Alla ricerca di una definizione

Due modelli di comunità

La tendenza ad assumere la famiglia e/o il gruppo di amici a modello ideale di convivenza umana attraversa l’intera storia del pensiero politico e sociale. Perché proprio queste due forme di aggregazione? Una delle caratteristiche che la famiglia e il gruppo di amici condividono, nella rappresentazione corrente, è la natura informale, affettiva, spontanea delle interazioni che intercorrono tra i loro membri, di contro ai rapporti formali, impersonali, burocratici dominanti nell’ambito di organizzazioni sociali più complesse. Al modello familiare e amicale ci si è potuti così rivolgere per teorizzare – o auspicare – società «al di qua del diritto», in cui la convivenza pacifica si fonda su un tacito accordo e non su codici di comportamento statuiti; su legami concreti e affettivi, non su regole impersonali. Michael Sandel, ad esempio, ha preso a modello la famiglia e, in subordine, il legame tra amici, per delineare un tipo di interazione sociale armoniosa, in cui la «giustizia» – intesa come criterio imparziale per distribuire beni scarsi tra soggetti dagli interessi divergenti – non avrebbe quasi occasione di esercitarsi. Più spontaneità e meno procedure, più generosità e meno diritti regnano nella comunità idealizzata da Sandel e da lui contrapposta al modello «liberale» della repubblica procedurale, quale viene ad esempio teorizzato da Rawls1. In realtà si potrebbe obiettare che quanto vale per il gruppo di amici – la spontaneità e l’immediatezza delle relazioni – non è necessariamente estendibile alla famiglia, che ha una sua innegabile dimensione giuridica e istituzionale. Ma il punto – per Sandel – è che tale dimensione rimane normalmente implicita e viene alla luce solo in momenti di crisi, quando la comunità familiare si sfalda sotto le rivendicazioni incrociate dei suoi componenti, divenuti l’un per l’altro estranei. Nel suo funzionamento fisiologico, la famiglia è per Sandel il tipico gruppo face to face, caratterizzato da relazioni personali, intime, dirette. Si può parlare, per designare tale oggetto, di comunità immediata, o anche di comunità degli amici, perché è la cerchia amicale, in effetti, la più adatta a identificarlo.

Ben prima di Sandel, alcuni dei tratti caratteristici della comunità immediata, e della forma sociale ad essa antitetica, la «società», sono stati colti dal filosofo tedesco Helmuth Plessner (1892-1985). «Ciò che porta tendenzialmente al superamento dell’artificialità e dell’estraneità alla vita, dell’impersonale nel senso detto [implicante la mediazione della tecnica e di strumenti artificiali], costituisce l’attrattiva e la vera essenza interiore, l’ethos della comunità. Per contro, l’ordinamento di vita societario cerca di configurare in modo impersonale le sue relazioni. Esso coltiva tutto ciò che porta dall’intimità alla distanza, dalla mancanza di ritegno al contegno, dalla concretezza individuale all’astrattezza generale»2. Per Plessner alla radice di tutte le filosofie della comunità – che si tratti di comunità «di sangue» o «di convinzioni» – c’è la ricerca della trasparenza, della sincerità, della fratellanza; il rifiuto della violenza, dell’inganno, dell’artificio. Al polo opposto, la vita in società, tra individui «che pervengono, per mancanza di occasioni, di tempo e di interesse, al massimo a una conoscenza superficiale», si basa sul rispetto della forma, su un gioco sottile di ruoli e di maschere che preserva dal pericolo sommo della caduta nel ridicolo, cui si espone colui che svela «senza ritegno» il proprio sé. Caratterizzazioni per certi versi simili si trovano negli scritti dell’antropologo americano Victor Turner (1920-1983): anche per lui la communitas è la sfera in cui i soggetti si incontrano senza mediazioni, privi di maschere, nella loro singolarità e concretezza. Nella società, o «struttura», invece, «le persone, mediante vari processi di astrazione, vengono investite di significati sovraindividuali e classificate in base ai diversi ruoli, status, classi, connotazioni culturali»3. Per Turner come per Plessner, la comunità implica intimità, immediatezza, autenticità; la società distanza, diplomazia, mascheramento. Ciò che cambia è il giudizio di valore: se per Plessner la comunità è una chimera che seduce i deboli e i sentimentali, coloro che non sono in grado di prendere parte ai cerimoniali complessi della società, per Turner sono proprio le energie e le risorse messe in moto dalla communitas a garantire la vitalità e il rinnovamento del sistema sociale nel suo complesso.

