampette e una codina intagliate nella buccia: nella mente perversa dello chef, quella era l’aragosta! Senza dire una parola, papà si alzò e si fece condurre da un autista nel miglior ristorante della zona, dove festeggiò il primo giorno della sua vita senza dieta con una sontuosa pasta e fagioli.

Aveva una tale stazza che, quando dovette subire un intervento agli occhi, l’anestesista non riuscì ad addormentarlo con le dosi convenzionali di medicine.

Doveva operarsi per evitare il distacco della retina. Il chirurgo era un suo amico carissimo, il professor Mario Stirpe. Da preoccupate che eravamo, mamma e io ci trovammo catapultate in una serie di situazioni una più esilarante dell’altra.

La suora che doveva prepararlo non riusciva a trovare un camice delle sue dimensioni, ogni tentativo risultava vano. Per nulla presa dallo sconforto, si assentò e dopo poco fece ritorno e, al posto del camice, consegnò a mio padre due lenzuola cucite alla meglio, con due fori sforbiciati per far passare le braccia. Papà si divertì molto e così abbigliato fu condotto in sala operatoria.

Mamma e io potevamo assistere all’intervento da una camera attigua, attraverso un monitor. Da lì ci godemmo la scena dell’assistente del chirurgo che lanciò l’allarme: «Professore, il signor Pedersoli non entra nel lettino!».

«Mettete una prolunga» rispose ironicamente il chirurgo.

Trovato il modo di risolvere quella situazione imbarazzante, quando il chirurgo chiese all’anestesista: «Ha già iniettato il Pentothal?» quello confermò: «Sì, 5 cc!».

Il professore annunciò allora l’inizio dell’intervento: «Bene, possiamo cominciare».

Dopo pochi istanti si sentì tuonare la voce di mio padre, che spaventò sia l’équipe medica sia noi: «A’ Mario, ma che vuoi incominciare: io sono ancora sveglio!».

Il Pentothal non faceva effetto, l’anestesista non credeva ai suoi occhi: la mascherina era troppo piccola e non aderiva al volto di papà. La barba non era certo d’aiuto, ma, insomma, non si trovava un erogatore delle giuste dimensioni. Il professore cominciava a indispettirsi, papà a innervosirsi e il povero anestesista era sempre più nel panico. Mamma e io, nella stanza accanto, eravamo le uniche a sghignazzare. Alla fine sentimmo la voce spazientita del professore: «Intubatelo, non c’è verso di addormentarlo!».

A operazione terminata il professor Stirpe ci rassicurò sull’esito positivo dell’intervento e ci confidò che l’anestesista, stupefatto dalla situazione, aveva commentato: «Anestetizzare Pedersoli è stato come cercare di sedare un pachiderma con anestetici per l’uomo!».

Fare la spesa con mio padre era un’esperienza ai confini della realtà. Quando lo accompagnavamo a Miami, dove negli anni settanta girava spesso, portava me e i miei fratelli al supermercato, prendeva un carrello (un enorme carrello americano) e ci permetteva di riempirlo con qualsiasi cosa. Noi impazzivamo di gioia e ci divertivamo come matti a pescare buste e scatolette con i junk food più assurdi e fantasiosi, mentre lui sceglieva senza ritegno salse, creme e maionesi aromatizzate. Alla fine dal carrello spuntava una montagna di cose assolutamente inutili, che infilavamo in sacchetti extralarge e consegnavamo a nostra madre, disperata perché non aveva idea di come utilizzare tutta quella roba.

Negli ultimi anni aveva preso a fare la spesa anche in Italia (abbondando, naturalmente), cosa che prima gli era capitata piuttosto raramente. Lo faceva se, per esempio, sapeva di aver invitato una dozzina di persone a pranzo senza aver avvisato mia madre: così poteva presentarsi alla porta non solo con il problema (gli ospiti), ma anche con la soluzione (sacchi della spesa contenenti chili e chili di cibo).

Un giorno decise di preparare una zuppa di pesce colossale. Acquistò una quantità industriale di pesce e incaricò tutta la famiglia di pulirlo per bene. In quattro dedicammo il pomeriggio a spinare e pulire orate e gamberoni, mentre lui attendeva che finissimo, trionfante alla sola idea di essere lo chef. Certo, il grosso del lavoro era più nostro che suo, ma quando dalla cucina cominciò a spargersi un profumo delizioso ci dicemmo che ne era valsa la pena. I vicini devono aver pensato lo stesso, perché si affacciarono alle finestre chiedendo che cosa stessimo preparando. Papà li invitò tutti, naturalmente accompagnati. Alla fine, a tavola eravamo dieci in più del previsto.

La zuppa fu un grande successo e sancì definitivamente il talento di mio padre come cuoco. D’altra parte, non poteva essere altrimenti: era nato di oltre sei chili.