EMARCO

DISSERTAZIONI EPISTOLARI SU EMPEDOCLE CONTRO PLATONE - CONTRO ARISTOTELE

PLUTARCO, Adv. Col., 28, 1123 b (22 Krohn).

Che cosa c’è di più ovvio e di più generalmente ammesso che il fatto di travedere e di aver false sensazioni auditive quando si subisca uno stato di delirio e follia, quando la mente soffra e si turbi per cose come «le nerovestite portatrici di fiaccole mi bruciano gli occhi»1 o «la madre mi afferra con le sue braccia»2? E tuttavia raccogliendo insieme queste cose e molte altre più di queste degne dei poeti tragici, simili a quelle espressioni mostruose di Empedocle di cui essi stessi ridono: «esseri dai piedi striscianti con innumerevoli mani»3 e «esseri nati da vacca con volto umano»4, e ogni altra possibile visione o natura straordinaria desunta dai sogni e dai deliri, non dicono essi forse che in tutto questo non c’è alcuna allucinazione né inganno né confusione, ma che si tratta di apparenze veraci, di corpi e forme che giungono a noi dall’ambiente che ci circonda?

PORFIRIO, De abstin., I, 3, p. 87, 4 Nauck2 (23 Krohn).

Forse infatti tu ignori che non pochi si sono pronunciati contro l’astensione dalle carni. Tra i filosofi, i peripatetici e gli stoici e i seguaci di Epicuro son coloro che hanno sviluppato più ampiamente la polemica contro la filosofia di Pitagora e di Empedocle… e di essi esporrò ora le ricerche pratiche e generali relative a questo principio, dopo aver confutato le polemiche mosse in particolare contro la dottrina di Empedocle.

PORFIRIO, De abstin., I, 7-12 (24 Krohn)5.

7. I discepoli di Epicuro, come tracciando una lunga genealogia, dicono che gli antichi legislatori, mirando alla comunanza di vita degli uomini e alle loro azioni reciproche, pronunciarono una condanna di empietà contro l’uccisione di un uomo, e posero, per questa, pene non indifferenti; e forse anche una certa parentela naturale degli uomini fra loro, per la somiglianza dell’aspetto e dell’anima, cooperava a impedire che facilmente si uccidesse un essere vivente simile a un qualunque altro di quelli che ci si trovava intorno. Tuttavia la causa principale dell’esser ciò riprovato e condannato come empio stava nel fatto che simili azioni tendono a distruggere la sussistenza stessa della vita. Partendo da tale principio, coloro che si attenevano a tale convinzione per la sua utilità non erano obbligati da alcun altro movente esteriore, se non quella stessa ragione che li teneva lontani da un’azione del genere, mentre quelli che non riuscivano a raggiungere di ciò piena consapevolezza si astenevano dall’uccidersi con facilità solo per il timore della grande entità delle pene. L’una e l’altra cosa, com’è evidente, accade tuttora: gli uni, avendo ben chiara l’utilità che deriva dalla convinzione di cui si è detto, si attengono ad essa spontaneamente; gli altri non arrivano a rendersene consapevoli, ma agiscono sotto il timore delle minacce della legge, quelle minacce che sono state poste proprio per i più incapaci di valutare veramente l’utilità, dal momento che è la maggior parte degli uomini quella che vive secondo la legge.

Nulla inizialmente fu imposto come legge con la forza delle disposizioni ancor oggi vigenti, né con norme scritte né senza norme scritte: quelli che introdussero certe regole presso la moltitudine erano superiori al popolo per la saggezza dell’ anima, non per la forza del corpo né per signoria dispotica; essi conducevano alla riflessione6 sull’utilità coloro che già prima avevano avvertito ciò istintivamente, ma poi spesso l’avevano dimenticato, mentre colpivano con la grande entità delle pene gli altri. Non era infatti possibile usare un altro rimedio contro l’ignoranza di ciò ch’è utile, se non il timore delle pene stabilite dalla legge. Anche adesso questo soltanto tiene a freno gli uomini comuni, e impedisce di compiere cose dannose, sia in pubblico che in privato. Se tutti fossero in grado alla stessa maniera di veder bene e di tenere a mente ciò ch’è utile, non avrebbero alcun bisogno delle leggi, ma spontaneamente si asterrebbero da ciò ch’è vietato e compirebbero ciò ch’è prescritto. La visione esatta di ciò ch’è utile e di ciò ch’è dannoso sarebbe di per sé sufficiente a causare l’astensione dall’uno, la scelta dell’altro. Ma invece il rigore delle pene è diretto contro coloro che non riescono a vedere da sé spontaneamente ciò ch’è utile; esso costringe infatti a padroneggiare gli impulsi che condurrebbero alle azioni dannose, e obbliga con la forza a compiere ciò che si deve7.

