COMMENTO
Ingannando l’avversario con falsi vantaggi, incoraggiarlo ad avanzare.
Dopo avergli impedito ogni via d’uscita
verso ciò che gli tornerebbe utile, adescarlo in una trappola mortale.
[Il Libro dei mutamenti dice:]
«Essere avvelenati: non ci si trova nella situazione adatta».
Spiegazione
«Quando gli uomini vengono assegnati al comandante,
si comportano come chi, salito su un piano alto, getti via la scala.»
– SUNZI
Lo stratagemma suggerisce l’espediente dell’insaccamento: adescare l’avversario e, una volta preso in trappola, tagliargli ogni via di fuga.
La «scala» è una metafora per indicare l’esca con cui si convince l’avversario a fare una mossa («salire sul tetto») e a cadere in trappola («portar via la scala»).
L’esca va adattata alla psicologia dell’avversario: se avido è necessario offrirgli promesse di facili guadagni; se arrogante e superbo mostrargli un segno di debolezza; se ottuso tendergli un tranello e così via. Ciò significa indurre l’avversario a compiere le mosse da noi previste, cioè a «salire sul tetto». A quel punto gli si taglia ogni possibilità di ritirata. Quel “punto di non ritorno” coincide col «portar via la scala».
Lo stratagemma è efficace anche in un’altra prospettiva, quella di incuneare i propri supporter o i propri alleati in una situazione di pericolo tale da forzarli ad avanzare ma non a ritirarsi, costringendoli loro malgrado a combattere con tutte le loro forze per cavarsela e a dispiegare a oltranza il massimo ardimento. Dunque, non si chiede loro di essere valorosi, ma li si costringe a esserlo, per la situazione in cui li si getta (quest’ultima applicazione è considerata nell’Illustrazione storica).
Si tratta di una strategia bellica utile ad accrescere l’energia della situazione e che può essere applicata con successo anche in altre sfere tattiche. Con le opportune revisioni, può tornare utile nel management della crisi. Basandosi sull’assunto per cui in condizioni di crisi, d’allarme o d’impatto gli individui sono costretti a velocizzare il loro livello decisionale, a diventare più creativi nel risolvere problemi, più risoluti nell’assumere la direzione delle operazioni d’intervento, più tolleranti nei confronti delle avversità che non in tempi normali, li si conduce in una situazione d’allerta tale da non lasciare loro più altra via d’uscita che la risposta desiderata. Il management della crisi è un mezzo rischioso, ma tale da portare una ventata di nuove soluzioni ai problemi, da stimolare la produttività, la responsabilità e l’entusiasmo di una persona o di un comitato ristretto.
Forse l’alta efficienza lavorativa dei paesi capitalisti contemporanei può essere in parte ricondotta all’effetto della minaccia costante della disoccupazione. La precarietà del lavoro rende le persone particolarmente operose.
L’efficacia dello stratagemma resta la sua inesorabilità. Nel togliere la scala si crea una situazione nella quale le conseguenze, benché ipotizzate, fuoriescono dal nostro controllo. La crisi nel posto di lavoro potrebbe stimolare l’innovazione, ma anche minare il morale. Dunque, lo stratagemma va impiegato cautamente, onde evitare che si trasformi in un boomerang.
La frase «essere avvelenati: non ci si trova nella situazione adatta» si riferisce al terzo tratto dell’esagramma 21, «Il morso lacerante», del Libro dei mutamenti, che rappresenta due mascelle che si muovono energicamente per masticare il cibo e frantumare un osso che si trova in mezzo (appunto, «il morso lacerante»).1 Il terzo tratto dell’esagramma, perciò, indica che ci si trova in una situazione disagevole, come l’essere avvelenati. Occorre lavorare duramente e con perseveranza, tra varie difficoltà e ostacoli che non dipendono esclusivamente da noi, prima di raggiungere il risultato finale.
Illustrazione storica
Nel 204 a.C., il generale Han Xin, lo stesso personaggio già incontrato nell’Illustrazione storica dello stratagemma VIII «Avanzare di nascosto verso Chenchang», era già pronto per una nuova importante campagna militare affidatagli dal futuro imperatore Liu Bang: muovere a est, attraverso le gole di Jingxing, per assediare lo stato di Zhao, assoggettare le province a nord del Fiume Giallo e consolidare, in tal modo, le fondamenta della nascente dinastia Han.
Han Xin, capeggiando varie decine di migliaia di uomini, si diresse verso il regno di Zhao. Una volta giunto alla catena montuosa del Taihangshan, scandagliò meticolosamente il territorio. La circospezione era d’obbligo. Abbarbicati sul pendio delle pareti, alti cipressi e sandali dalle forme pittoresche tagliavano una fetta di cielo. Le loro grandi radici attorcigliate intorno a grandi massi di pietra come artigli di draghi in atto di battaglia erano il luogo adatto per tramare un’imboscata e il nemico vi poteva spuntare da un momento all’altro. Fortunatamente, per ora nessun pericolo vi si annidava.
L’armata Zhao, forte della sua schiacciante superiorità numerica, si era infatti accampata su un terreno favorevole: la vallata all’uscita della stretta gola di Jingxing, al di là del fiume che scorreva perpendicolare all’imboccatura della forra.
