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Un gruppo di corvi banchetta vicino a uno dei miei punti di osservazione nascosti. La foto è stata scattata con un obiettivo da 400 mm da una delle finestre di casa mia a Hinesburg nel Vermont.

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UN ESPERIMENTO DI CAMPO

Per anni mi sono chiesto se in natura i corvi che trovano una fonte di cibo «chiamino i rinforzi» e invitino altri individui a unirsi al banchetto.

Per verificare le proprie ipotesi si possono creare situazioni artificiali ma plausibili in esperimenti di campo. Naturalmente, il procedimento presenta delle difficoltà, non ultimo il fatto che molto spesso l’oggetto della ricerca decide di non presenziare e non partecipare al vostro esperimento. Se poi per caso si presenta all’appello, il più delle volte è animato da intenzioni su cui voi non avete alcun controllo. All’inizio degli anni Ottanta il mio approccio abituale consisteva nel trascinare una carcassa in mezzo al bosco e poi rimanere nascosto nei dintorni sperando di osservare qualche comportamento interessante. Dopo quattro anni e migliaia di ore di osservazione, ero giunto alla conclusione che diverse coppie di corvi adulti risiedevano stabilmente vicino all’area in cui effettuavo le mie ricerche, mentre i giovani sembravano vagare da un posto all’altro e comparivano solo di tanto in tanto. Gli adulti normalmente difendevano le carcasse allontanando i giovani. Almeno verso la fine dell’inverno, i giovani dormivano in grandi gruppi e spesso richiamavano altri membri del dormitorio ai siti delle carcasse, dove arrivavano in bande rumorose ben prima dell’alba. In tal modo avevano spesso la meglio sugli adulti territoriali e potevano accedere al cibo.

Nel 1988 John Marzluff, che aveva da poco finito il dottorato alla Università dell’Arizona a Flagstaff, mi raggiunse per aiutarmi a risolvere un altro enigma: come facessero i corvi a reclutare altri individui. Fanno una danza, come le api di ritorno all’alveare? O esistono dei segnali specifici che vogliono dire «seguitemi»? Sono i corvi che sanno dove trovare cibo a partire per primi dal dormitorio al mattino? Sono loro a lanciare un segnale per farsi seguire? Sono gli individui dominanti o quelli subordinati a chiamare i rinforzi? Chi trae vantaggio da questa cooperazione, e perché? Chi ne paga le conseguenze?

Gli esperimenti che io e John stavamo per compiere a metà dicembre del 1990 miravano a stabilire che ruolo svolgesse lo status sociale di un individuo nel reclutamento. L’idea era di osservare individui di rango diverso mantenendo costanti tutti gli altri fattori, ovvero di liberare vicino a una carcassa individui di status sociale noto e osservare quali di questi individui, dopo aver individuato la carcassa, vi facessero ritorno portando con sé altri corvi.

In precedenza avevamo eseguito un’altra versione di questo esperimento. Una sera avevamo liberato vicino a un dormitorio corvi che avevano vissuto a lungo in cattività, e che quindi non potevano sapere dove si trovasse il cibo in natura: gli uccelli si unirono al gruppo di corvi del dormitorio senza esitare, e il mattino dopo all’alba comparvero nei pressi della carcassa di cui il gruppo si nutriva in quel periodo. Il gruppo di controllo era costituito da corvi rilasciati contemporaneamente ai primi ma senza la possibilità di accedere al dormitorio; questi non comparvero mai alla fonte di cibo. Era la prova definitiva che il dormitorio funzionava da centro di smistamento delle informazioni.

Questa volta, però, intendevamo fare l’opposto: anziché liberare potenziali individui gregari nei pressi del dormitorio, avremmo liberato i potenziali reclutatori vicino alle nostre esche. C’era tuttavia una difficoltà: se nel frattempo i corvi del dormitorio avevano già individuato un’altra carcassa, ben difficilmente sarebbero stati interessati a cambiare il sito di alimentazione. Il nostro piano era quindi di ridurre il numero di fonti di cibo alternative a disposizione rimuovendo le carcasse che trovavamo nella foresta.

Il primo passo del nuovo esperimento fu catturare venti corvi e allevarli per mesi nella voliera nel Maine. John osservava quotidianamente gli animali e prendeva nota del numero di display di sottomissione che avvenivano in presenza di cibo e degli individui coinvolti. Si rese conto che all’interno del gruppo esisteva una gerarchia di dominanza lineare, al cui apice c’era l’individuo che sfidava tutti gli altri e non indietreggiava di fronte a nessun altro e a cui tutti cedevano il passo. Gli individui agli estremi della scala gerarchica ci sarebbero tornati utili per il nostro esperimento. Avevamo a disposizione anche venti radio, con cui avremmo potuto seguire i movimenti dei nostri animali.

Il nostro primo tentativo di rilascio avvenne vicino a una carcassa presso lo sbocco del fiume nel lago Webb e fu un successo spettacolare. Sebbene non mangiasse da due giorni, la femmina munita di radiotrasmittente che rilasciammo al crepuscolo non toccò cibo. A differenza di molti altri uccelli, però, non scappò nemmeno via. Quando aprimmo la gabbia si avviò con tutta calma verso una pozzanghera e si mise a bere. Poi volò su un ramo da cui poteva tenere d’occhio la carcassa e si lisciò le penne per mezz’ora. Infine, gracchiando forte, prese il volo verso nord in direzione di un dormitorio. I dormitori sono piuttosto rumorosi, forse aveva sentito la confusione. Quel gruppo aveva finito da poco un’altra carcassa. Come per miracolo, tutte le condizioni che non avevamo modo di controllare sembravano essersi verificate secondo i piani. Non solo, il segnale radio ci disse che la femmina aveva raggiunto il dormitorio e si era fermata lì per la notte. Il mattino dopo non potevamo credere ai nostri occhi: alle prime luci dell’alba più di trenta corvi arrivarono uno dopo l’altro direttamente dal luogo dove avevano passato la notte, con la femmina in testa o tra i primi della fila; non poteva che essere stata lei a segnalare al gruppo la presenza della carcassa! I risultati del nostro esperimento ci convinsero che i corvi sono in grado di richiamare altri individui dal dormitorio a una fonte di cibo.

