Quando studiavo per il mio primo esame all’università, Psicologia generale, mio padre mi vide alle prese con un tomo di quattrocento pagine e pensò bene di rendere il tutto più interessante: «Dai, studiamocelo stanotte» mi sfidò.
Io sollevai gli occhi dal libro e lo osservai esterrefatta. Una parte di me pensava: «Deve essere matto», l’altra era invece ben consapevole che lui considerasse quella proposta del tutto realistica.
Aveva una memoria prodigiosa. Per fare un solo esempio, quando doveva sostenere la visita oculistica per il rinnovo del brevetto da aviatore distraeva il medico e, nel frattempo, memorizzava l’intera tavola optometrica. Aveva una miopia fortissima, che con gli anni non faceva che peggiorare: se non fosse ricorso a questo trucco non sarebbe mai stato in grado di leggere le letterine più piccole e guadagnarsi il rinnovo. Sembra incredibile, ma in questo modo è sempre riuscito a cavarsela, e ad avere nel portafoglio il tesserino con un brevetto da pilota in corso di validità.
Quella sera, dunque, gli risposi sottolineando l’evidenza: «Papà, in una notte io non riuscirei nemmeno a leggerlo tutto, per studiarlo ho bisogno almeno di un mese». Prima di dormire provai a dedicarmici, ma rimanere sveglia per tentare un’impresa impossibile (e perché, poi?) era fuori discussione. A una cert’ora, quindi, riposi il libro e mi misi a dormire.
La mattina dopo, al tavolo della colazione, papà cominciò a farmi qualche domanda mirata. «Non dirmi che l’hai letto tutto!»
«Certo! L’ho anche memorizzato.»
Morale: io mi ero fermata a pagina 10, lui l’aveva terminato. Mi chiese di interrogarlo, quindi gli feci qualche domanda tenendo il testo davanti e rispose a tutto. Aveva studiato in una notte un libro di Psicologia.
Ci prese gusto e si iscrisse anche all’università. Diede due o tre esami (tutti trenta e lode), poi lasciò. Si vede che la laurea non era nel suo destino.
Dopo Chimica (abbandonata per cause di forza maggiore dopo una decina di esami), al ritorno a Roma, nel 1948, si iscrisse a Giurisprudenza, pensando che gli avrebbe lasciato più tempo per gli allenamenti di nuoto, cosa che in effetti per un certo periodo accadde.
Come atleta della S.S. Lazio Nuoto partecipò a una serie di gare nello stile libero, nella farfalla e nella staffetta, ed entrò a far parte della squadra di pallanuoto.
Il 1950 fu il suo anno d’oro. Conquistò tre titoli italiani (100 metri stile libero, staffetta 3x100 e 4x200) e centrò un record memorabile: nella piscina di Salsomaggiore divenne il primo italiano a scendere sotto il minuto nei 100 metri stile libero. Precisamente, li percorse in 59’’7. Gli allenatori erano così esaltati che si buttarono vestiti nella vasca per abbracciarlo!
Allora venne a contatto per la prima volta con la metamorfosi del successo in notorietà. Fu fotografato, intervistato, celebrato, posto al centro dell’attenzione generale. Conservò il titolo per dieci anni, continuando a migliorarlo, e per tutto il resto della vita si interrogò sulla differenza tra il successo sportivo e la fama che deriva dal cinema.
«Nello sport il successo è tuo» diceva «se un campione vince nessuno può togliergli quella vittoria. Nel cinema viene da altri, è il pubblico a decretare chi ha successo e chi no, e come l’ha dato può toglierlo in qualsiasi momento. Il successo cinematografico non ci appartiene mai, bisogna essere preparati a fare senza.»
Questo tipo di saggezza, che diventò nel tempo una sua caratteristica preponderante, al tempo non era ancora così a fuoco. Parliamo di un ragazzo giovane, prestante, simpatico, che si getta nel mondo con l’entusiasmo dei vent’anni e riceve in cambio tutto ciò che potrebbe desiderare: vittorie sportive, riconoscimenti, l’interesse delle ragazze e degli amici, possibilità che si aprono nel mondo del cinema.