I legislatori, inoltre, non esentarono completamente da ogni pena nemmeno l’omicidio involontario: 〈non solo〉 per non offrire con ciò, a chi volesse compiere quel misfatto, alcun pretesto di compierlo facendo credere che ciò avvenisse contro la loro stessa volontà; ma anche perché una cosa così importante non rischiasse di esser considerata da poco e di lieve momento, sì che potessero poi in realtà prodursi molti fatti involontari del genere. Anche questo avrebbe recato danno per le stesse ragioni per cui lo reca l’uccidersi a vicenda volontariamente. E, dal momento che le azioni involontarie si verificano nel genere umano parte per cause di instabilità e di negligenza, parte per la nostra trascuratezza e il nostro non tener conto della differenza fra le cose, essi, volendo impedire questa negligenza che ridonda a danno della moltitudine, non resero del tutto esente da pena neanche l’azione involontaria, ma decisero di dovere in ogni caso distogliere da tale misfatto col timore di punizioni. E credo che il fatto che anche le uccisioni ammesse dalla legge debbano poi essere espiate con atti di purificazione non abbia altra ragione se non che furono proprio i primi legislatori a introdurre saggiamente quest’usanza, per tener lontani il più possibile gli uomini da una simile azione anche se involontaria: gli uomini comuni avevano infatti bisogno che si impedisse loro con i mezzi più diversi di commettere facilmente cose contro l’utile comune. Avendo di ciò una visione d’insieme8 i primi legislatori non solo stabilirono pene, ma fecero pendere su di loro un’altra paura irrazionale, sancendo per legge che sono impuri coloro che, in qualunque maniera avendo ucciso un uomo, non si sottomettano poi a purificazione

Così anche la parte irrazionale dell’anima, sotto l’effetto dell’educazione nelle sue varie forme, pervenne a una forma stabile di mitezza, dal momento che coloro che originariamente governavano i popoli avevano escogitato mezzi adatti ad addomesticare gli impulsi volti all’irrazionale distruzione; e tra di essi rientra il divieto di uccidersi senza regolare giudizio. Tuttavia, coloro che per primi stabilirono che cosa sia da farsi e che cosa da non farsi non vietarono, ragionevolmente, di uccidere nessuno degli altri animali; riguardo a quelli, infatti, l’utilità spingeva a comportarsi esattamente nel modo opposto. Non era infatti possibile sopravvivere senza tentare di difendersi col nutrirsi reciprocamente. Allora, alcuni fra i più umanitari che vivevano in quel tempo, ricordando come si fossero astenuti dall’uccidere altri proprio al fine della loro stessa conservazione, per l’utilità che derivava da ciò, ebbero cura di ricordare agli altri il beneficio derivato loro dal loro comune modo di nutrirsi, esortandoli ad astenersi dal mangiare il proprio simile e ad osservare così quelle leggi della vita comune che operano in vista della salvezza individuale di ciascuno. Il dividersi in gruppi e l’astenersi dal portare alcuna offesa a quelli che si fossero riuniti nello stesso luogo fu allora utile non solo perché costituiva una prima forma di separazione dagli animali di altra specie, ma perché portava anche a contrapporsi efficacemente a quegli uomini che sopravvenissero con intenzioni aggressive.

Fino a un certo periodo, dunque, si può dire che gli uomini si astennero dall’uccidersi reciprocamente fra simili in quanto ciò tornava a favore del comune uso delle cose necessarie, e offriva utilità nei riguardi delle due cose di cui si è detto. Ma poi, quando un lungo periodo di tempo fu trascorso, e la comune origine era ormai assai lontana, quando la separazione dagli animali di altra specie era ormai un fatto compiuto ed era nato l’uso di trascinare agli altari le vittime, gli uomini raggiunsero a proposito del reciproco nutrimento una convinzione razionale circa ciò ch’è utile, in cambio del ricordo irrazionale. Allora cercarono di vincolare in forma più sicura quelli che erano proclivi a uccidersi, e che, dimentichi del passato, non davano importanza alle azioni di mutuo soccorso; nell’intento di conseguire ciò, posero leggi che ancor oggi esistono nelle città e nelle nazioni, e il popolo obbedì ad esse volontariamente, perché ormai, nel suo stesso riunirsi a vita comune, aveva raggiunto la coscienza9 di ciò ch’è utile. Similmente, collaborò alla sicurezza dal timore il permesso di uccidere senza scrupolo l’animale che arrecasse danno e la possibilità di garantire l’utile comune con la soppressione di quello; fu quindi ragionevole che l’una cosa fosse vietata, l’altra non fosse impedita.

Tuttavia non si può dire che alcuni animali, che non sono pericolosi per la stirpe umana né dannosi per la vita in alcun altro modo, la legge ci abbia permesso di sterminarli del tutto. Nulla fra le cose concesse dalla legge è tale da non poter recar danno se lo si lasci raggiungere una proporzione esagerata, mentre invece, nella misura di quantità in cui lo si osserva attualmente, offre a noi determinate forme di utilità per la nostra vita. Infatti pecore e buoi e ogni specie di questo tipo, in misura moderata, ci offrono determinate utilità per il nostro vitto; se il loro numero comunque raggiungesse un eccesso di abbondanza e arrivasse a misure assai maggiori di quella consueta, essi rovinerebbero la nostra esistenza, parte per la loro forza selvaggia, di cui partecipano per la loro natura a ciò adatta, parte perché ci distruggerebbero tutto ciò che spontaneamente ci produce la terra. La ragione per cui non fu vietato di uccidere gli animali è proprio questa, perché ne restasse solo quella quantità che fosse utile per le nostre necessità, e che fosse anche possibile padroneggiare facilmente. Diversamente vanno le cose riguardo ai leoni, ai lupi e in una parola a tutti quegli animali che chiamiamo feroci, dei quali non c’è nessuna parte che, lasciata sussistere, porti un sollievo alla nostra vita nelle sue necessità; mentre altro è riguardo ai buoi, ai cavalli, alle pecore, a tutti quegli animali che chiamiamo domestici. Perciò noi tendiamo a sterminare gli animali feroci, mentre degli altri uccidiamo solo quelli che oltrepassano la retta misura