Han Xin aveva l’aspetto di chi si appresta a un’impresa difficile, conscio di doverla portare a termine tra mille avversità. Ordinò quindi a un contingente di duemila cavalieri, ciascuno col vessillo scarlatto del regno di Liu Bang, di imboccare un sentiero secondario e di giungere sull’altura a strapiombo sull’accampamento Zhao. Lì, di nascosto, i soldati presero posizione in attesa che l’accampamento si svuotasse. Avrebbero poi dovuto togliere i vessilli nemici, sostituendoli con quelli di Liu Bang.
Ma che cosa aveva in mente Han Xin? Si rendeva conto della situazione? L’avversario beneficiava di una posizione estremamente vantaggiosa, perché dunque se ne sarebbe dovuto allontanare?
Egli ordinò poi a diecimila uomini di attraversare la riva orientale del fiume Chi e, violando il principio bellico che vieta di schierare le truppe con le spalle verso un corso d’acqua, dispose la formazione di battaglia proprio in quel modo! Così precludeva ai suoi uomini ogni possibile ritirata e si trovava per giunta di fronte a un dispiegamento di forze soverchiante. Che bizzarria!
Che cosa stava architettando Han Xin?
Alla vista di quello schieramento l’armata Zhao rispose con una grassa risata. Neppure un novellino avrebbe commesso un errore strategico così!
Ai primi bagliori dell’alba Han Xin, alla testa di una guarnigione di un migliaio di uomini, in groppa a un imponente stallone nero, lancia in resta, si scagliò in un attacco frontale. Dal campo Zhao si lanciò il grosso delle forze. Ne nacque una battaglia furibonda e brevissima. Un momento prima di rischiare di essere travolto, Han Xin ordinò un’improvvisa ritirata, precipitosa, lasciandosi dietro tamburi di guerra e vessilli. L’intera armata Zhao, abbandonata ogni diffidenza, si spinse all’inseguimento, solleticata dall’appetito del vantaggio. I soldati credevano di sbrigarsela in fretta, abbattendo facilmente il nemico.
Illusione?
Han Xin, un momento prima di ricongiungersi al grosso delle forze, attanagliate tra il fiume e l’esercito Zhao, urlò a squarciagola di combattere all’ultimo sangue: era l’unico modo per avere salva la vita in quella lotta impari! Solo al cospetto della morte imminente si può cogliere l’imponenza della vita. In quella situazione disperata, l’esercito Han levò uno spirito combattivo disumano. In uno slancio vigoroso, affrontò coraggiosamente un nemico superiore. I due eserciti lottarono senza esclusione di colpi. Nell’impatto cruento con l’avversario, gli Han lottarono come un corpo unico e, benché numericamente inferiori, non arretrarono di un passo. Il conflitto si trasformò in un gigantesco corpo a corpo. Ci si scontrava senza tregua, esigendo il massimo dai soldati.
Mentre la battaglia imperversava in tutta la sua furia, i duemila cavalieri appostati sulla collina scesero veloci come il lampo, irruppero nell’accampamento deserto del nemico, tolsero i suoi stendardi e li rimpiazzarono con i propri. Poi si lanciarono nel fragore della mischia.
Di fronte alle vistose perdite l’esercito Zhao, stremato da una battaglia violenta per quanto inaspettata, ricevette l’ordine di ripiegare verso l’accampamento. Lì avrebbe ripreso fiato per affrontare l’impresa più seriamente. I soldati non pensavano di incontrare una tale resistenza, ma non appena si trovarono nei paraggi dell’accampamento, ebbero la triste visione. I vessilli color scarlatto che sventolavano sul loro quartier generale li fecero piombare nel panico. Credevano di essere stati presi tra due fuochi e che l’accampamento fosse caduto in mano nemica. Disorientati, credevano di avere a che fare con un’ingente armata! Gli ufficiali tentarono in ogni modo di sedare il fuggi fuggi, ma fu impossibile.
A quel punto c’erano le condizioni per un trionfo. Han Xin non perse tempo e con una manovra a tenaglia si preparò a sferrare il colpo di grazia. Nel trambusto generale, prima che potessero riprendersi, i soldati Zhao dovettero fronteggiare l’incursione feroce che piombò loro addosso.
L’armata Zhao fu sgominata e il sovrano imprigionato.
Chi avrebbe mai sperato in un successo così strepitoso?
Han Xi si dimostrò un vero maestro di strategia. Di fronte alla situazione avversa non ebbe il minimo segno di cedimento. Senza sentirsi in difficoltà, trasformò una limitazione in un vantaggio. Era conscio di non disporre di uomini valorosi e neppure di soldati agguerriti. Le sue milizie erano composte di soldati di leva reclutati alla bell’e meglio, privi di ogni addestramento speciale. Se non li avesse «fatti salire sul tetto e portato via la scala», essi non avrebbero esitato un istante a disertare. Trovandosi, invece, su quello che in termini bellici si chiama un «terreno fatale», privo di vie di fuga, furono costretti a lottare col massimo ardimento, per salvare la pelle.
1. → I 64 Enigmi, “Morso lacerante”, op. cit., pp. 48-49.