All’inizio degli anni cinquanta capitava di frequente che a Roma si installasse qualche megaproduzione americana. Dal momento che le riprese duravano mesi, chi riusciva a ottenere una particina in questi colossal si sarebbe garantito un’entrata che poteva considerarsi quasi una rendita fissa. Grazie al suo fisico, papà riuscì ad accaparrarsi in diverse occasioni ruoli come «generico», qualcosa di più di una comparsa, molto meno di un attore. Il generico è un personaggio che ritorna più volte, ma che non ha battute, o ne ha giusto un paio, poco significative. So che ha vestito i panni di un pretoriano in Quo vadis e di un carabiniere in Addio alle armi, ma niente di più. Non aveva mai desiderato recitare, non cercava di entrare nel mondo del cinema: per lui quei ruoli erano solo un modo per guadagnare qualche soldo mentre nuotava. Era lì, nel nuoto, che concentrava le sue energie, e infatti è in quel campo che ottenne risultati.
Aveva imparato a nuotare nel 1933, a Seiano, una piccola località di mare vicino a Napoli. Glielo insegnò, se questa può essere la parola adatta, Ninuccio Savarese, un marinaio amico di famiglia: Ninuccio lo prese, lo legò a una corda e lo buttò in mare. Mio padre aveva due alternative: restare a galla o andare a fondo. Rimase a galla. Quel tuffo improvviso per lui non fu un trauma, ma una bella sorpresa: cominciò a nuotare a cagnolino e scoprì che il suo elemento naturale non era la terra, ma l’acqua, dove per tutta la vita si è sentito leggero, meravigliosamente libero.
Nel 1951 prese parte ai Giochi del Mediterraneo di Alessandria d’Egitto, vincendo due argenti. L’anno successivo fu selezionato per le Olimpiadi di Helsinki del 1952. Gli allenamenti presero uno spazio tale da impedirgli di proseguire gli studi, che interruppe per un breve periodo, pensando: «Vado alle Olimpiadi, torno e riprendo». Così fece, senza immaginare che dopo quella prima Olimpiade ne sarebbe venuta una seconda, a Melbourne. Lasciò l’università a due esami dalla fine.
Nei quattro anni che dividono un’Olimpiade dall’altra gli successe di tutto: studiò, partecipò a nuovi film, vinse altre medaglie, segnò un nuovo record nei 100 metri stile libero (58’’2), fu convocato nella nazionale di pallanuoto, dove si distinse per le sue cannonate, al punto da guadagnarsi il soprannome di Bomber. Nel 1949 segnò quaranta reti in nove partite!
Ma ancora era niente rispetto alla concentrazione di eventi del 1956. Partecipò alle Olimpiadi di Melbourne. Al ritorno, venne invitato insieme ad Angelo Romani, primatista nei 400 metri stile libero, all’Università di Yale, negli Stati Uniti. Un onore riservato a pochi. Lì passò sei mesi tra allenamenti e gare, assaporando poco l’America e imparando una dozzina di vocaboli di inglese, anche perché divideva la camera con il campione giapponese, che non conosceva nemmeno quelli.
Poi partì, per conto suo, e andò a vivere quello che lui considerava il momento davvero mitico della sua storia.
I lettori potrebbero obiettare: «Cosa può esserci di più leggendario di vivere due vite, una prima come sportivo di rilevanza nazionale, due volte olimpionico, e una seconda come attore noto in tutto il mondo?».