Più o meno per tutte queste ragioni si deve ritenere che siano state emanate norme, da parte dei primi legislatori, circa il cibarsi di esseri animati; e quanto poi al divieto di nutrirsi di certe carni, il suo fondamento sta soltanto nel fatto che ciò sia utile o vada contro l’utile. Quelli, quindi, che dicono che a proposito di queste norme di legge tutto il bello e il giusto risiede nelle loro proprie e particolari convinzioni, sono pieni di profonda stoltezza; non così stanno le cose, ma essi compiono molti errori10 così come anche riguardo ad altre cose utili, circa le cose che apportano salute e altre numerose realtà, in pubblico e in privato. E alcuni di loro non riescono a capire quali siano le disposizioni di leggi veramente utili a tutti, ma, o le trascurano ritenendo che appartengano alle cose indifferenti11, oppure hanno parere contrario, o credono universalmente utili cose che non lo sono affatto. Per tale ragione si attengono a cose non convenienti, anche se in tali casi riescono a scoprire cose utili per loro o di utilità comune. Circa ciò che riguarda il nutrirsi di esseri viventi e l’ucciderli, presso i più vari popoli le disposizioni furono date secondo le particolarità proprie del paese, né è sempre necessario che tutti le osserviamo, dato che abitiamo in luoghi diversi. Se si fosse riusciti a fare un patto, come con gli uomini, così con gli altri animali, circa il non uccidersi né esserne uccisi senza giudizio legale, la sfera del diritto avrebbe dovuto essere estesa fino a questo limite12; e tale estensione sarebbe avvenuta sempre in vista della sicurezza. Ma poiché appartiene alle cose impossibili l’aver comunità di diritto con animali che non partecipano della ragione, e poiché non è stato possibile procurarci in tal modo quell’utilità che viene dalla sicurezza nei confronti di tali esseri animati più di quanto non lo sia stato nei confronti di realtà inanimate, è possibile ottenere tale sicurezza solo da quel permesso legale di ucciderli del quale attualmente disponiamo.

Questa è la dottrina degli Epicurei13.

PORFIRIO, De abstin., IV, I segg. (25 Krohn).

…lasciando da parte quelle questioni particolari la cui pretesa di utilità seduce gli edonisti, poiché l’affermazione che nessuno dei sapienti14 né mai alcun popolo ha respinto tale maniera di nutrirsi15 porta gli ascoltatori, per ignoranza della vera ricerca, a commettere una gran quantità di azioni ingiuste, ora, nell’intento di confutare queste teorie, cercheremo di respingere le soluzioni di tipo edonistico a queste e ad altre questioni.

PORFIRIO, ivi, 5 (26 Krohn).

Passando poi agli altri popoli, quanti fra di essi si sono piegati all’obbedienza alle leggi e alla mitezza e pietà verso gli dèi, sarà chiaro che ciò che si riferisce alla salvezza delle città e al loro utile, se non per tutti in vari casi, è collegato con l’astinenza dalle carni.

PORFIRIO, ivi, (27 Krohn).

Ma se coloro che sono preposti alla salvezza delle città e sono garanti per esse del culto degli dèi si astengono dal mangiare carne di animali, come oserà qualcuno dire che quest’uso è contrario all’utile delle città?

PLUTARCO, De def. orac, 420 d (29 Krohn).

Ciò che ho ascoltato dagli epicurei, i quali dicono, contro i dèmoni di cui ha ammesso l’esistenza Empedocle, che questi, essendo falsi e ingannevoli, non è possibile che siano felici e di lunga vita, perché la cattiveria ha in sé grande cecità ed è portata a cadere proprio in quella rovina che vorrebbe evitare, è una sciocchezza.

DIOGENE DI ENOANDA, fr. 33 Grilli (31 Krohn).

…la trasmigrazione. Nel tempo intermedio durante il quale avviene per esse (le anime) la trasmigrazione, la situazione sarà in ogni caso 〈peggio〉re per l’essere che 〈rive〉sta natura 〈non〉 umana. Se esse sono, in una maniera 〈o nell’altra〉, se〈nza〉 il corpo, a che scopo ti crei imbarazzi, o piuttosto ne rechi ad esse, 〈tra〉scinando〈le e〉 facendole passare da un essere vivente all’altro e continuando così 〈per l’eternità 〉, fino a che non le hai del tutto purificate e 〈alla fi〉ne elevate sino 〈agli dèi〉? Infatti, o 〈bisogna〉 ammettere semplicemente che le anime sono immortali di per sé, senza bisogno di gettarle in questo lungo viaggio, per rendere più solenne la finzione circa il destino ultimo, oppure, Empedocle, non potremo prestar fede a qu〈este tue〉 trasmigrazioni…16.

FILODEMO, De pietate, fr. 68, p. 98 Gomperz (32 Krohn).

