Due corvi si rotolano nella neve.
Tanto nella letteratura scientifica quanto nell’uso comune, un gruppo di corvi riuniti intorno alla stessa fonte di cibo viene invariabilmente definito uno «stormo». Purtroppo, si tratta solo di una supposizione. Il termine «stormo» presuppone un senso di appartenenza. Esso si addice a oche, storni, cornacchie e corvi imperiali che volano insieme verso una destinazione precisa o che sono tenuti uniti da un qualche altro obiettivo comune. Molte specie di uccelli trascorrono buona parte della loro vita in gruppi coesi i cui membri mangiano, si spostano e dormono insieme. Per quanto le dimensioni dei gruppi siano simili, il comportamento dei membri di uno stormo è completamente diverso da quello di individui che si trovano per caso in uno stesso posto nello stesso momento. Per esempio, i corvi si ritrovano a centinaia intorno alla stessa carcassa se quella è l’unica fonte di cibo a disposizione. Ma ogni individuo va e viene indipendentemente. Avendo osservato i movimenti dei corvi intorno alle carcasse da me appositamente fornite, la mia impressione è che i presenti fossero membri di un gruppo coeso tanto quanto lo sono gli avventori di un ristorante. Tuttavia, era possibile che i corvi avessero modi di manifestare e reiterare la loro appartenenza al gruppo che erano invisibili ai miei occhi. L’unico modo di scoprirlo era seguirne i movimenti.
C’era un’altra ragione per cui mi interessava monitorare gli spostamenti dei corvi che avevano visitato una stessa carcassa. All’inizio delle mie osservazioni mi ero accorto che molti degli individui presenti prelevavano grandi quantità di carne dalla carcassa per andare a nasconderla nella neve a poca distanza, come se avessero intenzione di fare scorta per il futuro. Eppure, non appena la carcassa era stata completamente spolpata, gli uccelli sembravano sparire all’istante. Che si fossero dimenticati dove avevano nascosto le scorte? O in realtà rimanevano in zona per tornare a recuperare il bottino, ma lo facevano di nascosto da me? Se fossi riuscito a monitorare gli individui che si rifornivano alla stessa fonte di cibo, avrei forse trovato risposta anche a queste domande.
Kristin Schaumburg, una giovane studentessa dello Sterling College, mi aveva contattato all’inizio dell’inverno perché era interessata ad aiutarmi nelle mie ricerche sui corvi in cambio di crediti universitari; gli studenti del College avevano l’obbligo di svolgere una ricerca «in campo». Era disposta a lavorare gratis, aveva la macchina ed era interessata al radio-tracking.
Anche Delia Kaye e Ted Knight, ex studenti dell’Università del Vermont, erano interessati alle ricerche di campo ed erano desiderosi di prendersi una pausa dai lavoretti che facevano per guadagnarsi da vivere. C’era abbastanza manovalanza per mettere in piedi un progetto di ricerca. Io stesso mi ero organizzato per avere del tempo libero concentrando tutti i corsi che tenevo in un solo semestre: ci ritrovammo tutti e quattro insieme al bungalow. L’idea era di catturare una decina dei corvi che si affollavano intorno a una carcassa. Dopo aver attaccato una radiotrasmittente ai dieci individui, li avremmo rilasciati nello stesso punto. Due giorni dopo avremmo rimosso la carcassa. Volevamo verificare se il gruppo sarebbe rimasto unito e si sarebbe allontanato senza disperdersi.
Prima di tutto, quindi, dovevamo catturare i corvi. La cattura era prevista per la mattina di domenica 6 gennaio. Il 5 gennaio lavorammo tutto il giorno per prepararci all’evento. Wolfe Wagman, un amico anche lui ex studente dell’Università del Vermont, ci aiutò a fare dei buchi nella trappola che avevamo costruito con della rete da pollaio. Dal mio riparo di rami di abete, che avevo risistemato e reso ancora meno visibile per l’occasione, provai a tirare il filo legato alla porta della gabbia. Nelle settimane precedenti ero riuscito con del cibo ad attirare un gruppetto di corvi all’interno della gabbia aperta. C’erano ancora quattro carcasse da spolpare all’interno, a cui aggiungemmo del polmone di maiale fresco fresco per rendere il banchetto ancora più invitante. Era tutto pronto! Quando finimmo i preparativi si stava facendo buio e tornammo in fretta al bungalow. Quella sera arrivarono i rinforzi: altri dieci studenti dell’Università del Vermont. Eravamo tutti pronti per il grande evento.
La sveglia mi trillò fastidiosamente nell’orecchio alle sei in punto: era buio pesto. La pioggia scrosciava violentemente sul tetto, ma non avevamo scelta, dovevamo proseguire secondo i piani. Io e tre studenti ci trascinammo fuori dal letto e giù per il sentiero e ci infilammo nel rifugio. Sdraiati sul dorso, rimanemmo immobili mentre dai rami di abete sopra di noi l’acqua ghiacciata ci gocciolava dritta in faccia. Tic, tic, tic... resistemmo per due ore.