 

 

Per l’esperimento che descriverò a breve, John scelse un individuo di rango inferiore. Le nostre ricerche avevano mostrato che solo i giovani nomadi richiamano altri individui alle fonti di cibo per avere la meglio sugli adulti territoriali con la sola forza del gruppo o forse anche per altre ragioni, come ad esempio il voler compagnia mentre mangiano. Per questo motivo ci aspettavamo che i giovani subordinati tendessero a richiamare più spesso altri individui alle carcasse rispetto a giovani più dominanti perché hanno più timore degli adulti. Oltretutto in un gruppo numeroso i giovani dominanti sono impegnati ad aggredirsi a vicenda e a difendersi dagli attacchi degli adulti residenti, ed è quindi più facile per gli individui subordinati sfuggire al loro controllo e riuscire a mangiare.

John attaccò una radiotrasmittente alla coda del corvo, una femmina. Le mise anche una targhetta rossa di plastica su ogni ala. Sulle targhette c’era un numero, in modo che potessimo identificare l’animale non solo grazie alla radio ma anche a vista. John mise poi l’animale in una gabbia per il trasporto e per un paio di giorni smise di darle da mangiare, in modo che potesse apprezzare a pieno il banchetto che avevamo in serbo per lei. Nel frattempo io ero in macchina in una tormenta di neve, nel tentativo di percorrere i trecento chilometri che separano il Vermont dal Maine per poter assistere all’esperimento. Il mio compito sarebbe stato quello di liberare l’animale nei pressi dei settanta chili di avanzi di carne che avevo scaricato in mezzo al bosco. Liberando la femmina vicino alla carne, avremmo fatto in modo che la «scoprisse». Avrebbe poi raggiunto un gruppo a un dormitorio e comunicato ad altri la posizione del cibo?

Quello era il nostro terzo rilascio. Al ventesimo avremmo avuto le idee più chiare. O almeno così pensavamo. Non vedevo l’ora di iniziare. Avevamo deciso di liberare l’animale sulla sponda ovest del lago Webb, a circa venti chilometri di macchina dal campo base. Il posto designato per il rilascio era a cinque chilometri da un bosco di pini in cui un gruppo di giovani aveva il proprio dormitorio. Speravamo che, dopo aver mangiato, la femmina avrebbe individuato il dormitorio. I corvi sono piuttosto paurosi; la nostra paura era che il rilascio potesse essere un problema; c’era il rischio che la femmina si spaventasse e volasse via senza accorgersi né della carne né del gruppo che si era temporaneamente stabilito nei dintorni.

Dovevo costruire un solido riparo di rami di abete per potermi nascondere e osservare l’animale dopo il rilascio. Alle otto di mattina ero diretto al luogo prestabilito. Per terra c’erano trenta centimetri di neve e ovunque sugli alberi si erano formati ammassi di neve ghiacciata. Nei pressi di una radura a circa centocinquanta metri dalla strada trovai un boschetto di abeti che faceva al caso mio. A ogni colpo d’ascia, gli alberi mi rovesciavano addosso secchiate di neve gelata.

In due ore e mezza costruii il riparo. La parete posteriore non lasciava trapelare che qualche raro puntino luminoso, ma sul davanti riuscivo a vedere bene attraverso i rami intrecciati. Era un riparo di lusso, riuscivo perfino a starci dentro in piedi. Dopo aver trascinato dall’auto fino alla radura tre sacchi pieni zeppi di carne, mi ero decisamente scaldato. La neve e il ghiaccio che mi si infilavano nel collo mi facevano quasi piacere.

Avendo ancora un po’ di tempo prima del rilascio tornai al campo base e mi preparai da mangiare. Poi andai da John a prendere la femmina che avevamo scelto di rilasciare. Attraverso le sbarre della gabbia vidi spuntare il becco e gli occhi. Sembrava tranquilla, più di quanto mi sarei aspettato da un corvo catturato in natura e tenuto in gabbia. Raramente un corvo si lascia prendere dal panico se viene trattato con gentilezza. Spesso è come avere in braccio un neonato addormentato. Controllai il segnale sulla radio ricevente, alla frequenza di 837 megahertz (la sua frequenza). Bip, bip, bip, il segnale era forte e chiaro. Potevamo seguire i suoi movimenti anche al buio per capire dove si sarebbe fermata per la notte. Speravamo che si sarebbe unita a un dormitorio nei dintorni del luogo di rilascio.

Quando feci ritorno al bosco vicino al lago, il cielo era scuro. Non c’era vento. Rimossi la tela cerata con cui avevo coperto la carne assicurandomi che la femmina potesse vederla dall’interno della gabbia. Tolsi la sicura allo sportello, ma lo lasciai chiuso e diedi alla femmina quindici minuti per osservare i dintorni.

Andai quindi a nascondermi nel riparo sistemandomi sulle pelli di cervo che avevo portato con me insieme al binocolo, alla radio ricevente e a un taccuino e mi misi a osservare attraverso l’intrico dei rami.

Nel giro di pochi minuti la femmina iniziò a dare beccate alla porta della gabbia. Avevo attaccato alla porta una cordicella di circa quindici metri, in modo da poter aprire la gabbia da dove mi trovavo, ma in tre minuti la femmina l’aveva aperta senza bisogno del mio aiuto. In silenzio e senza nemmeno guardarsi intorno, andò dritta verso il mucchio di carne e si mise a mangiare il grasso. Strappava un pezzo di carne dopo l’altro e li ingoiava rapidamente, poi girò intorno al mucchio di carne picchiettando qua e là con il becco come volesse ispezionarlo. Prese un boccone di grasso nel becco e si incamminò esattamente nella mia direzione, per poi fermarsi al limite del mio nascondiglio per infilare il boccone nella neve. Poi lo ricoprì lisciando la neve con il becco. Proseguì così per una, due... quindici volte in tutto, andando a nascondere ogni boccone in un posto diverso. Sembrava non avesse intenzione di volare né di vocalizzare, i comportamenti che io ritenevo essere i principali passatempi dei corvi. Quando sono in gruppo, i corvi si comportano in modo molto diverso intorno alle carcasse; nessuno di loro nasconde il cibo nelle vicinanze. Si spostano sempre tutti in volo, anche per grandi distanze, per andare a nascondere le loro scorte e gracchiano di continuo.

All’improvviso, la procedura silenziosa e metodica si interruppe. La femmina rimase immobile. Sentii il fruscio di un battito d’ali e poi il gracchiare stridulo di un intruso assai rumoroso. Il nuovo arrivato volò in cerchio per un po’ e poi si posò su un acero rosso. Che delusione. L’intero esperimento era compromesso ora che un altro individuo aveva scoperto la carne. Non per questo, però, ero meno interessato a quello che sarebbe successo.