Mio padre risponderebbe che la vera avventura è comprendere se stessi, mettersi alla prova, capire chi si è. Aveva ventisette anni e tutto ciò che poteva desiderare: era un affermato campione di nuoto, un tombeur de femmes, era innamorato, aveva un’automobile americana, amici e feste cui partecipare, la mamma che gli stirava le camicie e un tetto sopra la testa, ma non sapeva chi era. «Così sono andato in Venezuela» raccontava, «un posto dove non ero mai stato, e mi hanno sbattuto in piena giungla amazzonica a costruire strade. Lì fui costretto a capire se ero coraggioso oppure no, se avevo i nervi a posto oppure no. Quella è stata la fase più importante della mia vita, e grazie a questo ho poi deciso tante cose che forse, altrimenti, non avrei mai fatto.»
Per un anno e mezzo ha lavorato come capocantiere per l’azienda che lavorava alla Panamericana, una rete di quasi trentamila chilometri di strade che si snodano lungo la costa pacifica del Sudamerica. Le prime notti le ha passate a piangere nella sua baracca, poi ha capito chi era (o forse ha deciso chi voleva essere), ha smesso con le lacrime e ha cominciato a costruire se stesso.
Secondo il suo allenatore, Umberto Usmiani, papà avrebbe potuto essere uno dei primi tre al mondo nello stile libero, se solo avesse smesso di fumare e si fosse allenato con maggiore costanza. Ma lui non aveva la benché minima intenzione di fare né l’una né l’altra cosa: riteneva il tempo un bene primario e, in virtù della sua scarsità, non intendeva rinunciare a nessuna delle mille opportunità che la vita gli offriva.
I suoi racconti del periodo venezuelano per me erano favole, rese ancora più entusiasmanti dal fatto che il protagonista non fosse un personaggio inventato o uno sconosciuto, ma il mio papà. Era lui che si era spinto ai confini del mondo conosciuto, che aveva fronteggiato uomini armati, che aveva mercanteggiato con gli indigeni, che aveva costruito capanne nella giungla!
La mia storia preferita era quella del machete. Come tutti i bambini, anch’io ero abitudinaria e gli chiedevo di ripetermela dieci, venti, trenta volte. Lo facevo anche con la barzelletta del topo e del leone: mi divertivo talmente che papà accettava di replicarla anche dieci volte di seguito, modulando la voce per meglio interpretare i due personaggi, gonfiandosi quando a parlare era il leone e cercando di rimpicciolirsi quando mimava il topolino.
Quando era in vena di storie, con pazienza, sorrideva e attaccava: «Mi trovo nella giungla amazzonica, devo costruire una strada per congiungere alcuni villaggi rimasti isolati e privi di servizi. Durante il sopralluogo per decidere il percorso, senza creare troppi danni all’ambiente, ci ritroviamo in un villaggio non segnato sulla carta. Più che un vero e proprio villaggio è un agglomerato di baracche lungo una strada di fango. Gli unici esseri viventi sono animali da cortile e un cane macilento, che scappa via appena vede arrivare il nostro camion. Spento il motore, io e un mio collega cerchiamo qualcuno con cui parlare. Volevamo capire dove fossimo e, magari, bere qualcosa: avevamo finito l’acqua e l’umidità era insopportabile.
Ai margini del villaggio, vicino alla giungla, vediamo una specie di taverna, una bettola da quattro soldi che stava in piedi per miracolo. Decidiamo di provare lì. Tocco la porta e questa scricchiola sotto il peso della mia spinta. Non si vede quasi niente: la luce filtra attraverso una finestra semichiusa. Di fronte a me c’è un bancone di legno, lungo tutta la parete; dietro, scaffali impolverati carichi di bottiglie mezze vuote. Fortissimo, l’odore di chicha».
Ormai sapevo perfettamente cosa fosse, ma ogni volta rimanevo fedele al nostro rito e gli chiedevo: «Cos’è la chicha?».
«La chicha è una bevanda alcolica che si ottiene masticando il mais e sputandolo in vasi di terracotta dove fermenta, prima di essere bevuta.»
Urlavo disgustata per quella che consideravo una vera schifezza, minacciando di vomitare all’istante. Poi papà riprendeva il racconto.