Arrivarono solo due corvi. Uno di loro si appollaiò su un ramo esattamente sopra di noi e si esibì in un repertorio di suoni che ricordavano il gorgogliare e gocciolare dell’acqua. Più tardi ne arrivò un altro. Sentimmo il suo irregolare battito d’ali da dentro il rifugio, un rapido flap, flap, flap così diverso dal tipico battito ritmato. Dov’era finito il resto del gruppo? L’assenza improvvisa si prolungò per tutta la settimana, poi per un’altra settimana, poi per altre due.
Finalmente il 4 febbraio, subito dopo una tormenta di neve, un corvo entrò nella trappola. Per prepararci a una nuova sessione di catture, accendemmo un fuoco sotto le stelle, schiaffammo sulla griglia delle enormi bistecche steccate con l’aglio e ci stringemmo uno all’altro. Aveva nevicato! Sarebbe andato tutto bene. Questa volta avremmo catturato tutti i corvi di cui avevamo bisogno; in fondo ce ne servivano solo dieci. Finalmente avremmo trovato risposta alle nostre domande.
Solo il 10 febbraio di quell’anno, il 1992, riuscimmo finalmente a catturare dei corvi. Ne prendemmo dieci e fissammo le radiotrasmittenti alle loro penne timoniere con filo interdentale e attaccatutto. Li rilasciammo vicino al luogo in cui li avevamo catturati, dove il resto del gruppo aveva nel frattempo continuato a banchettare con la carcassa che avevamo lasciato lì. Poi portammo via la carcassa e nel giro di poco tempo cominciammo a raccogliere i primi dati. Nessuno degli uccelli dotati di radiotrasmittente era rimasto nei dintorni. Non si erano nemmeno radunati per allontanarsi insieme. Due di loro abbandonarono la contea immediatamente. Nei successivi tre mesi, osservammo che i dieci uccelli che avevamo marcato non dormivano né andavano regolarmente in cerca di cibo insieme. Anzi, erano sparsi ovunque.
Facevamo i turni. Uno di noi girava in auto durante la notte per cercare di captare i segnali di uccelli fermi a un dormitorio. Un altro era incaricato di percorrere in auto uno dei tre percorsi ad anello che avevamo tracciato (lunghi tra gli ottanta e i novantacinque chilometri) e fermarsi ogni tre chilometri per vedere se si riceveva un segnale radio in quel punto. Il più delle volte non captavamo alcun segnale. Era un lavoro noioso. Per trovare gli uccelli dovemmo ampliare le nostre ricerche ben oltre la nostra zona. Coprivamo un’area di quasi quattromila chilometri quadrati e ogni giorno percorrevamo più di centosessanta chilometri in auto.
Una sera, intorno alle nove, Ted rientrò e disse di aver captato il segnale del corvo numero 9680 (una femmina) a un dormitorio vicino al lago. Nessuno degli altri uccelli marcati sembrava essere nelle vicinanze. Era una splendida serata, fredda e senza nuvole, e la luce della luna faceva risplendere la neve di un bianco lattiginoso e bluastro; era la serata perfetta per uscire e andare a controllare se la femmina era sola o in compagnia di altri corvi. Sul sentiero che dal bungalow scendeva verso il lago, la neve scricchiolava sotto i nostri piedi. Attraversammo una densa foresta di abeti scura e paludosa dove l’antenna e i fili degli auricolari si impigliavano di continuo tra i rami degli alberi. Perdemmo l’orientamento, ma non appena rimettevamo gli auricolari il meccanico clic, clic, clic della radiotrasmittente risuonava chiaro e forte nelle nostre orecchie, indicandoci la direzione. Ci addentrammo nella palude, verso un fitto bosco di pini strobi. Ci avvicinammo cauti al punto in cui pensavamo si trovasse la femmina, ci fermammo, guardammo in alto e all’improvviso sentimmo un fragore di battiti d’ali tra i rami. Più di venti enormi uccelli neri si alzarono in volo in tutte le direzioni per poi svanire nella notte. Ora sapevamo che 9680 non era sola, sebbene nessuno degli uccelli che erano con lei il giorno della cattura si trovasse nei paraggi quella notte.
Il giorno dopo, l’11 febbraio, Kristin fu incaricata di monitorare la zona verso Augusta; all’andata non rilevò alcun segnale, ma passando dai laghi Belgrade sulla via del ritorno captò di nuovo il segnale di 9680, lo stesso animale che avevamo individuato vicino al lago Webb la sera prima. Quella mattina prima di colazione 9680 era passata in volo sopra di noi mentre ispezionavamo una carcassa a una cinquantina di chilometri da dove Kristin più tardi captò il suo segnale. Aveva percorso tutti quei chilometri nonostante avesse cibo in abbondanza dov’era. Anche 8510 si trovava vicino a Belgrade insieme a 9680; più tardi si spostò alla discarica di Dryden, dove 8300 aveva passato l’intera giornata.