L’invasore sbatté rumorosamente il becco e drizzò le «orecchie» sollevando le penne lanceolate e lucenti della gola, dette anche barbe; era un perfetto esempio di display di dominanza maschile. Emise dei richiami acuti e flautati. Per tutta la durata della parata del maschio, probabilmente un adulto territoriale che risiedeva in quell’area, la femmina rimase immobile e in silenzio come una statua, senza però mai lasciare andare il boccone di grasso che aveva nel becco. Quando finalmente pochi minuti dopo il maschio si allontanò, la femmina riprese a mangiare e a nascondere bocconi di carne nella neve.

Una ventina di minuti più tardi due corvi sorvolarono la zona. Era probabilmente il Mr. Macho di prima, che passava di lì con la compagna a dare un’altra occhiata. La femmina, che nel frattempo si era abbuffata e aveva nascosto altra carne, questa volta scomparve. Il segnale radio, tuttavia, diceva che non era lontana. Appena prima che facesse buio la vidi volare sopra una radura lì vicino e sentii una serie di segnali di allarme in rapida successione, simili a quelli che i corvi lanciano quando un predatore si sta avvicinando al nido. Per quanto ne sapevo io, non c’erano predatori in zona. Infine, si diresse verso le sponde del lago, a circa un chilometro di distanza, e, stando al segnale radio, si sistemò lì per la notte.

Sulla via del ritorno mi fermai all’abete su cui John si arrampica tutte le sere per osservare i corvi, che a quell’ora erano in volo o già appollaiati nei loro dormitori. Quella sera John ne vide una trentina provenire dal monte Tumbledown. Dovevano aver trovato una carcassa in quella zona, dove gli alci sono piuttosto comuni.

Tutti e cinque gli individui che avevamo rilasciato vicino a una carcassa l’anno precedente erano subito volati via senza toccare cibo. Si erano poi uniti al gruppo che aveva il suo dormitorio nei dintorni e il giorno dopo avevano seguito il resto del gruppo alle carcasse di cui si cibava in quel periodo (una di vitello e una di cervo), ignorando la fonte di cibo che avevamo permesso loro di vedere in anteprima.

Poiché raramente i corvi abbandonano una fonte di cibo (in questo caso probabilmente la carcassa di un alce) prima di averla esaurita, non ci aspettavamo che il mattino dopo il rilascio della femmina il gruppo si presentasse nel luogo dove avevamo scaricato un mucchio di carne da usare come esca. La femmina Numero 837 si sarebbe con tutta probabilità unita al loro banchetto piuttosto che tornare da sola alla carne che avevamo lasciato nel bosco per lei.

Ma c’erano altri quesiti da risolvere. Secondo le mie osservazioni precedenti, un corvo che richiama altri individui a una carcassa in genere porta con sé l’intero dormitorio; insieme, i trenta-quaranta o più individui sono in grado di ridurre una carcassa di cervo a un mucchio di ossa nel giro di uno o due giorni. Perché, allora, le coppie territoriali mal tollerano la presenza di uno o due giovani che hanno scoperto la «loro» carcassa per caso, costringendoli a chiamare i rinforzi? Perché non accettare la presenza di un paio di forestieri di passaggio alla propria tavola piuttosto che scacciarli e rischiare che ritornino portandosi dietro un’orda che farà piazza pulita del cibo in un attimo? (Col tempo, osservando Golia e altri individui, scoprii che talvolta gli adulti scelgono infatti quest’altra strategia).

Percorsi il sentiero che portava al bungalow sotto un cielo limpido e senza luna, dove le stelle della Via Lattea brillavano come incisioni dorate contro lo sfondo scuro della volta celeste.

La mattina ripercorsi a piedi lo stesso tratto di strada per riprendere le osservazioni da dietro la mia protezione di rami d’abete, questa volta sotto un cielo cupo e carico di nuvoloni. Avevo messo la sveglia alle cinque e acceso un fuoco per prepararmi il porridge e il caffè e avevo dovuto resistere alla tentazione di rimanere seduto a lungo a godermi la colazione. Dopo essermi attardato accanto al fuoco dovetti precipitarmi giù per il sentiero, guidare fino all’altra estremità del lago e poi attraversare il bosco per raggiungere il riparo prima dell’alba.

La pioggia del mattino presto aveva formato uno strato di ghiaccio sui rami degli alberi. L’alba arrivò accompagnata da una brezza leggera; dal mio rifugio sentivo il tintinnio dei rami ghiacciati inframmezzato dal martellare leggero e ovattato di un picchio lanuginoso da qualche parte alle mie spalle.

Il segnale radio sembrava provenire dallo stesso bosco di pini vicino al lago in cui Numero 837 si era fermata la sera prima. Che piacere sentire, alle 7.15, il segnale radio avvicinarsi e avvertire il battito d’ali della femmina! Arrivò da sola e, senza emettere un verso, saltellò da un ramo all’altro fino a raggiungere il mucchio di carne al suolo e, esattamente come il giorno prima, si mise subito a mangiare avidamente il grasso. Per quattro ore non fece altro che nascondere pezzi di carne nella neve. A differenza del giorno precedente, però, si allontanava in volo, invece che nascondere i bocconi a pochi passi di distanza; ma, stando al segnale radio, non si allontanava mai troppo. Come avevamo immaginato, la femmina non si era portata appresso il resto del gruppo. Il mio entusiasmo cominciò a scemare. Avevo i piedi intorpiditi dal freddo.

Verso le undici del mattino, però, le cose si fecero di nuovo interessanti con l’arrivo di una coppia (la stessa del giorno prima?). Il loro territorio, o almeno la loro fonte di cibo principale in quel periodo, doveva essere piuttosto distante se i due erano arrivati così tardi. Il maschio emise una serie di vibranti kra kra territoriali, mentre la femmina emetteva suoni simili a colpi, dei toc toc toc lenti e misurati in serie di tre. Numero 837 scomparve dalla mia vista per tre ore e mezza, ma sapevo dal segnale radio che non era lontano. La sentii supplicare due o tre volte e dedussi che un altro individuo l’aveva infastidita.

Alle 14.30 la pioggia si fece più intensa. I grossi rami di cui era fatto il mio riparo lasciavano filtrare ben poca luce, ma non si poteva dire lo stesso dell’acqua. Quando di lì a poco si fece buio e fu ora di rientrare alla base, mi sentii sollevato. I due adulti se ne erano andati da un pezzo, ma la femmina era rimasta nascosta nel bosco.