«Be’, chiedo da bere. Poco più in là, se ne stava appoggiato al bancone, a bere per conto suo, un tizio con un cappellaccio dalla falda larga, una specie di sombrero, calato sugli occhi. Quando sente la mia voce, solleva lentamente il cappello con l’indice e comincia a fissarmi. Il suo sguardo non lascia dubbi: sta cercando un pretesto per attaccar briga. Farfuglia qualcosa in una lingua che non conosco, l’uomo dietro il bancone se la svigna nel retro senza servirci da bere e rimane a sbirciare la situazione da dietro uno stipite.
“Señor, mi state disturbando” attacca. “Siete uno sporco europeo. Gli europei sono vigliacchi, assassini, distruggono ogni cosa, fate i prepotenti solo con chi non può difendersi… Non è vero, señor?”
Lo lascio parlare e, nel frattempo, gli vedo scivolare in mano, spuntato dal nulla, un lungo, affilato machete, di quelli che si usano per aprirsi una strada nella giungla. Continuo a osservarlo in silenzio, attento a ogni suo gesto. L’uomo si scosta dal bancone, ha il machete nella mano destra, il braccio che pende lungo il fianco. Comincia ad avanzare lentamente verso di noi, e riprende a parlare: “Voi siete uno sporco bianco, di quelli che frustano la gente, ma io sono pronto a battermi. Non ho paura di voi, vi farò pentire di tutto ciò che avete fatto alla mia gente”.
Il tizio è ormai vicino a me, così vicino che sento il suo alito puzzare di alcol. Da un momento all’altro potrebbe scattare, ma non voglio fare la prima mossa, non spetta a me. Sono pronto, ma non intendo affrontare un uomo in quelle condizioni, per di più armato di un machete. Non ho mai portato armi né volevo che le portassero i miei uomini.
Così, senza perdere il contatto visivo, gli tuono in faccia: “Voi avete un machete, ma non mi fate paura. A voi serve un’arma per uccidermi, io posso fare lo stesso usando solo la mia forza. Avete un solo colpo: se lo sbagliate, sappiate che non avrete scampo”.
Il tizio non si aspettava che reagissi con le parole, quindi rimane interdetto, dandomi il tempo per urlare al barista di venir subito fuori e di portare da bere per me e per lui.
E fu così che la mia sicurezza intaccò la sua e, grazie a quell’offerta di pace, mi sentii dire che ero un bianco diverso dagli altri e bevemmo insieme. A fine giornata fece in tempo a regalarmi il machete prima di finire disteso sotto il bancone, ormai completamente ubriaco».
È accaduto veramente? Non ne ho idea, però una volta, in occasione di una di quelle discussioni che nascono in mezzo alla strada, mio padre ha accostato la macchina dietro quella dell’altro automobilista, che è sceso e ha cominciato a camminare verso di noi armato di cric. Al che è sceso anche papà, rivelando la sua enorme mole, e l’ha avvisato: «Vedi di prendermi bene, perché se non lo fai ti prendo io, e non so come va a finire». L’automobilista, capito con chi aveva a che fare, ha immediatamente fatto marcia indietro, balbettando: «No, scusi, un malinteso, non volevo…» e si è defilato alla velocità della luce.
In un’altra occasione, era presente mia sorella Diamante, papà stava per attraversare la strada a piedi, con lei, alcuni suoi amici e Giorgio, il suo autista. Sfrecciò loro davanti un giovane motociclista che per poco non investì Giorgio. In risposta, lui gli fece segno con le mani di rallentare. Il motociclista a quel punto inchiodò, tornò indietro e si avvicinò al loro gruppetto. Smontò dalla sella e prese a insultare l’incolpevole Giorgio, che nulla aveva fatto tranne rischiare di essere travolto. Papà inizialmente rimase in disparte, poi si avviò verso il motociclista, che sbraitava e si agitava. Quando lo raggiunse, gli prese il casco e lo lanciò lontano, come a dire «lascia perdere». Il ragazzo, sulle prime spavaldo e irrispettoso, si paralizzò non appena vide una gigantesca mano afferrarlo per la giacca, sollevarlo e spostarlo un po’ più in là, e rimase di stucco quando realizzò chi era il proprietario della mano, uno che di risse era sicuramente più esperto di lui. Deve essere sembrata una scena dei film di papà, perché scoppiarono tutti a ridere fragorosamente; meno allegro era il ragazzo che, senza accorgersene, aveva rischiato di cominciare una scazzottata con Bud Spencer.