Er〈mar〉co similmente dice che la nostra anima gode di 〈grandi gio〉ie per beneficio degli dèi, e nel libro I del Contro Empedocle dice che ad al〈cuni è da〉ta tr〈anquillità 〉, e 〈ad altri il con〉trario17.

FILODEMO, De pietate, fr. 71, p. 101 Gomperz (33 Krohn).

E〈rmar〉co… scrisse 〈un libro〉 sugli onori da tributarsi agli dèi… dicendo molte cose su Epicuro nell’ultimo libro del Contro Empedocle18.

PROCLO, In Timaeum, I, p. 219, 9 segg. Diehl (37 Krohn).

E perciò Timeo dice che i saggi per ogni impresa che intraprendono invocano in qualche modo Dio… Ma, domanda l’epicureo Ermarco, non andremo forse all’infinito se per ogni impresa, per piccola che sia, abbiamo bisogno di una preghiera? Per pregare veramente avremo poi bisogno ancora di un’altra preghiera, e non ci fermeremo mai19.

CICERONE, De nat. deor., I, 33, 92 (38 Krohn)

Ti sembra che delirino tutti quelli che hanno affermato che la divinità può sussistere anche senza mani e piedi? né vi scuote la considerazione di quale sia la funzione e l’utilità delle membra dell’uomo, sì che potete credere che gli dèi non siano privi di membra alla maniera degli uomini? Ma che bisogno c’è di piedi quando non si deve camminare? delle mani se non si deve afferrare niente? di tutto il resto dell’articolazione delle parti del corpo là dove non c’è nulla di vano, di senza causa, di superfluo? Nessuna arte può imitare la solerzia della natura. La divinità avrà quindi la lingua e non parlerà, i denti, il palato e le fauci per nessun uso, avrà invano quegli organi che la natura foggiò nel corpo umano in vista della procreazione, avrà tutti gli organi esterni così come interni, il cuore, i polmoni, il fegato e tutte quelle altre cose che quale bellezza possono avere una volta che non abbiano nessuna funzione? eppure voi volete che tutte queste cose siano nella divinità per ragioni di bellezza!20 93. E credendo a questi sogni non solo Epicuro e Metrodoro ed Ermarco se la presero con Pitagora, Platone ed Empedocle, ma non osò forse la stessa sgualdrinella Leonzio scrivere contro Teofrasto?21.

FILODEMO, De dis, III, col. XIII, 20 segg., pp. 36-37 Diels (39 Krohn).

Bisogna riflettere che per Ermarco gli dèi respirano inspirando e aspirando; non potremo pensare siffatti esseri viventi, nelle nostre anticipazioni, privi di tale funzione, come non potremmo pensare i pesci non bisognosi dell’acqua né gli uccelli delle ali per volare nell’a〈ria〉; non di più bisogna pensare che esseri siffatti… essendo assolutamente int〈eri in ogni parte〉… diversi solo per la loro 〈immor〉talità … 〈pensare altrimenti sarebbe〉 stoltezza… bisogna rifle〈ttere che〉…22 e dire che non vi è piede23 o suono secondo misura ritmica che non abbia bisogno di essere accompagnato dal respiro, così come non vi è neve senza bia〈nchez〉za o fuoco senza calore; e bisogna anche affermare che essi usano della voce nel parlarsi reciprocamente; non li penseremo certo, egli dice, più felici e più liberi se penseremo che non possano pronunciare parole e dialogare gli uni con gli altri, simili a uomini muti. Dal momento che noi godiamo di integrità soltanto se usiamo della voce, bisognerebbe dire che gli dèi non hanno integrità, oppure che non sono simili a noi, poiché né noi né loro possiamo 〈altrimenti〉 in alcun modo emettere suoni, e ciò sarebbe del tutto stolto; tanto più che il discorrere insieme con altri buoni simili a sé è fonte di piacere indicibile. E, per Zeus, bisogna ben credere inoltre che la lingua ch’essi parlano è la greca o una simile ad essa, e che emettano le voci chiare ed esatte al massimo come in Grecia tutti i sag〈gi, in quanto sa〉ggi, si dice che usino dizioni non molto differenti fra loro nei loro modi. Sappiamo che chi diviene sapiente prende ad usare la lingua greca soltanto, giacché pur essendovi una varietà di 〈dial〉et〈ti〉24 usati comunemente per i rapporti reciproci, tale lingua ha il più largo uso non solo per le città greche, ma 〈per tutta la terra〉 (?)… essa deriva dagli dèi, in quanto generati all’inizio di tutte le cose25.

DA ALTRE OPERE

FILODEMO, De rhet., II, col. XLIV (I, p. 77 segg. Sudhaus; 41 Krohn; p. 135 segg. Longo).