Mi fermai di nuovo da John, appollaiato in cima al suo abete. Mi disse che il gruppo era arrivato al dormitorio dalla stessa direzione della sera prima e si era di nuovo fermato nelle vicinanze. La femmina rimase nello stesso posto della sera prima, separata dal gruppo. Se avesse scoperto dove si trovava il dormitorio, forse il giorno dopo avrebbe chiamato i rinforzi, visto che la coppia che risiedeva in zona le aveva impedito di mangiare.

Appena arrivato al rifugio la mattina seguente, sistemai l’antenna e il quadrante della radio trasmittente con l’aiuto di una torcia e cercai il segnale. La femmina era nello stesso posto in cui l’avevo lasciata. Bene, ero riuscito ad alzarmi prima di lei. Alle sette, però, il segnale scomparve del tutto, la femmina era sparita.

Passò un’ora, e poi un’altra ora, ma nulla. Non avevo idea di cosa aspettarmi, il che rendeva l’attesa più interessante. La femmina avrebbe potuto comparire in qualunque momento, o non presentarsi affatto. Poteva aver trovato un altro gruppo ed essere a trenta chilometri di distanza in una qualunque delle mille direzioni possibili: forse era sul monte Tumbledown a cibarsi da una carcassa di alce, forse stava vagando nella discarica di Dryden, o forse stava mangiando un’esca per coyote lasciata dai cacciatori. Magari la coppia del giorno prima sarebbe ricomparsa. O magari la nostra carcassa sarebbe stata scoperta da un estraneo. Ormai non si trattava più di un esperimento, erano entrate in gioco troppe variabili su cui non avevamo alcun controllo.

Alla fine la femmina tornò, da sola e senza emettere un suono, e si mise a mangiare come se non toccasse cibo da tre giorni (solo grasso, nonostante ci fosse moltissima carne). Tra uno spuntino e l’altro, nascondeva bocconi di carne. Le prime tre volte non si allontanò più di tre metri.

Dopo circa un’ora dovette di nuovo interrompere la sua attività, a causa dell’arrivo della coppia territoriale. Quando i due facevano la loro comparsa, non mancavano mai di farsi notare! Prima del loro arrivo c’era un silenzio assoluto. Ora era uno schiamazzo continuo. Questa volta Numero 837 gracchiò un po’, ma ammutolì immediatamente quando i due si lanciarono all’inseguimento. Continuarono a gracchiare emettendo in rapida successione i richiami brevi e profondi (quorks) che significano «Levati di torno», ma anche gracchi lunghi e modulati, tipicamente territoriali, che significano «Sono qui, nel caso non te ne fossi accorto». Sia il maschio che la femmina emettevano indifferentemente uno o l’altro tipo di richiamo. Per puro caso riuscii a intravedere 837 che cercava di nascondersi. Mentre si intrufolava nel fitto dei rami di un abete a qualche centinaio di metri di distanza, le targhette rosse sulle sue spalle attirarono la mia attenzione. Non si era nascosta abbastanza bene e venne subito individuata. Ne seguì un chiassoso inseguimento finché gli uccelli scomparvero all’orizzonte. Era tornata la calma, nei dintorni non c’era nessuno. La femmina era stata scacciata, ma non rimase lontana per molto.

Venti minuti dopo era già di ritorno, di nuovo sola, agitata e con le penne appiattite sul corpo, si appollaiò su un ramo e prese a becchettarsi nervosamente le zampe senza smettere di guardare a destra e a sinistra. Dopo dieci minuti scese finalmente a terra e si mise di nuovo a mangiare come se non toccasse cibo da giorni. Dopo un po’ volò via, portando quanti più pezzi di lardo riuscì a sistemarsi nel becco. La coppia ricomparve alle 9.28, e rimase in zona per quarantadue minuti. I due non mangiarono nulla nemmeno questa volta, ma non smisero un attimo di emettere i loro gracchianti «Sono qui». Numero 837 si tenne alla larga, ma il mio strumento magico, la radio ricevente, mi comunicava a suon di bip che la femmina era ancora in zona, nascosta da qualche parte, almeno per la maggior parte del tempo. A un certo punto si azzardò a gracchiare, emettendo il richiamo tipico dei corvi che cercano di chiamare i rinforzi. Non fu una gran mossa. Per quanto ne sapevo io, non c’erano altri individui in zona che potessero rispondere al suo richiamo, a parte la coppia. I due la individuarono immediatamente e si scatenò un altro frenetico inseguimento.

Per un bel po’ nessuno si fece vedere e persi anche completamente il segnale della femmina. All’improvviso sentii dei richiami echeggiare nel cielo. Sapendo che nei dintorni non c’era nessun altro uccello, mi arrischiai ad uscire dal mio riparo e li vidi: due puntini neri contro uno spiraglio di cielo azzurro in mezzo alle nuvole scure che si muovevano in fretta. I due, che immaginai essere la coppia territoriale di prima, volavano in cerchio uno a fianco all’altro, con le punte delle ali a contatto. A tratti, si tuffavano in picchiata uno dietro l’altro, poi risalivano disegnando ampi cerchi nel cielo. Volarono sempre più in alto, erano a centinaia di metri da terra. Li seguii con il binocolo finché mi fu possibile, prima che sparissero danzando fianco a fianco in uno stralcio di cielo azzurro tra le nuvole soffici. Le danze dei corvi continuano a commuovermi più di quanto potrà mai fare uno spettacolo di danza. La loro è una danza millenaria che continuerà a esistere per chissà quanto ancora.

Alle 12.24 la coppia fece ritorno, emettendo prima dei rapidi e rauchi «Levati di torno», e poi una serie quasi ininterrotta di lunghi e modulati «Sono qui», di ben diciotto minuti. Inizialmente i loro richiami provenivano da una distanza di circa un chilometro verso sud, poi si spostarono a ovest. Quando la coppia sparì i richiami si interruppero. Otto minuti più tardi, 837 era di nuovo in zona, alle prese con un altro spuntino. Evidentemente riusciva a ottenere la sua razione nonostante la coppia facesse la guardia alla carne. Soltanto non poteva mangiare in qualunque momento avesse voglia. Certo, la situazione avrebbe potuto cambiare se i due adulti avessero cominciato a utilizzare quella come la loro principale fonte di sostentamento. Per il momento però non sembravano affatto interessati. Era incredibile che si prendessero la briga di difendere una fonte di cibo che non stavano nemmeno utilizzando, ma immagino che il mucchio di carne in questione fosse sulla loro lista di posti da tenere presenti per il futuro.