Finora ci siamo attenuti alla rappresentazione di Sandel della famiglia come sfera dei rapporti diretti, personali, informali, non bisognosi di essere regolati dal diritto. In realtà bisogna intendersi sul significato da attribuire alla nozione di diritto. A ben vedere, anche in epoche in cui lo Stato, con le sue leggi, rimaneva rigorosamente sulla soglia della casa amministrata dal padre di famiglia, al suo interno non regnava l’anarchia, ma il diritto consuetudinario: un codice di diritti e doveri non necessariamente scritti, ma comunque cogenti ed effettivi. Vista da questa angolatura la famiglia si presenta come un universo niente affatto privo di regole: un microcosmo ordinato gerarchicamente, dove ciascuno ha un ruolo e una funzione da svolgere, derivante dalla sua collocazione nel ciclo delle generazioni. Non solo. Da sempre preposta a tramandare i valori tradizionali del gruppo, a fungere da serbatoio della memoria collettiva e da tramite all’inserimento dell’individuo nella società, la famiglia è un’istituzione cui si appartiene per nascita, non per scelta. Proprio questo suo carattere naturale e organico l’ha resa, agli occhi di Ferdinand Tönnies (1855-1936), il «tipo di tutte le associazioni comunitarie»4, insieme al villaggio e alla città concepiti, per l’appunto, come famiglie in grande. A partire da Tönnies, per comunità (Gemeinschaft) si intenderà prevalentemente una formazione sociale regolata da un diritto analogo a quello familiare: un «sistema giuridico in cui gli uomini sono in rapporto tra loro come membri naturali di un tutto», distinto e contrapposto al sistema in cui «essi, assolutamente indipendenti in quanto individui, entrano in rapporto tra loro soltanto in virtù della propria volontà arbitraria»5. È possibile riferirsi a questo genere di oggetto con l’espressione comunità etica, perché ciò che la tiene insieme è un ethos più o meno esplicitamente condiviso; non norme scritte, ma neanche semplici sentimenti di amicizia e simpatia. Piuttosto, la condivisione di una storia, una cultura, un patrimonio di valori e simboli assorbiti fin dalla nascita, tanto da risultare determinanti nel plasmare l’identità degli individui. Anche questa seconda accezione di comunità, confusa e sovrapposta alla prima, è presente in Sandel, che parla di comunità «costitutiva» intendendo una sfera di rapporti «trovati» e non «scelti», una rete di legami che obbligano per il fatto di esistere e non per il modo in cui si sono formati. Ma su tutto ciò avremo modo di ritornare.

Che cosa unifica e che cosa distingue le due nozioni di comunità appena individuate? Servendoci delle categorie weberiane, possiamo dire che la comunità immediata è a base affettiva, quella etica a base tradizionale. La prima presuppone gruppi di dimensioni molto piccole, i soli in cui possano effettivamente avere luogo relazioni «faccia a faccia» e svilupparsi sentimenti di amore e di simpatia. La seconda può essere chiamata in causa per rappresentare enti collettivi ben più estesi e articolati, come gli Stati, le nazioni, i popoli. Entrambe amano presentarsi come comunità autoregolate e spontanee, animate da un principio interiore che rende superflue le leggi e le sanzioni. Di fatto, però, col crescere delle dimensioni del gruppo l’esigenza di formalizzare alcune regole si impone, ed ecco che nella comunità etica le norme esistono, ma sono interiorizzate; la costrizione c’è, ma agisce «alle spalle» degli attori sociali e diventa percepibile solo in presenza di comportamenti devianti. L’ordine che si presumeva esistere «naturalmente» e poggiare sul tacito consenso dei soggetti deve allora essere ripristinato coercitivamente, anche ricorrendo alla repressione o all’allontanamento dei dissenzienti dal gruppo.