〈Ma〉 ora passiamo a quest’altro punto, che cioè noi non riterremmo arte la retorica sofistica, mentre sarebbero in contrasto con noi su questo punto i fondatori della nostra setta… Esporrò anche questo punto, per chiarire tutto l’argomento con le argomentazioni stesse di Zenone26. Epicuro, nel Della retorica, parla ampiamente di scuole di retorica e… delle capacità che da tale insegnamento derivano…27 ma anche Er〈mar〉co, in una 〈let〉tera a Teofida28scritta sotto l’arcontato di Menecle29, mostra di avere la stessa opinione Era avvenuto infatti che Alessino, nello scritto Sull’educazione30, avesse 〈conda〉nnato i maestri di retorica per le loro molte ricerche vane, per esempio quelle circa lo stile della dizione e l’esercizio della memoria (perché, per esempio, si chiedono come mai Omero usi il termine 〈συμ〉βέβηϰε in versi che cominciano ἄστρα δὲ προβέβηϰεν31e altre cose del genere; o anche per le loro ricerche di analoghe difficoltà pres〈so Eur〉ipide)32; e, nel riassumere l’anzidetta argomentazione e nel portare esempi ancora aggiungendo altre cose, fosse poi passato a lodare il 〈discorso〉 dialet〈tico〉33… dicendo: «〈si〉 potrebbe tuttavia dimostrare che essi cercano di fare discorsi intorno a molte cose di carattere esteriore, ma utili, quali possono anche essere oggetto della ricerca del filo〈sofo〉; e che, se non li conducono in base a conoscenze scientifiche, è pur sempre 〈possibile〉 che il giudizio dei retori si compia secondo regole di ragionevole 〈conge〉ttura». Queste sono dunque le vacuità di Alessino nel suo discorso su questi argomenti; a cui egli (Ermarco) controbatte: «Quanto al fatto che parlino circa soggetti utili, se dobbiamo identificare questi con mezzi per procurarsi guadagno, con questioni relative alla ricchezza, quella che dice è una completa follia». E ancora, denunciando la follia propria di tale affermazione, continua: «se invece egli si vuol riferire con ciò a soggetti tali quali quelli di cui consta…34in ciò 〈non può esservi?〉 errore né grande né 〈pic〉colo. Concediamo pure che, per la loro non abitudine a simili argomenti, i saggi e i giusti si trovino ingannati in tutti i casi in cui si tratti di agire di fronte al popolo, di aver processi contro 〈nemici〉, di difendersi da sicofanti o da giura〈menti〉 e 〈testimon〉ianze false; ma è preferibile perdere molto denaro o un terreno, ridendosi del 〈giud〉ice ed 〈evi〉tando perfettamente nella propria disposizione di spirito i più grandi timori, piuttosto che vincere tutte le cause e trovarsi 〈sempre〉 a 〈lottare〉 per 〈que〉stioni di questo tipo, senza riuscire a liberarsi dai timori. 〈I filosofi〉 vietano dunque in ogni caso a chi è sag〈gio〉 di esercitare attività giudiziaria e di av〈ere esp〉erienza di arte retorica, e lo esortano a rif〈uggire〉 da chi fa sfoggio di discorsi presentandoli come u〈tili〉 per la vita, mentre in realtà non fa che esercitare l’arte retorica del tutto a vuoto35. E dopo aver dimostrato che non è ammissibile che si lodi 〈l’atti〉vità dei 〈maestri di〉 retorica come coloro che insegnerebbero a portar consiglio nelle assemblee36, 〈aggiun〉gendo ancora a tutto questo un discorso adatto anche a questa parte della trattazione, conclude confutando 〈Alessino〉 in questa forma: che poi, 〈dice〉, sia da 〈ammi〉rare che fa professione di retorica perché saprebbe esercitare util〈mente l’attività poli〉tica, è discorso che non si regge in piedi neanche sotto questo aspetto: potrremmo a questo modo con〈cepi〉re anche cuochi o mercanti che sanno fare utilmente i loro affari: ma è certo che la capacità di deliberare in questi campi verte intorno a questioni che non 〈si risolvono〉 per mezzo di discorsi, così come si potrebbe dire che le questioni che riguardano la 〈sap〉ienza sono risolte solo dalla 〈filoso〉fia, e così come d’altro canto potremmo dire per arti come quella del fal〈egna〉me o del 〈fab〉bro — nessuna di queste attività ha il minimo bisogno dell’〈insegn〉amento di un 〈retore〉…37. E così si può dire che anche un uomo rozzo e del tutto ignaro di lettere, oltre che del tutto 〈ines〉perto di artifici retorici, potrebbe esser capace di escogitare espedienti utili al popolo e di esporli ad esso 〈chiar〉amente. Quanto poi al discorso (di Alessino) che alcuni discorsi retorici 〈raggiungono〉 una conclusione non con metodo 〈scienti〉fico ma per via di 〈esperienza〉 e congettura, come si deve infine esso intendere? non bisogna infatti pensare ch’egli voglia dire che tali discorsi, riguardo alla loro formulazione verbale, non contengono sillogismi dialettici; questo non si verifica infatti per alcuni di essi, ma per 〈tut〉ti; a parte il fatto che poi questo tipo di procedimento piace a lui anche troppo; egli infatti rimprovera a 〈Eu〉bulide38 di disprezzare i di scorsi che non contengono sillogismi; 〈dice〉 che anche senza 〈questi〉 noi possiamo apprendere le cose». — Abbiamo esposto queste argomentazioni verbalmente pensando che qualcuno potrebbe gradire questo riferimento, non ignorando comunque che sembrano essere state scritte per un altro assunto rispetto a quello iniziale.