Chissà se 837 avrebbe chiamato rinforzi oppure no, considerato che riusciva comunque a procurarsi da mangiare. Il fatto che la femmina non avesse attirato un gruppo al cibo potrebbe apparire di scarso interesse, ma noi non ci trovavamo lì solo in veste di osservatori. Eravamo allo stesso tempo avidi cacciatori di ipotesi. Considerato come stavano andando le cose, il fatto che la femmina non avesse chiamato i rinforzi poteva rivelarsi il risultato più interessante di tutti.

Alle 13. 12 accadde un altro evento inaspettato, che ci indusse a formulare un’ipotesi completamente diversa. Due corvi arrivarono in volo e si infilarono nel bosco lì vicino. Uno dei due era piuttosto rumoroso, ma sapevo che non poteva trattarsi dei due adulti di prima perché nessuno dei due emetteva richiami territoriali. Anzi, nei successivi venti minuti assistetti a un repertorio di vocalizzazioni completamente nuovo, una specie di melodia ininterrotta in cui a un gracchiare lento e rauco si inframmezzavano suoni gutturali e roboanti. Sentii anche numerose serie di rapidi colpi simili al suono di un tamburo che si concludevano con uno sbattere del becco.

I due rimasero fuori dal mio campo visivo per quasi tutto il tempo. A un certo punto riuscii, grazie al segnale radio e alle targhette rosse sulle ali, a individuare 837. Stava scambiando amichevoli gorgoglii con un altro individuo.

Dopo un po’ uno dei due individui non marcati si appollaiò su un ramo poco sopra al mucchio di carne e sporse la testa oltre le zampe per ispezionarlo. Prese a becchettare nervosamente sul ramo. Poi diede un’altra occhiata alla carne ed emise rauchi gracchi in sequenza del tutto simili ai richiami che i miei corvi addomesticati emettevano quando nella voliera compariva una carcassa, che per loro era un oggetto nuovo e spaventoso. Il corvo in questione aveva chiaramente paura del mucchio di carne.

I nuovi arrivati erano costantemente sul chi va là. Sembravano pronti a prendere il volo al minimo accenno di disturbo. Me ne resi conto persino da dietro la mia parete di rami quando per vedere meglio cercai di spostarmi senza fare rumore. La stoffa dei miei pantaloni fece un leggero fruscio; bastò quello per scatenare il panico. I due volarono via con rapidi e vigorosi battiti d’ali. Partiti i corvi, arrivarono le ghiandaie azzurre. Assai più disinvolte, trattarono la nostra esca come... un mucchio di carne! Appena arrivate, saltarono sopra il cumulo e si misero a mangiare. Giusto per vedere che effetto facesse, mi misi a fischiettare Oh, Susanna e a saltare energicamente dentro il mio rifugio. Si comportarono come niente fosse. Riuscii a spaventarle solo uscendo all’aperto. Quando rientrai nel riparo, passarono solo pochi secondi prima che tornassero.

Alle 14.05 era tornata la calma. Il segnale di 837 era ricomparso, ma la femmina rimase nel bosco per circa un’ora prima di ricominciare a mangiare. Il vento che prima proveniva da ovest ora arrivava dal nord e soffiava sempre più forte. Le fronde degli alberi scosse dal vento facevano il rumore di un’onda che sale e poi si ritrae. La temperatura continuava a diminuire, di lì a poco presi a tremare come una foglia.

Quando la luce del pomeriggio cominciò a svanire, mi precipitai fuori dal riparo e per scaldarmi feci di corsa nella neve il chilometro scarso che mi separava dal fuoristrada. Era stata una giornata lunghissima. Grazie al cielo la temperatura non era ancora scesa oltre i 10 gradi sotto zero, cosa senz’altro possibile in quella stagione. Presi di nuovo il segnale radio, la femmina era nei pressi del lago, nel bosco di pini dove aveva trascorso le due notti precedenti. Evidentemente aveva deciso ancora una volta di passare la notte da sola.

Poi sentii gracchiare sopra la mia testa. Quando alzai lo sguardo, mi si presentò uno spettacolo fantastico: una quarantina di corvi piroettavano nel cielo, volando in coppia o da soli, scendendo in picchiata, inseguendosi l’un l’altro e muovendosi allo stesso tempo verso il dormitorio che John stava con tutta probabilità osservando dalla sua posizione di vedetta. Da dove arrivavano? Dove stavano andando? Era una coincidenza che stessero volando proprio al di sopra della nostra esca?

Dopo cinque-sei chilometri al volante, superai il fuoristrada di John parcheggiato lungo la strada e vidi la sua silhouette stagliarsi contro il tramonto. Mentre correvo verso l’albero su cui era appollaiato, mi gridò: «Si sono fermati a mangiare all’esca?». Li aveva visti anche lui.

«No. Hanno proseguito dritti. Sono atterrati qui vicino?».

«Purtroppo no. Hanno continuato a girare in cerchio per chilometri e chilometri e poi sono ripartiti nella tua direzione».

In passato avevamo spesso osservato gruppi di corvi volare in cerchio al di sopra di dormitori che avevano utilizzato fino a poco prima. Di solito accadeva appena prima che il gruppo si trasferisse a una nuova fonte di cibo. Sospettavamo che quel comportamento si verificasse quando uno o più individui all’interno del gruppo avevano scoperto un posto nuovo dove mangiare. Forse l’esibizione serve proprio ad attirare i corvi del circondario.

Mentre i corvi si alzavano in volo oltre i seicento metri di altezza, altri individui arrivarono dai dintorni pronti a unirsi a loro. Alla fine si allontanarono tutti insieme, probabilmente diretti a un nuovo dormitorio vicino a un altro banchetto. Quando in passato avevo osservato simili acrobazie nei pressi di un dormitorio, il giorno seguente avevo sempre trovato il posto deserto. Avevo la netta sensazione che l’esibizione rappresentasse una forma di comunicazione misteriosa e ancora da scoprire.