Quella sera il turno di notte toccava a me. Partii sotto la neve a bordo del mio fuoristrada. Nevicava così forte che i fari dell’auto proiettavano cerchi di luce su un muro bianco e compatto di fronte a me. Con la coda dell’occhio riuscivo a malapena a scorgere i profili dei cumuli di neve ai lati della strada. Cercavo di captare segnali dai punti più elevati, il che significava guidare sulle stradine strette create dai taglialegna. Le strade erano delimitate da pareti scure di alberi, ma almeno venivano tenute pulite per consentire il passaggio dei furgoni durante il giorno.
Il primo individuo che riuscii a identificare fu il numero 8510, su McGrath Hill Road vicino a Wilton. L’avevamo spesso trovato lì di sera. Altri individui avevano passato due o tre notti in quella stessa zona e poi erano spariti. 8510, invece, ritornava tutte le sere nello stesso punto da settimane. Come avremmo scoperto poi, aveva trovato una compagna e sarebbe rimasto in zona almeno fino a primavera ma non avrebbe nidificato. Nella zona dormivano solo lui e la compagna. Proseguii verso East Dixfield oltre Carthage, ma non trovai nulla. Sulle rive del lago, vicino a Weld, captai debolmente il segnale di 9239 che, capii poi, si trovava a Center Hill: avevo quasi finito il mio giro di novantacinque chilometri e avevo trovato due corvi. Non era andata male. Due osservazioni sarebbero andate ad aggiungersi ai dati che mostravano come, almeno in quel periodo e in quelle particolari condizioni, i corvi non fossero apparentemente organizzati in gruppi.
Due anni dopo, nel 1994, misi in piedi un nuovo progetto di ricerca volto a rispondere a un altro inevitabile quesito, sempre con l’aiuto di Ted, Delia e della nuova leva Eileen Connor. Questa volta avremmo cercato di osservare gli adulti «territoriali». Ancora una volta avevo concentrato tutti i miei corsi nel primo semestre. Come due anni prima, la prima cosa da fare era catturare i corvi, questa volta degli adulti territoriali. Non potevamo più usare la nostra trappola a cassetta, però, perché a quel punto gli uccelli avevano capito come funzionava. Avremmo dovuto catturare gli individui isolati che conoscevo. Il problema era che, con tutta probabilità, anche loro conoscevano me.
Visto che la trappola a cassetta era inutilizzabile, ci toccò optare, mio malgrado, per le trappole a ganasce. Ne presi qualcuna da un cacciatore locale. Valutai che le trappole di taglia 1 fossero abbastanza piccole da non danneggiare le zampe dei corvi, ma per sicurezza tagliai anche una delle due molle con un seghetto per diminuire la potenza della stretta. Cercai anche di diminuire la forza della molla rimasta scaldando la trappola tra i tizzoni ardenti della stufa. Poi fissammo isolante per tubi intorno alle ganasce con il nastro adesivo. Quando le trappole non erano in uso, tenevamo le ganasce leggermente separate con una molletta per evitare che l’isolante si schiacciasse e si assottigliasse. Per testare le trappole modificate me ne feci scattare una su un dito. Non fece troppi danni. Speravo che fossero comunque abbastanza resistenti da trattenere un corvo per una zampa.
Per poter azionare una trappola a ganasce bisogna sapere come premere la molla. Nell’aprire le ganasce per fissare l’arco di percussione alla piastra bisogna piegare il fermo che trattiene l’arco soltanto il necessario in modo da evitare che l’isolante (che va premuto verso il basso) crei troppa pressione sull’arco. Inoltre la trappola va azionata in modo che basti un peso minimo per farla scattare. Fare questa operazione all’interno del bungalow è una cosa. Farla in campo è tutta un’altra storia. La trappola va messa nella neve. Durante il giorno la neve si scioglie al sole per poi congelare durante la notte. Se si forma del ghiaccio sul metallo, la trappola diventa inutilizzabile; di conseguenza se, come nel nostro caso, le trappole vengono messe sul terreno nevoso, bisogna essere sicuri che non ci sia neve sul metallo. Soprattutto, non deve esserci nulla al di sotto della piastra, dove però è facile che si accumuli neve. Per evitare che questo accadesse, mettevo della carta oleata sulla piastra, ritagliata nella forma esatta delle ganasce aperte. Cercavo di tenere la carta asciutta spargendoci sopra della pula di orzo. Poi aggiungevo della neve per nascondere la pula. Dovevamo nascondere sotto la neve anche la catena con cui la trappola era legata a un albero. In fondo, però, preparare la trappola era la cosa più semplice. La sfida era capire dove metterla per essere sicuri di catturare dei corvi.