FILODEMO, De rhet., II, col. XXI (I, p. 120, 10 segg. Sudhaus; p. 215 Longo; 42 Krohn)39.

e questo, che cioè quelli che professano retorica sofistica non 〈compi〉ono la stessa attività dei retori pratici e politici… lo spiega anche Ermarco con le parole che già abbiamo riferite.

FILODEMO, De rhet., Hypomn., II, p. 247 Sudhaus (43 Krohn).

Ma alla re〈tor〉ica dei sofisti non acc〈ade〉 di divenir retorica politica in quanto retorica, né al puro retore di esser anche un 〈pol〉itico, in quanto è retore, né al p〈olitico di〉 essere retore, com’è chiaro da ciò che scrissero 〈Epi〉curo nel Della retorica, Me〈trod〉oro nel libro I del Dei poemi, Ermarco sotto l’arcontato di Menecle in u〈na〉 lettera a Teofida.

FILODEMO, De rhet., II, col. XXXV (I, p. 141 Sudhaus; pp. 264-265 Longo; 44 Krohn).

…e quelli conoscono il metodo senza aver avuto alcun insegnamento da altri, ed essi stessi spontaneamente sanno esprimersi e sono consapevoli di determinati metodi in base ai quali pro〈cedere〉 da sé e accedere alle questioni singole, in grado di poter dire ambedue le cose. Perciò non potrebbero esser sospettati di esser forniti di istruzione: sono «uomini illetterati» dice E〈picuro〉, e «rozzi» dice Ermarco, poiché l’apprendimento è un atto mentale40.

AMBROGIO, Epist. LXIII, 19, P.L. XVI, col. 1246 (48 Krohn).

Egli dice dunque a gran voce, come asserisce Ermarco41, che non il gran bere e il nutrirsi riccamente e la ricca prole o i molti rapporti con donne, e neanche il godere di pasti con pesci in abbondanza e altri cibi siffatti che si preparano in vista di splendidi banchetti, sono le cose che rendono la vita felice, ma il discutere con sobrietà 42.

STOBEO, Flor., IV, 51, 30, p. 1073 Hense (51 Krohn).

Di Ermarco: ben disprezzabile è la morte: si vanifica ogni agire quando venga meno la capacità di subire.

Sent. Vat. XXXVI (54 Krohn).

La vita di Epicuro, paragonata a quella di altri, sembrerebbe quasi una leggenda per la sua mitezza e la sua autosufficienza.

FILODEMO, De ira, col. XLV, 12 segg., p. 90 Wilke (55 Krohn)43.

Che egli (il sapiente) si adirerà, 〈non sembra〉 r〈es〉p〈in〉to neanche da Ermarco, ma 〈solo di un’ira breve (?)〉44; sì che c’è da meravigliarsi che quelli che vogliono esser interpreti dei loro libri, tralasciando le cose dette in precedenza, e attenendosi solo alla conseguenza, ne deducano che quegli uomini (Epicuro, Metrodoro, Ermarco) ritengono che il saggio possa adirarsi.

FILODEMO, De oeconomia, col. XXIV, p. 68 Jensen (56 Krohn).

Per dire più propriamente, le cessioni ad amici o a persone non sgradite sembrano ad alcuni detrazioni e diminuzioni della propria sostanza, mentre, come dice Ermarco, le cure che si prendono uomini siffatti sono ancora più utili che non le cure dei propri terreni e sono tesori assolutamente sicuri di fronte alle vicissitudini della sorte. Bisogna talvolta gettar via qualcosa di ciò ch’è proprio, così come coloro che seminano la terra; azioni dalle quali — parliamo infatti degli uomini — avviene di poter trarre molti e svariati frutti45.

FILODEMO, De adulatione, pap. ined. 1675, col. X, 3 segg. (57 Krohn).

Perché alcuni adulatori adulano fortemente e nello stesso tempo offendono amaramente quelli che adulano? La causa principale di ciò la spi〈ega〉 Ermarco. «Chi conduce u〈na vi〉ta senza turbamento» egli dice «e non è afflitto da grandi dolori, disprezza con tutte le sue forze quelli che si trovano in di〈fficoltà 〉 gli uni a causa degli altri; chi si occupa di politica infatti soffre» e poi aggiunge: «li si evita per il nostro gran dissentire da loro su molti punti, odiando soprattutto〉 il loro dare grandissima importanza ai doni e agli onori»… E riguardo agli adulatori: «essi offendono amaramente quegli stessi che adulano, per quel tanto di disgustoso che c’è nei loro costumi, ma sono costretti ad adularli fortemente per poter così profittare dei beni della loro 〈men〉sa»…46

STOBEO, Flor., IV, 34, 66, IV, p. 845 Hense (58 Krohn).

Di Ermarco47. Senza sicuri confini è la vita di ognuno, ed erra in preda alle vicenda senza aver in sé niente di certo; la speranza dà audacia agli animi; nessun mortale sa esattamente dove lo porti il futuro; la divinità guida i mortali attraverso tutti i pericoli. Spesso alla buona fortuna spira contro un’aura cattiva.

1. CALLIMACO, fr. 387 Schneider (di dubbia attribuzione).

2. EURIPIDE, Iphig. Taur., 288-290.

3. 31 B 60 DIELS-KRANZ.

4. 31 B 61 DIELS-KRANZ.