Non era solo l’«ascensione» di gruppo ad affascinarmi, ma anche la palpabile atmosfera elettrica che la circondava. Garrett Conover, una guida naturalistica del Maine, mi scrisse una volta: «Eravamo accampati sulle pendici sottovento del monte Kineo [su un’isola nel lago Moosehead, nel Maine]. Al crepuscolo, cominciarono ad arrivare i corvi, che si misero a volteggiare nell’aria immobile. Molti di loro continuarono a volare anche dopo il calare del buio, mentre altri si posarono sulla parete di roccia. Ci sdraiammo a osservare le traiettorie disegnate dai corvi sovrapporsi una all’altra... C’era la luna piena e i corvi fecero baccano per tutta la notte, per poi acquietarsi appena prima dell’alba quando la luna scomparve. Non appena si fece luce abbassammo il fuoco nella stufa e abbandonammo il tepore della tenda per correre a vedere cosa stessero combinando. Erano spariti in silenzio senza lasciare traccia. Come se si fosse trattato di un sogno meraviglioso».

Virgina Cotterman, che abita nel deserto del Mojave in California, mi scrisse una volta per raccontarmi una storia simile. Per trentasei notti di fila un numero variabile tra i mille e i millecinquecento corvi aveva passato la notte nei pressi di casa sua. Una notte, insolitamente, li sentì gracchiare fino a tardi, fino a poco prima di mezzanotte. Perché proprio quella notte? Se ne andarono come sempre prima dell’alba, ma in serata non fecero ritorno.

Mi chiesi se io e John stessimo assistendo, qui nel Maine, a una di queste partenze organizzate. John aveva visto uno stormo di trenta-quaranta uccelli che dopo aver volato in cerchio per un’ora si era diretto verso la nostra esca. Numero 837 si era tenuta a distanza dalla folla. Mangiava e dormiva in solitudine. Non si era unita al gruppo, nonostante l’avesse sicuramente visto volare sopra la sua testa. Che avesse deciso di non unirsi allo stormo perché aveva il suo banchetto quasi privato? Era questa la regola dei giovani corvi? Se hai fame e non hai niente da mangiare segui il gruppo ovunque vada, ma se hai la tua scorta privata te ne stai per i fatti tuoi?

All’alba del 20 dicembre, sotto il cielo stellato, discesi come mio solito trotterellando per il sentiero fino al fuoristrada. Dopo un tragitto in auto di una quindicina di minuti, arrivai alla radura e andai a sistemarmi nel mio riparo. Faceva freddo e nuvoloni scuri arrivavano da ovest e passavano veloci sopra la mia testa, ma tra una nuvola e l’altra si intravedevano le stelle. Vidi passare un’ombra. L’ombra si fermò e si voltò a guardarmi: era una volpe che faceva il suo ultimo giro prima dell’alba. Mi fermai anch’io per un attimo, poi proseguimmo entrambi: lei diretta alla sua tana, io al mio rifugio fatto di rami.

Questa volta avevo tempo di guardarmi intorno prima di nascondermi, ero arrivato presto. C’era un silenzio assoluto. Non c’era vento. Speravo di sentire i corvi arrivare da lontano. In passato, le altre volte in cui mi era capitato di assistere nel buio all’arrivo dei corvi a una nuova fonte di cibo, li avevo sentiti sfoggiare un repertorio di richiami sorprendente per due o tre mattine consecutive. Assistere a quella scatenata esibizione di gioia e vitalità è un’esperienza indimenticabile. Ma quel giorno nessuno venne a disturbare il silenzio. Mentre il cielo si schiariva, mi nascosi nel mio rifugio.

Erano le 6.45, l’aria era carica di aspettative. Niente. 6.50... 6.55... 7.oo. Ancora niente. Si era fatto chiaro ed ero ormai sicuro che quel giorno il gruppo non sarebbe comparso affatto. La loro destinazione era stata decisa la sera precedente, o al più tardi poco prima dell’alba. Il fatto che avessero volato nella mia direzione era stata probabilmente pura coincidenza; erano chiaramente diretti altrove, forse venti o trenta chilometri più lontano. Ne ero ormai sicuro, ed era solo l’alba. Mi attendeva una giornata intera di totale immobilità.

Nella penombra, mi sdraiai sulla mia pelle di cervo e mi misi a prendere appunti su dei fogli che ero riuscito a tenere all’asciutto nella tasca posteriore dei pantaloni. Una ventina di minuti dopo ero già intirizzito dal freddo. Quando il corpo ha freddo, anche la mente smette di funzionare. Avessi almeno avuto la prospettiva di qualcosa di bello a tenermi all’erta. Non c’erano uccelli in giro, e non potevo essere sicuro che ne sarebbero arrivati. Non avevo la più pallida idea (nemmeno un barlume) di quando le mie fatiche sarebbero state ricompensate. Potevano volerci giorni, settimane, o mesi.

Era difficile prevedere quando la coppia territoriale mi avrebbe fatto visita. Quel giorno arrivarono alle 7.10 e rimasero nei dintorni ben più a lungo del solito. Continuai a sentire i loro richiami fino alle nove, segno che stavano battibeccando con altri corvi. Immaginai che anche i nuovi arrivati del giorno prima fossero in zona, oltre a 837. La femmina non poté mangiare fino a molto più tardi del solito. La vidi comparire solo verso le otto, e quella fu la sua unica occasione. Anche gli altri due giovani si avvicinarono al cibo solo in quel breve intervallo. Lei non li degnò di uno sguardo, a conferma del fatto che non considerava il ritrovamento di sua proprietà. Anzi, avevano tutti bisogno l’uno dell’altro per proteggersi dagli adulti, che potevano arrivare da un momento all’altro.

Erano le 13.20 quando un corvo nascosto nel bosco emise un richiamo che assomigliava al suono di un paletto metallico piantato nel suolo con un martello. Lo ripeté più e più volte, poi uscì allo scoperto e si appollaiò su un ramo vicino all’esca. Seguirono altri suoni: una serie ripetuta di tenui growl-pop-grr seguita da striduli rraaap, rraap e infine da un bubbolio smorzato. Poi il corvo se ne andò. Cosa aveva voluto dire? Cosa voleva comunicare? E a chi? Perché tutti quei richiami uno dopo l’altro?

Poco dopo sentii un richiamo più familiare: una rapida serie di colpi intervallati da una sorta di scoppiettio. Sentii anche gracchiare a intervalli regolari. Stavo assistendo a qualcosa di insolito! Mi sentivo protetto nel mio rifugio. Nel bosco, gli animali ci individuano quasi immancabilmente prima che noi riusciamo a vedere loro. Qui era il contrario. Era quasi impossibile che si accorgessero della mia presenza. Più di una volta i corvi erano atterrati proprio sul mio rifugio o a pochi passi di distanza: io potevo guardare fuori, ma loro non vedevano all’interno.