Nei dieci anni precedenti avevamo trovato sette nidi di corvo nella stessa zona. Era la situazione ideale perché, almeno in teoria, ci avrebbe permesso di capire se una coppia difende un territorio o solo il proprio nido. Se era vera questa seconda ipotesi, più coppie si sarebbero radunate intorno alla stessa fonte di cibo, per esempio una grossa carcassa di vacca. Se avessimo procurato noi stessi la carcassa, però, avremmo con tutta probabilità attirato centinaia di uccelli: non era certo questo il sistema migliore. In quel modo avremmo catturato per lo più individui «nomadi», e un individuo in trappola sarebbe bastato a tenere lontani tutti i residenti. Per avere più probabilità di catturare individui residenti, dovevamo scoraggiare i non residenti. Forse la soluzione migliore era usare esche di piccole dimensioni e posizionarle insieme alle trappole a poca distanza dai nidi. A questo scopo, avevamo smesso di distribuire carcasse all’inizio dell’inverno per ridurre il numero di non residenti presenti in zona nel momento in cui avremmo iniziato le catture.
Sistemai le esche durante un fine settimana di febbraio, poco prima dell’inizio della stagione riproduttiva, quando era più probabile che sia i maschi sia le femmine si trovassero in prossimità del nido. In quel periodo era ancora possibile catturare anche le femmine, perché si procuravano il cibo da sole, mentre dopo la deposizione delle uova è il maschio a portare loro da mangiare. L’idea era di abituare la coppia a cercare da mangiare in un punto preciso e poi sistemare la trappola esattamente in quel punto. Ma prima dovevo trovare un’esca a cui non potessero resistere. Una delle aziende agricole locali aveva un cavallo morto da cui prendevo pezzi di carne che nascondevo nella neve, aggiungendovi arachidi, avanzi di pancake e patatine di mais.
Dopo una settimana avevo trovato impronte di corvo solo intorno a quattro delle dodici esche che avevo preparato. Imparai che i dettagli sono importantissimi. In una delle località un corvo aveva mangiato parte della carne che spuntava dalla neve. Sparsi arachidi tutto intorno alla carne. Due giorni dopo trovai di nuovo impronte di corvo intorno al cibo, ma l’animale non aveva toccato la carne di cui si era già cibato in precedenza. Stando alle orme, aveva girovagato parecchio nei dintorni e aveva poi preso tutte le arachidi eccetto due; aveva lasciato solo quelle che avevo posato sul pezzo di carne! Ogni giorno cancellavo le impronte per poter facilmente individuare le tracce più recenti e capire i movimenti dell’animale.
Il 2 marzo, a sei giorni dall’inizio del progetto, i tempi non erano ancora maturi per sistemare le trappole. La mia ricerca somigliava ogni giorno di più a una campagna militare. Io ero il generale che pianificava la strategia. I corvi erano il nemico astuto. La situazione ricordava quella descritta dal filosofo cinese Lao-tsu nel Tao te ching duemilacinquecento anni fa. Lao-tsu sosteneva che i veri sportivi vogliono che gli avversari siano al massimo della forma e che i migliori generali sono quelli in grado di penetrare nella mente del nemico.
Per fare una prova avevo anche sistemato una trappola appena al di fuori della voliera, dove i miei quattro corvi addomesticati e il loro cibo avevano attirato un gruppetto di conspecifici. Prima di tutto coprii la trappola con un pezzo di cellophane che si adattava perfettamente alla forma delle ganasce aperte. Posai la trappola su del fogliame asciutto sopra la neve e la coprii con altro fogliame su cui poi sparsi della neve per camuffare il tutto. Sulla neve posai un pezzetto di carne di cavallo; era un pezzettino talmente piccolo che, pensai, i corvi non si sarebbero certo insospettiti.
Come previsto, i corvi arrivarono al mattino presto. Nascosto dietro la finestra del bungalow, li osservai muoversi intorno alla trappola. Non successe nulla. Dopo un’ora di attesa, mi resi conto che c’era qualcosa che non andava e uscii per vedere cosa potesse essere successo. C’erano impronte di corvo ovunque intorno alla carne e fin qui tutto bene; sulla trappola, però, non ne trovai nemmeno una. Dovevano aver notato che la neve che avevo sparso sulla trappola era diversa da quella tutto intorno, ma nemmeno quello era il principale problema di quel tipo di trappola.
Nella notte la temperatura era scesa quasi a −18 gradi; non pensavo certo che la neve si sarebbe sciolta e ricongelata. Memore della legge di Murphy (se qualcosa può andare storto, lo farà) provai a tastare delicatamente la neve che avevo sparso sopra al fogliame. Si era congelata e aveva formato una crosta compatta; se anche i corvi ci avessero camminato sopra, la trappola non sarebbe scattata.