A parte questi due casi, mio padre preferiva ricorrere alle parole, anche con le persone molto arrabbiate. Considerava sensato usare le mani solo se la persona finiva i vocaboli e lo aggrediva, esattamente ciò che accadeva nei suoi film: i cowboy erano notoriamente gente di poche parole, incapace di esprimersi compiutamente, quindi finivano per forza con il menare le mani…
Un’altra volta, sempre in Amazzonia, ha rischiato di venire trafitto da una freccia.
«Stavamo costruendo un sistema per raccogliere e incanalare l’acqua piovana lungo quello che sarebbe stato il tracciato della strada» mi raccontò. «Per farlo ci servivamo di enormi tubi di cemento, che trasportavamo con i camion e depositavamo man mano dove la strada sarebbe passata. Ero con tre o quattro compagni, stavamo scaricando in piena giungla, quando, improvvisamente, ci trovammo circondati dagli indios. Erano usciti dal nulla e armati di archi con frecce lunghissime. Li tenevano puntati verso di noi, le facce e il corpo dipinti, i capelli agghindati con piume. Alcuni avevano il naso forato da lunghi ossicini, altri i lobi delle orecchie deformati da ornamenti rotondi, altri ancora portavano braccialetti colorati attorno ai bicipiti, stretti come lacci. Tutti erano nudi o quasi. Urlavano come dannati, avanzando lentamente con le frecce incoccate: decisamente, non eravamo i benvenuti. A un certo punto, così come erano apparsi, svanirono.
Noi riprendemmo il lavoro, increduli, ma di lì a pochi istanti si scatenò un acquazzone torrenziale. Per non rimanere impantanati con i camion decidemmo di abbandonare la zona e di lasciare i tubi dove li avevamo scaricati. Quando smise di piovere, tornammo al cantiere e… che cosa trovammo?»
«Che cosa, papà, che cosa?!» Non stavo nella pelle, friggevo per la curiosità.
«Gli indios non erano scomparsi nel nulla: l’acquazzone aveva distrutto le loro capanne, così avevano pensato di trasformare i nostri tubi nelle loro case. Ci si erano sistemati con le famiglie: vi avevano trasportato i giacigli per dormire e tutte le loro suppellettili. Avevamo un bel problema: gli indios non volevano saperne di andarsene e di restituirci i tubi-capanna. Anzi, quando capirono che non avevamo nessuna intenzione di mollare i tubi, tesero gli archi e incoccarono le frecce. In fondo stavano difendendo le loro famiglie, e per questo sarebbero stati capaci di uccidere. Tentammo di allontanarli, ma fummo costretti ad arrenderci: se avessimo continuato ci avrebbero mandati via loro, ma al Creatore!
Per conquistare la loro fiducia decidemmo momentaneamente di non insistere con la richiesta e di donargli parte delle nostre scorte di vivande, per lo più scatolame. La cosa fu assai gradita perché i cacciatori, a causa della pioggia, non avevano potuto procacciare cibo. Quando gli animi si furono calmati, regalammo loro piccoli attrezzi da lavoro e orpelli luccicanti. Li gradirono, ma la situazione si risolse definitivamente solo quando li aiutammo a ricostruire le loro capanne, al riparo della giungla.»
Controbattere all’universale linguaggio delle armi con il linguaggio universale del cibo era molto da mio padre. A pancia piena per lui era tutto più facile, sia il perdersi in dilemmi filosofici sia il trovare una soluzione alle dispute.