Essere invisibile era una bella sensazione. Oltretutto, possedevo un potere quasi soprannaturale: ero in grado di riconoscere alcuni dei corvi individualmente e, grazie al segnale radio, potevo sapere dove avevano passato la notte e trovare il loro dormitorio senza nemmeno avere bisogno di vederli. Purtroppo i corvi non vivono in gruppi coesi che si muovono all’interno di un’area delimitata. Una singola popolazione si sposta su un territorio di migliaia di chilometri quadrati. Un individuo marcato non si ferma mai nell’area in cui è stato catturato. Esaurita una fonte di cibo, si sposta immediatamente ed è possibile che il giorno dopo sia in un altro stato. E anche se di tanto in tanto mi lamento di questo aspetto del comportamento dei corvi, in un certo senso è ciò che li rende interessanti ai miei occhi. L’entusiasmo per le cose facili svanisce subito.

Sulla via del ritorno come sempre raggiunsi John in cima al suo abete e mi fermai con lui finché non fu completamente buio e i corvi si furono tutti sistemati per la notte. Quella sera non c’era nessuno al vecchio dormitorio. John aveva interpretato correttamente il senso dell’esibizione della sera prima. I dormitori erano rifugi temporanei. Erano «centri mobili per lo scambio di informazioni» e questo fu il titolo che scegliemmo per l’articolo che pubblicammo insieme sulla rivista «Animal Behaviour». Il gruppo se n’era andato.

Come fosse possibile che dozzine, centinaia, a volte persino migliaia di corvi (come suggerivano le osservazioni fatte in California) utilizzassero lo stesso dormitorio per giorni o settimane intere e poi improvvisamente una sera, dopo che gli uccelli avevano passato la giornata sparsi qua e là, nemmeno uno di loro facesse ritorno era un problema su cui mi ero scervellato a lungo. La cosa avrebbe un senso se gli uccelli si spostassero sempre in gruppo, ma non è così. I corvi si muovono in gruppo al mattino per raggiungere una o più fonti di cibo. Dopo aver mangiato, però, vagano più o meno indipendentemente per il resto della giornata, per poi fare ritorno in serata al dormitorio arrivando da mille direzioni diverse. Anche quando si nutrono tutti di una sola carcassa, vanno e vengono indipendentemente durante il giorno. Alcuni mangiano solo al mattino per pochi minuti e poi passano il resto della giornata volando per chilometri e chilometri sopra la campagna (forse in cerca di altro cibo), per lo più da soli. Era stato un segnale prestabilito, forse il volo coordinato della sera prima, a informare i corvi della nuova destinazione?

Quella sera, poco prima di addormentarmi, pensai a cosa fare il giorno dopo. Presto o tardi un gruppo avrebbe individuato la nostra esca. Qui nel Maine succede sempre; forse sarebbe stato il giorno successivo, il 21 dicembre, o forse il giorno dopo, o magari sarebbero passati due mesi, sempre che la carne fosse ancora lì.

Il protocollo sperimentale prevedeva che tenessimo traccia di tutti gli avvenimenti antecedenti alla comparsa di un gruppo alla fonte di cibo, ma arriva sempre il momento in cui decidi che hai fatto abbastanza: «È ora di andare avanti». Quel momento era arrivato. Era giunta l’ora di rilasciare un altro individuo. Dopo di lui, ce n’erano altri sedici in lista. Speravo che, aumentando il volume di osservazioni, avremmo individuato delle costanti.

 

 

Il luogo che avevamo scelto per il rilascio era a una decina di chilometri dal precedente in linea d’aria. Mi costruii un nuovo rifugio e trascinai sul posto cinque sacchi da venticinque litri pieni di carne e lardo, di modo che ci fosse abbastanza da mangiare per invogliare un corvo a richiamarne altri.

Erano le tre del pomeriggio. John era appostato in cima al solito abete e io ero nel mio rifugio da una mezz’oretta. L’individuo prescelto per il rilascio, un corvo dominante il cui collare aveva frequenza radio 843, era tranquillo e pronto per uscire dalla gabbia. Il più lentamente possibile, tirai la cordicella legata alla porta della gabbia. Il corvo affamato avrebbe approfittato della libertà per servirsi al banchetto che gli si presentava davanti?

Niente affatto. Da dentro la gabbia, si mise a becchettare la porta, ormai completamente aperta. Si sporse e prese a spostare la neve davanti alla gabbia con il becco e continuò così per tre quarti d’ora! «Uscirà mai da lì?» mi chiesi, con la gamba sinistra paralizzata per lo sforzo di rimanere immobile così a lungo. Alla fine, il corvo uscì, si scrollò energicamente come se avesse appena finito di fare il bagno e continuò a becchettare nella neve, ignorando completamente la carne. Camminò verso ovest per circa trenta metri, poi tornò indietro e sfilò esattamente di fronte al mio rifugio. Poi volò su un ramo sopra la mia testa e lì rimase appollaiato a lisciarsi le penne per un’altra mezz’ora. Non emise un suono. Al calare del buio scomparve nella nebbia fitta della foresta mentre cominciava a piovere forte. Durante la notte rimase nei dintorni.

Piovve a dirotto per tutta la notte. Sdraiato nel mio letto dentro il bungalow al campo base, assaporai la sensazione di essere al caldo e all’asciutto e ripensai al corvo che avevamo liberato quel giorno. Non mangiava da tre giorni e molto probabilmente stava bruciando calorie a una velocità pazzesca solo per mantenere il calore.