Il passo successivo era mettere finte trappole vicino alle carcasse per fare in modo che gli uccelli si abituassero alla neve rada e ad altri segni rivelatori che avrebbero potuto renderli diffidenti. Una mattina Delia ed io partimmo sotto un cielo grigio. Quei nuvoloni non mi piacevano affatto. Se avesse nevicato anche solo per mezz’ora, avremmo dovuto raccogliere tutte le trappole. Ma le posizionammo comunque. Poi si mise a nevicare e andò avanti per mezz’ora, poi per altre ventiquattro ore. La bufera imperversò per giorni.
Allo stesso tempo, una delle trappole vicino alla voliera era scattata per ben tre giorni di fila senza catturare nulla. Una mattina mi trovavo a meno di un chilometro da lì, vicino ad Alder Stream, quando sentii un gran baccano provenire dalla voliera sulla collina. Sentendo richiami di allarme, tornai indietro di corsa. Una delle trappole era scattata. Ma il corvo si era liberato. Conclusione? Le trappole di quella misura erano troppo piccole. Dovevo cambiarle tutte.
Come previsto, nei giorni successivi i corvi non osarono avvicinarsi e cominciai a temere che non ci avrebbero dato una seconda possibilità. Mentre testavo le trappole nuove, anche il tempo non era più dalla nostra parte. Le giornate limpide e miti si susseguivano una dopo l’altra e la neve non era più farinosa e facile da spargere come prima. La neve umida formava agglomerati compatti, che si scioglievano al sole durante il giorno e di notte diventavano duri come la roccia.
Il 10 marzo non eravamo ancora riusciti a catturare nemmeno un corvo, neanche con le trappole che usavamo per esercitarci vicino alla voliera. Ma era arrivato il momento di passare alle catture vere e proprie e mettere le mani su una coppia territoriale, sperando che non fosse già troppo tardi. Sotto la pioggia fredda di quel giorno, lo strato spesso di neve umida non reggeva il nostro peso: nonostante le racchette, sprofondavamo a ogni passo. Noncuranti, io e Delia costruimmo due rifugi di rami d’abete a un centinaio di metri dalle due carcasse che avevamo lasciato non lontano dai nidi. Il giorno dopo avremmo assistito da lì alle catture.
Alle 5 della mattina dopo, nel buio più totale, eravamo pronti per il grande evento. Nelle due settimane precedenti avevamo imparato un sacco di cose, soprattutto che cosa non fare. Questa volta pensavamo proprio di farcela. All’alba avevamo già le racchette ai piedi ed eravamo in cammino per il primo rifugio, dove Delia avrebbe fatto la guardia a quattro trappole disposte in cerchio intorno a un pezzo di carne che il pomeriggio prima era circondato da orme di corvi. Per sistemare le trappole grattammo la superficie della neve indurita e preparammo una base con del terriccio asciutto. Aggiungemmo altro terriccio sopra la trappola e mettemmo un foglio di carta oleata sulla piastra tra le due ganasce ricoperte di isolante. Per nascondere le trappole prendemmo della neve in profondità e la spargemmo sulle trappole; ne spargemmo persino dove non c’erano trappole. Avevamo fatto tutto alla perfezione.
Augurai buona fortuna a Delia e mi avviai di buon passo al mio rifugio nei pressi dell’altro nido, quello vicino a Weld. Anche lì intorno alla carne trovai impronte indurite dal gelo lasciate il giorno prima dai corvi. Ottimo segno! I corvi erano tornati anche dopo che avevamo dissotterrato la carne per spostarla su una collinetta visibile dal rifugio lasciando segni del nostro passaggio nella neve tutto intorno. La cattiva notizia era che un corvo passò in volo mandando richiami di allarme appena prima che finissi di sistemare le trappole. Sapendo che ora il corvo sarebbe stato diffidente, pensai di distrarlo dalle trappole lasciando sulla neve due patatine al formaggio di un arancione acceso. Al suo ritorno, il corvo avrebbe visto questi oggetti insoliti. Avendomi visto in zona indaffarato, avrebbe associato le patatine alla mia presenza e le avrebbe evitate. Così, forse, non avrebbe associato la mia presenza alla carne e non sarebbe stato diffidente nei confronti della carne, anche perché era rimasta esattamente come il giorno prima. Avevo intuito già allora che i corvi sono molto cauti nei confronti di possibili fonti di cibo, ma non sapevo ancora che per loro l’associazione con individui considerati «amici» o «nemici» poteva essere decisiva nella scelta di mangiare o meno un determinato alimento.
Ero nel rifugio da soli quarantacinque minuti quando sentii un battito d’ali vigoroso. Il corvo era tornato! Lanciò solo tre o quattro richiami d’allarme, poi si acquietò. Cinque minuti dopo scese dai rami di un pino (il nido non si vedeva) per posarsi sulla neve vicino alla carne. Ma non vi si avvicinò. Camminò avanti e indietro e tutto intorno alla carne spostandosi di dieci metri verso destra e poi dieci verso sinistra. C’era qualcosa di strano, se lo sentiva, e volò via.