5. Prima intuizione dell’appartenenza a Ermarco di questi passi di Porfirio in J. BERNAYS, Theophrastos’ Schrift über die Frommigkeit, Berlin, 1866; ma il Bernays parla anche, e soprattutto, dei capp. 49-54 del De abstin., a proposito dei quali cfr. supra, p. 450 (refutazione di ciò in KROHN, Hermarchos, p. 4 segg.). In ogni caso, anche dove Porfirio, come nei capp. 7-12, attinge con ogni probabilità a Ermarco, lo fa non testualmente e con liberi rifacimenti verbali, come attesta il linguaggio più tardo (cfr. DIELS, Philod. Ueber die Götter III, p. 50, nota I; KROHN, Hermarchos, p. 5). A proposito di questo passo cfr. recentemente TH. COLE, Democritus and the sources of Greek Anthropology, p. 71 segg.; G. SASSO, «La Cultura» 1977, p. 141 segg.; poi in Il progresso e la morte. Saggi su Lucrezio, Bologna, 1979. GOLDSCHMIDT, Doctr. Épic. droit, pp. 287-297, dà di tutto il passo una traduzione con ampio corredo di note.

6. Porfirio usa il termine epicureo ἐπιλογισμός.

7. Può darsi che tutta la successiva trattazione dell’origine e del primo svolgimento del genere umano, incentrata intorno al tema del nutrimento reciproco degli animali, sia da riferirsi alle Dissertazioni su Empedocle, e si inserisca nella generale opposizione a questo, opposizione, in questo caso, al suo vegetarianismo pitagorizzante. Ma non è improbabile che anche in questo caso attraverso Empedocle si intendesse cogliere qualche bersaglio più vicino; BIGNONE, Arist. perd., II, p. 282 segg., pensa a una polemica con Teofrasto. Si potrebbe pensare anche a Senocrate, il quale, nella massima «non uccidere ciò che è simile per natura» (τὶ ὁμογενές), comprendeva gli animali non ragionevoli: cfr. lo stesso Porfirio, De abst., IV, 22 = Senocrate, fr. 98 Heinze).

8. Congettura di Hercher (συνιδόντες) contro il συνειδότες del testo. GOLDSCHMIDT, Doctr. Épic. droit, p. 292, ricorda che συνορᾶν è parola epicurea.

9. Non c’è qui συνείδησις, ma αἴσϑησις, che in questo luogo ha lo stesso valore.

10. Testo incerto; 〈ἄλλοι〉 ἄλλα, Abresch, 〈ἄλλοι〉 πολλα, SHOREY; cfr. KROHN, Herm., ad loc.

11. Eco di dottrine stoiche; che peraltro può già trovarsi in Ermarco stesso.

12. Questo passo potrebbe chiarire il significato di Mass. cap. XXXII, cfr. supra; senza che, con il KROHN, sia poi necessario attribuire le ultime Massime capitali a Ermarco.

13. BIGNONE, Ar. perd., II, p. 282 segg, come si diceva sopra, ha interpretato tutto questo brano in funzione antiteofmstea: prima Epicuro poi la sua scuola sarebbero in polemica con Teofrasto per la sua teoria di una comunanza di diritto fra uomini e animali (tema poi trattato, e risolto in senso negativo, anche da Crisippo, Stoic. Vet. Fragm., III, 367 segg.); Porfirio ci riporta le argomentazioni di Teofrasto confortate da esempi storici e queste di Ermarco che, come dimostra soprattutto l’ultima parte, fanno leva anch’esse, in risposta polemica, su considerazioni di ordine storico.

14. Seguendo il testo emendato dal Reiske.

15. Cioè il nutrirsi di carni. Il Krohn ha inserito i due brani, questo e il seguente, nella sua raccolta, per la polemica che contengono contro gli «edonisti», letteralmente «i corrotti dai piaceri» (ὑπὸ τῶν ἡδονῶν δεδεϰασμένοι,).

16. Per queste teorie empedoclee cfr. 31 A 31, B 115 segg. Diels-Kranz.

17. L’«Ermarco» iniziale è legittima restituzione del Gomperz. Si segue per il resto la restituzione del PHILIPPSON, «Hermes», 1921, p. 369; diversamente DIELS, Doxogr., p. 127, seguito dal Krohn.

18. Cfr. PHILIPPSON, «Hermes», 1921, p. 370; il quale nel testo lacunosissimo legge ancora: «e afferma che questi non fu irretito da false opinioni». Cfr. ancora un accenno a Epicuro inDe pietate, fr. 82, p. 112 Gomperz (34 Krohn); e per altri accenni CRÖNERT, Kol. u. Men., p. 24, nota 136 (35 Krohn).

19. Cfr., per la traduzione del passo (in cui la parola ὁρμή è ambigua, insieme «impresa» e «impulso») FESTUGIÈRE, Proclus, Comm. sur le Timée, II, 2, p. 39 e nota I.

20. Cfr. anche supra, p. 380. La dottrina dell’antropomorfismo divino, impostata già con chiarezza da Epicuro, sembra fosse perseguitata da Ermarco fino alla pedanteria di minute deduzioni, cfr. il seguente brano filodemeo.

21. Per questa notizia su Leonzio cfr. anche FILODEMO, Voll. Herc.2 I, f. 149 (p. 102 Us.); PLINIO, Nat. Hist., praef. 29; TEONE, Progymnasm., 230, Rh. Gr., II, p. III Spengel.