Mentre mi sistemavo nel mio riparo la mattina dopo, ero ancora più scomodo del solito. La pioggia battente era cessata, ma continuava a piovigginare e c’era una nebbia fitta. La condensa sui rami si trasformava in un gocciolio continuo all’interno del rifugio. Per evitare di inzupparmi di acqua gelata stando a contatto con il terreno innevato mi ero sdraiato sulla mia giacca impermeabile e fui sottoposto a una nuova tortura pensata apposta per gli appassionati di corvi: a intervalli di tempo irregolari e imprevedibili gocce di acqua ghiacciata mi arrivavano dritte in faccia in punti diversi (la tortura peggiore sono le gocce che ti arrivano nell’occhio). Fortunatamente, John mi sollevò dall’incarico dopo quattro ore, durante le quali il corvo rilasciato il giorno prima era comparso solo una volta. Al contrario della femmina, che aveva alternato abbuffate a lunghi periodi trascorsi nascosta su un albero nelle vicinanze, il nuovo individuo non stava fermo un attimo e sembrava decisamente intenzionato a incontrare altri corvi. Per prima cosa fece visita all’enorme voliera in cui risiedevano venti corvi a un paio di chilometri di distanza verso nord sulla collina, poi passò anche per la voliera che avevamo più a ovest, dove tenevamo sei corvi. Spesso il segnale radio spariva. Che il richiamare altri uccelli a una fonte di cibo fosse una prerogativa maschile? O il comportamento a cui stavo assistendo era solo il fastidioso frutto della variabilità individuale che sembra prevalere nella specie e che ci avrebbe costretto ad aumentare la dimensione del campione, per poter osservare una qualche costante?

La mattina seguente faceva freddo e c’era nebbia. Poco alla volta mi stavo facendo un’idea delle dimensioni del territorio della coppia che quel mattino si esibì in un duetto di strida profonde. Mezz’ora dopo mi arrivarono all’orecchio dei colpi simili al suono che si produce battendo un bastoncino contro un tronco cavo. Quel giorno non ci furono altre sorprese.

Come il giorno prima, 843 sorvolò l’esca più e più volte, ma non diede il minimo segno di voler atterrare. Al contrario, perdevo spesso il suo segnale, probabilmente quando andava a far visita ad altri corvi. Almeno due volte nel corso della giornata passò dalla voliera a due chilometri di distanza.

Alle dieci la nebbia vorticava tra gli alberi sospinta da un vento costante. Era buio come fosse sera, poi cominciò a piovere. Lasciai il mio rifugio. Era un buon momento per andare a scaricare la carcassa di vacca di più di cinquecento chili che occupava tutto il cassone del mio furgone. Fissai un’estremità di una catena a un albero e l’altra alla carcassa, poi spostai il furgone tre metri più avanti ed ecco che l’esca per i corvi si trovava esattamente dove la volevo. Tagliai la carcassa in due, poi la ricoprii di rami e neve per nasconderla, almeno fino a quando fosse arrivato il momento di rivelarne la presenza al mondo dei corvi per l’esperimento successivo. Prima di arrampicarmi su un albero per mettermi di vedetta, passai a controllare le due esche. C’erano tracce di movimento intorno alla prima, ma, come previsto, nessuna traccia alla seconda; il segnale radio di 843, però, arrivava da lì vicino.

All’improvviso sentii una serie di gracchi striduli arrivare dalla direzione del lago, dove avevo sistemato la prima esca. Nel cielo individuai una coppia di corvi dal manto nero pece e dalle grandi ali possenti. Negli ultimi tre giorni John li aveva visti arrivare spesso dalla stessa direzione. Molto probabilmente si trattava della coppia che arrivava a intermittenza a tormentare 837. Volando bassi sopra le cime degli alberi mi passarono vicino per poi proseguire dritti verso nord, verso il bosco di pini dove con tutta probabilità quella primavera avrebbero costruito il loro nido.

Dieci minuti più tardi un corvo solitario con una macchia bianca ben evidente su ognuna delle ali passò in volo sopra la mia testa. Era un adulto che avevamo marcato in uno degli anni precedenti. Avvistarne uno era un evento raro. Pochissimi dei 463 corvi che avevamo marcato erano stati riavvistati. Oltre ai corvi che avevano fissa dimora nei pressi del bungalow, ricevetti informazioni solo riguardo ad altri otto individui marcati individuati in punti diversi di un’area di circa 624.ooo chilometri quadrati che comprendeva il Québec, il Nuovo Brunswick e la Nuova Scozia in Canada nonché il nord del Maine, la zona vicino a Boston e la parte ovest dello stato di New York.

Poi notai dei puntini neri in movimento nel cielo. Tenendomi aggrappato con un braccio all’albero su cui ero, presi il binocolo e osservai i corvi piroettare nell’aria. Che spettacolo! Volavano in alto, poi scendevano in picchiata, risalivano di colpo e scendevano di nuovo disegnando ampi cerchi nel cielo; coppie, piccoli gruppi e singoli individui volavano in formazione, si separavano e poi tornavano a volare insieme e così via. Poco alla volta si allontanarono, un semicerchio enorme che ricopriva completamente una striscia di cielo. Volarono per chilometri e chilometri approfittando delle correnti d’aria, come navigatori in mare. Ero in uno stato di esaltazione. Avrei potuto rimanere a guardarli per tutto il giorno. Dopo una decina di minuti, fecero una virata e con le ali strette intorno al corpo scesero in picchiata sui pini a nord di dove mi trovavo, come tante stelle cadenti tinte di nero. Era questo il gruppo che 843 avrebbe condotto al mucchio di carne rimasto finora intatto?

 

 

Dopo un enorme investimento di tempo ed energie riuscimmo finalmente a dimostrare ciò che avevo ipotizzato sulla base dei dati degli anni precedenti, ossia che i corvi a conoscenza di una fonte di cibo possono richiamare altri individui dai dormitori circostanti. Era un’idea che circolava da tempo nella letteratura scientifica. Ma noi fummo i primi a portare prove sufficienti che il fenomeno effettivamente accade.

Mostrammo che i corvi inesperti seguono gli individui in possesso di informazioni e che entrambi alla fine ne traggono un beneficio. Ne risulta un incredibilmente semplice, meraviglioso ed elegante sistema di condivisione basato sulla cooperazione piuttosto che sulla reciprocità.

I nostri studi sul campo fornivano un solido, e quanto mai necessario, quadro concettuale nell’ambito dell’ecologia comportamentale. Gli studi intendevano affrontare l’evoluzione di modelli di comportamento adattativi. In quel contesto l’enorme variabilità individuale osservabile tra i corvi risultava più un ostacolo che un aiuto nel chiarire i motivi ricorrenti nel comportamento della popolazione studiata. Le nostre ricerche non potevano dirci, d’altra parte, che cosa accada nella mente di un singolo individuo, perché non erano abbastanza dettagliate. Non spiegavano quali aspetti del comportamento siano innati, quali appresi e quali il risultato di un ragionamento. La variabilità individuale potrebbe però aiutare a rispondere a queste domande. Forse accettare la variabilità e utilizzarla come strumento nelle ricerche future è il modo migliore per fare luce su cosa accada nella mente di un corvo.