Mezz’ora più tardi, verso le otto, il suo compagno arrivò al nido emettendo richiami acuti ma smorzati. Dopo altri quindici minuti, uno dei due membri della coppia planò a terra e si avvicinò alla carne senza troppo esitare. Il mio cuore prese a battere all’impazzata. Settimane di frustrazione, centinaia di chilometri alla guida, giornate intere passate con le racchette ad affannarsi nella neve alta, ore spese a pianificare tutto nei minimi dettagli stavano per dare i loro frutti. Che fosse la volta buona? Avevo osservato i corvi e fornito loro carcasse per settimane per capirne le abitudini, per abituarli a piccoli segni della presenza umana e perché non notassero le trappole nascoste sotto la neve. Ed ecco che un corvo era lì di fronte a me e camminava dritto verso la carne intorno a cui avevo sistemato quattro trappole.
Si fermò, si guardò intorno con circospezione, e poi riprese a camminare. Poi vidi che becchettava: stava mangiando! Mangiò un pezzetto di carne, poi un altro e poi un altro ancora. Incredibile! Le trappole erano pronte a scattare alla minima pressione, o almeno così pensavo. Io ero a circa cinquanta-sessanta metri di distanza e i rami del rifugio limitavano il mio campo visivo, per non parlare degli alberi della foresta che bloccavano la vista. Nascosto dentro il rifugio, con la massima lentezza mi portai il binocolo agli occhi... rrack rrack rrack... il corvo emise immediatamente un richiamo di allarme e volò via. Doveva aver colto il riflesso delle lenti del binocolo. Non poteva di certo avermi visto.
Una quindicina di minuti più tardi un corvo si ripresentò e si mise di nuovo a mangiare. Dopo cinque minuti volò in alto, forse per andare a portare da mangiare alla compagna nel nido. Ripeté gli stessi richiami di prima, simili a un miagolio. Dieci minuti dopo, uno dei due adulti volò via dal nido emettendo dei gro smorzati mentre si allontanava. I corvi annunciano sempre arrivi e partenze con dei richiami. La femmina, che era rimasta al nido, emise il richiamo simile a un rintocco una volta.
Alle 9.15 c’era di nuovo un corvo alla carcassa. Andò avanti a becchettare per qualche minuto, poi volò via. Ero basito e tremavo per il freddo e l’eccitazione. Era la terza volta che si presentava all’appello quella mattina. Doveva per forza rimanere bloccato in una delle trappole al terzo tentativo. Purtroppo, avevo torto.
Qualche minuto dopo che il corvo, presumibilmente satollo, se ne fu andato, sentii risuonare nell’aria un gracchiare rapido e acuto che denotava una certa esaltazione. Due cornacchie passarono in volo sopra di me. Videro la carne a terra, invertirono la rotta e atterrarono ripetendo i loro versi. Mi chiesi se i corvi sarebbero venuti a scacciarle. Rimasi in attesa; nel giro di due minuti una delle cornacchie stava già mangiando. Pochi secondi dopo rimase impigliata in una trappola. La cornacchia intrappolata non mancò di farsi sentire, ma tra i due era il compagno, che saltellava freneticamente da un ramo all’altro cinque-dieci metri più in là, a dare l’impressione di essere in preda a un attacco isterico. Aspettai un paio di minuti per vedere se i corvi avrebbero reagito in qualche modo. Ma siccome non ce n’era nessuno in vista, né sentivo i loro versi nelle vicinanze, uscii dal rifugio e liberai la cornacchia dalla trappola: non si era fatta nulla.
Mentre mi allontanavo dal bosco con le racchette ai piedi, le cornacchie ripresero a volare in cerchio sopra la mia testa senza mai smettere di gracchiare. Ero quasi sicuro che i corvi non si sarebbero fatti vedere in zona per un bel pezzo. E per una volta avevo ragione. Sebbene il nido fosse proprio sopra alla carcassa, non trovammo altre tracce di corvo. Non riuscii mai a capire come avessero fatto a evitare le trappole. Non catturammo mai nessuno dei due adulti, solo altre due cornacchie.
Il giorno successivo, il 13 marzo, provai a sistemare le trappole in un punto in cui i corvi non mi avevano mai visto prima. Posizionai la trappola nei pressi di una carcassa a circa quattrocento metri da un nido e a circa due chilometri di distanza dalla strada, in un punto in cui mi ero raramente avventurato perché si poteva raggiungere solo con le racchette. Questa volta in meno di un’ora avevo già fatto la mia prima cattura! Mentre lo liberavo dalla trappola, l’uccello rimase in silenzio, ma, come nel caso delle cornacchie, il suo compagno protestava a gran voce al mio indirizzo a poca distanza.
Quello fu l’unico adulto residente che riuscimmo mai a prendere e lo liberammo il giorno stesso con una radiotrasmittente attaccata alle timoniere; a brevi intervalli la radio rilasciava un segnale alla frequenza di 148.130 megahertz, abbreviato a «8130», che da quel momento in poi sarebbe stato il nome dell’animale. La nostra ricerca poteva finalmente avere inizio, anche se su scala molto più ridotta di quello che avevamo inizialmente immaginato. Ma la parte più difficile era fatta.