22. Integrazioni del DIELS, in un testo assai lacunoso.

23. Ci si riferisce alla prosodia con le sue misure ritmiche.

24. Parola incerta (〈διαλ〉έϰ〈των〉). Integrazioni ancora del DIELS.

25. Le integrazioni sempre del DIELS sono qui assai ampie, e del tutto exempli gratia. Il senso generale comunque sembra abbastanza chiaramente accertato. Cfr. per questo brano USENER, Epicurea, p. 239.

26. Di Sidone, il maestro di cui Filodemo riporta la dottrina.

27. Cfr. supra, p. 285 segg.

28. Il personaggio non è noto. Per l’epistolario di Ermarco, in relazione a questo passo, cfr. TH. GOMPERZ, «Zeitschr. f. Oesterr. Gymnasien», 1865, p. 825.

29. Nel 283/282.

30. La restituzione è di H. v. ARNIM, Ein Bruchstück des Alexinos, «Hermes», XXVIII, 1893, pp. 65-72. Sulla scorta del Gomperz, loc. cit., il Sudhaus legge qui ancora ’Aλέξ〈ιδος〉 e lascia in stato frammentario il titolo dell’opera, mentre la ricostruzione Περὶ ἀγωγῆς si presenta in realtà assai agevole. Ma, nota il v. Arnim, non conosciamo un Alessi scrittore di prosa, ed è del tutto inverosimile che il passo possa riferirsi al comico Alessi. È assai plausibile pensare al megarico Alessino, allievo di Eubulide, al cui proposito cfr. DIOGENE LAERZIO, II, 109, e SESTO EMPIRICO, Adv. math., IX (= phys. I), 109.

31. così v. ARNIM, «Hermes», 1893, p. 67, accettato dal KROHN, Herm., ad loc. Diversamente SUDHAUS, Philod. d. rhet., I, p. 79. Il riferimento è a Il., X, v. 252.

32. Anche qui si segue il testo del v. Arnim, ἀποριῶν ζητήματα.

33. Così v. Arnim; il quale tenta una ricostruzione delle argomentazioni di Alessino nel loro passaggio dal biasimo iniziale dei maestri di retorica a una loro moderata lode. Diversa, ma meno convincente per la non individuazione del bersaglio polemico di Ermarco, la ricostruzione del Sudhaus, loc. cit.

34. Lunga lacuna nel testo.

35. Si segue anche qui la ricostruzione del v. Arnim; non molto diversa comunque su questo punto quella del Sudhaus. Lacunoso nel testo dato dalla Longo Auricchio, p. 141.

36. Συμβουλεύειν non richiede necessariamente, per avere il significato di «portar consiglio nelle assemblee», il δήμοις congetturato dal Sudhaus; cfr. invece v. Arnim, δη〈λώσ〉α〈ς〉 («avendo dimostrato»).

37. Testo lacunosissimo, di cui il v. Arnim ha tentato una integrazione; cfr. invece SUDHAUS, Philod. rhet., I, pp. 83-84, ove esso compare senza integrazioni. Cfr. anche LONGO AURICCHIO, pp. 144-145.

38. Il discorso, secondo il v. Arnim (diversamente il Sudhaus) si riferisce ancora tutto ad Alessino: si tratterebbe del riferimento di una polemica fra Alessino e il suo maestro Eubulide, megarico; DIOGENE LAERZIO, II, 108; SESTO EMPIRICO, Adv. math., VII (= log. I), 13. L’ipotesi è accolta da P. NATORP, Eubulides, in Real-Encycl., VI, I (1907), col. 870. Nel testo del SUDHAUS, op. cit., I, p. 85, il rimprovero figura come mosso a Eubulide da Ermarco stesso; ma ciò dipende sempre dal fatto che Sudhaus non individua esattamente il primo bersaglio della polemica di Ermarco.

39. Di seguito, un passo relativo a Metrodoro, cfr. supra, p. 527.

40. Di significato estremamente incerto. Sembra che Filodemo si riferisca nuovamente alla questione già più volte dibattuta degli inesperti capaci di parlare senza bisogno di insegnamento retorico.

41. «Demarchus», nel testo di Ambrogio; ma, sia corruzione testuale sia errore di Ambrogio stesso, il riferimento è con ogni probabilità a Ermarco. Cfr. USENER, Epicurea, p. XLIII.

42. Cfr. Ep. ad Men., 132.

43. Di seguito a un passo riguardante Metrodoro, cfr. supra, p. 534.

44. Congetture del PHILIPPSON, «Rh. Mus.», 1916, p. 457.

45. Per questo brano, che nella raccolta del Krohn è dato incompleto, cfr. BIGNONE, «Riv. Filol. Istr. Class.», 1924, p. 145 segg., che lo mette a paragone con DIOGENE LAERZIO, X, 120.

46. In base a letture del Vogliano, integrazioni del Diels; cfr. KROHN, Herm., ad loc.

47. Il nome di Ermarco è ricostruito dal BRINKMANN, «Rh. Mus.», 1916, p. 582. Cfr. ancora BIGNONE, «Riv. Filol. Istr. Class.», 1924, p. 167 segg.