Mentre lo liberavo dalla trappola e gli attaccavo la radiotrasmittente, 8130 rimase tranquillo. Quando al crepuscolo lo liberammo nei pressi del bungalow, aveva le penne bagnate e volava in modo impacciato. Doveva asciugarsi prima di tornare al nido. Rimase nella vallata di Alder Stream non lontano dal bungalow fino a dopo il tramonto. Verso mezzanotte mi alzai per fare un altra lettura con la radio: volevo sapere se si sarebbe mosso durante la notte. Si era allontanato, ma riuscivo ancora a percepire debolmente il suo segnale nella direzione in cui si trovava il nido. Si era spostato durante la notte. Da quel momento in poi, Ted, Delia ed Eileen lo seguirono ogni giorno dall’alba al tramonto. Nelle prime due settimane passò gran parte del suo tempo tra il nido e una carcassa di vacca che un cacciatore di coyote aveva lasciato nel bosco.
Feci ritorno al nido il 25 marzo per verificare se, come credevo, la femmina stesse covando le uova. Calcolai che doveva essere il momento giusto perché il giorno prima di catturare il maschio, il 12 marzo, avevo visto la coppia tornare al nido e uno dei due portava nel becco del materiale per rivestirne l’interno. Quel giorno però non vidi nessuno al nido e, quando mi misi a scuotere il tronco dell’albero per fare in modo che la femmina volasse via, non successe nulla. Forse quella femmina era particolarmente testarda. O forse la coppia aveva abbandonato il nido perché mi avevano visto nei dintorni o per lo stress causato dalla cattura? Il nido si trovava a più di venticinque metri da terra su un enorme pino frondoso il cui tronco era però privo di rami per i primi venti metri. Non volevo rischiare di rompermi il collo arrampicandomi sull’albero per controllare il contenuto del nido. Per capire se era ancora abitato, non mi restava che osservarlo.
Mi sistemai a una cinquantina di metri di distanza, sotto i rami fitti di un abete accanto a un altro grosso pino. Rimasi in attesa con tutti i sensi all’erta sperando di sentire un suono o intravedere una figura nera.
Poi accadde un miracolo. Il segnale radio si fece più forte, 8130 si stava avvicinando. Nell’aria risuonò nitido, bellissimo, il richiamo di una femmina di corvo, simile al suono di uno xilofono. Pochi secondi dopo lo sentii di nuovo, ancora più vicino. E poi ancora, e ancora. Non c’era dubbio che la coppia si stava avvicinando al nido da nord-ovest. Spiando tra i rami di abete riuscii a individuare dei puntini neri che si avvicinavano. Non uno o due, bensì tre!
Non era difficile immaginare una spiegazione per la presenza del terzo individuo nel territorio. L’intruso poteva essere un maschio che si infiltrava nel tentativo di accoppiarsi con la femmina. O un vicino che tentava di danneggiare o distruggere il nido per espandere il proprio territorio. Qualunque spiegazione avanzassi, finivo sempre per concludere che il terzo individuo doveva avere cattive intenzioni e che la coppia volesse liberarsene al più presto.
Mi bastò dare un’occhiata ai tre per capire che mi trovavo davanti a una situazione completamente diversa. I corvi volavano tranquilli, con la punta delle ali a contatto uno con l’altro. Quando si avvicinarono, li sentii chiaramente emettere dei gro smorzati, versi che comunicano fiducia e amicizia. Tra quei tre individui c’era un legame; il fatto che una coppia tollerasse la presenza di un altro individuo nei pressi del nido, o che addirittura lo invitasse ad avvicinarsi, era di per sé straordinario.
Incantato, li guardai planare verso il nido chiacchierando sottovoce tra loro. Due di loro si posarono nelle immediate vicinanze del nido, mentre il terzo passò in volo accanto all’albero, poi fece una virata e si allontanò lentamente nella direzione da cui erano venuti. La coppia rimase al nido solo un minuto, senza mai interrompere il chiacchiericcio sommesso. Si sentì il pigolio di quando la femmina vuole che il maschio le porti da mangiare al nido. Quando lasciarono il nido rimasero su un pino nelle vicinanze per un minuto e poi volarono via nella stessa direzione in cui si era allontanato l’altro individuo.
Avrei voluto costruirmi immediatamente un rifugio per poter osservare la coppia sul lungo periodo, ma non era quella la strategia migliore. Se fossi rimasto nei paraggi avrei rischiato di infastidirli e potenzialmente causare l’abbandono del nido. Dovevo rimandare le osservazioni a quando i piccoli fossero cresciuti; a quel punto gli adulti sarebbero stati meno propensi ad abbandonare il nido al minimo disturbo.
Accantonammo per il momento l’idea di sorvegliare il nido, ma osservammo spesso l’individuo marcato presso una carcassa di vacca lasciata da un cacciatore a circa tre chilometri da lì. Se nascondevamo la carcassa con dei rami per testare la reazione di 8130, in genere lui spariva dal raggio d’azione della radioricevente. Il 29 marzo, certo che la femmina stesse già covando, tornai al nido. Numero 8130 era su un pino non lontano e quando mi avvicinai emise dei richiami di allarme e se ne andò. Come la volta precedente, diedi dei colpi con un ramo al tronco dell’albero su cui si trovava il nido, ma non vidi nessun uccello volare via. Strano, pensai. Dov’è la sua compagna?
Andai di nuovo a nascondermi sotto l’abete come la volta precedente. E, come la volta precedente, dopo una mezz’ora sentii il richiamo nitido di una femmina che si avvicinava da nord-ovest; il richiamo si ripeté a intervalli di alcuni secondi e ogni volta sembrava avvicinarsi. Come qualche tempo prima, vidi arrivare tre uccelli che, volando con le punte delle ali a contatto, si avvicinarono insieme al nido. Questa volta si posarono tutti vicino al nido (o a pochi metri di distanza). Di nuovo, la femmina emise il richiamo con cui chiedeva del cibo. Pochi secondi dopo uno dei tre prese il volo e partì nella direzione da cui erano venuti. Esattamente come la volta precedente. La coppia rimase al nido per un minuto emettendo di continuo un chiacchiericcio sommesso, poi si appollaiò su un albero poco distante. Purtroppo, questa volta i due corvi si accorsero della mia presenza, lanciarono grida di allarme e se ne andarono. Quando tornai una settimana più tardi, avevano abbandonato il nido.
Numero 8130 era al centro delle nostre ricerche. Il motivo per cui continuavamo a stare al bungalow era monitorarne quotidianamente i movimenti. Ne parlavamo di continuo, sebbene solo io l’avessi visto dal vivo, mentre a tutti gli altri avesse reso nota la propria presenza solo attraverso la radiotrasmittente che aveva attaccata alla coda. Tra la fine di aprile e l’inizio di maggio lo vidi sempre e solo in compagnia di un unico individuo. Chi era il terzo corvo che aveva accompagnato la coppia al nido? Se avessimo marcato una dozzina di corvi, avremmo potuto avere una risposta. Ma così non potevamo che fare congetture e finivamo sempre per parlare del momento dell’abbandono del nido appena prima che la femmina deponesse le uova.
La sera, mentre passeggiavamo intorno alla stufa in ghisa in attesa che fosse pronto il pane per la cena, le nostre conversazioni e le nostre congetture riguardo all’abbandono del nido avevano un tono fantasioso e ammiccavano scherzosamente all’antropomorfismo.
«Cosa pensate sia successo?» chiedeva uno di noi, dando il via a discussioni immaginose sui possibili scenari. Ecco un esempio.
C’è la femmina che, come ogni sera, aspetta che il maschio faccia ritorno per portarle da mangiare e passare la notte accanto a lei. Ma il maschio non si vede. In lei crescono la fame e la preoccupazione. Finalmente, parecchio dopo la mezzanotte, lui arriva stanco e arruffato con una penna in più attaccata alla coda e una macchia sul dorso. «Dove sei stato?» chiede lei. Lui cerca di spiegarle. E lei: «Ma certo!». La mattina dopo, proprio quando sarebbe il momento giusto per accoppiarsi perché è tempo di deporre le uova, lui è stanco e svogliato. Non sembra interessato al sesso, né si prende la briga di portarle da mangiare. A un certo punto lei avvista un altro maschio, un vicino. Gli lancia dei segnali. Lui si accorge delle sue attenzioni e la segue speranzoso. Forse è il maschio di una coppia che entrambi conoscono. O forse è un maschio solitario. In ogni caso, il compagno lo conosce. Se a lei sta bene che faccia il cascamorto, lui può chiudere un occhio. La cosa divertente è che questa storia immaginaria potrebbe non essere così lontana dal vero.
Alcuni aneddoti sono più significativi di altri perché si basano su fatti e lasciano meno spazio all’interpretazione. Che i tre uccelli si trovassero al nido nello stesso momento non era una mia interpretazione. In febbraio avevo visto cinque corvi volare in gruppo in tre diverse occasioni. In marzo, ben due volte avevo visto tre individui volare insieme al di là del lago. Fino ad allora ero sempre stato propenso a credere che si trattasse di gruppi di giovani, perché quella era la spiegazione più probabile. Ora però non ero più così sicuro. La situazione era più complessa di quanto credessi: le coppie territoriali evidentemente non aggredivano automaticamente tutti gli estranei. Ma quali individui facevano eccezione e perché? Dovevo trovare il modo di osservare come si creano legami tra gli individui, e i miei corvi addomesticati potevano insegnarmi qualcosa a riguardo.