Altre distinzioni potrebbero essere tentate. La comunità immediata può essere elettiva (la comunità «degli amici»); quella etica è per definizione ascrittiva (la comunità «costitutiva» di Sandel, della quale ci si riconosce figli ed eredi). L’idealizzazione della prima presuppone una concezione antropologica fondamentalmente ottimistica: l’idea della naturale socialità dell’uomo, o quella del suo possibile perfezionamento. La comunità etica non necessariamente presuppone tale fiducia: è possibile dubitare della naturale disposizione all’amore del genere umano e proprio per questo ancorare la comunità al solido terreno della tradizione, di un’etica materiale dei valori, di un ethos incarnato in istituzioni, consuetudini, modi di vita collettiva. Proprio perché non possono contare pienamente sul «fattore umano», non di rado i sostenitori della comunità etica riscoprono il diritto, nella sua dimensione formale e coattiva, mettendolo al servizio dell’integrità e della durata dei vincoli comunitari. In questo modo, però, essi finiscono col dissolvere ciò che volevano conservare: una comunità imposta è, infatti, una contraddizione in termini.

Tra sociologia e filosofia

Con la bussola rudimentale rappresentata dai nostri due modelli di comunità, possiamo ora occuparci più direttamente del comunitarismo, iniziando a porci il problema della sua data di nascita in quanto specifica filosofia o ideologia. Se, come abbiamo stabilito, per comunità va inteso qualsiasi gruppo concepito in qualche senso sul modello del nucleo familiare, bisognerà partire da molto lontano. Da sempre, infatti, si è guardato alla famiglia come alla prima e naturale forma di società, di cui aggregazioni più estese e complesse come il villaggio, la città, lo Stato rappresenterebbero il prolungamento ideale. Per Aristotele, la famiglia è la «comunità che si costituisce per la vita quotidiana secondo natura», e rappresenta il primo gradino del vivere associato, cui seguono le comunità altrettanto naturali del villaggio, risultante dall’aggregazione di più famiglie, e dello Stato, derivante dall’unione di più villaggi6. Ma l’idea che la famiglia sia la cellula fondamentale della società politica si ripresenta lungo tutta l’antichità e il Medioevo, resistendo addirittura in Jean Bodin, il teorico del concetto moderno di sovranità, e accompagnandosi spesso a una concezione paternalistica della politica, che assume la relazione tra padre e figli quale paradigma del rapporto tra governanti e governati. Norberto Bobbio ha proposto di ricondurre tali teorie a un modello unitario, il «modello aristotelico», i cui elementi sono definibili per contrapposizione rispetto al «modello giusnaturalistico» o «hobbesiano». Caratteristico del modello aristotelico è il fatto di postulare un rapporto di continuità tra la famiglia e le forme superiori della vita collettiva, Stato compreso, e di ricondurle tutte alla naturale tendenza umana all’associazione. Nel modello hobbesiano, invece, esiste un salto tra la condizione pre-politica (lo stato di natura) e lo Stato politico, colmabile solo attraverso la decisione consapevole degli individui di associarsi, dando vita a un corpo artificiale7.

L’irriducibilità di un modello all’altro deriva in ultima analisi, per Bobbio, dal loro essere espressione di due modi radicalmente opposti di concepire la società e lo Stato: l’organicismo e l’individualismo. Mentre in base alla concezione organicistica si immagina la società sul modello di un corpo vivente, in cui il bene del tutto viene prima di quello delle parti che lo compongono, inconcepibili separatamente da questo (come una mano distaccata dal corpo), in una prospettiva individualistica, o meccanicistica, la società e lo Stato sono il risultato della riunione di elementi dotati di una propria autonomia e suscettibili di essere eventualmente scomposti e ricomposti a formare un oggetto diverso (come gli ingranaggi di una macchina, per l’appunto). Nel primo caso la genesi della società politica è pensata in chiave naturalistica – o anche storicistica, tenendo conto di come istituzioni e tradizioni sedimentatesi nei secoli possano apparire agli occhi delle singole generazioni come una sorta di «seconda natura» –, nell’altro è concepita in termini prettamente artificialistici, come frutto di un progetto razionale.

Ora, se appare corretto sostenere che il comunitarismo è prevalentemente espressione della concezione del mondo di tipo organicistico, che ha regnato quasi incontrastata nel mondo antico e medioevale, appare nondimeno opportuno non retrodatare troppo nel tempo la sua nascita come specifica ideologia politica. È solo a partire dall’età moderna, infatti, e in particolare in seguito alla rivoluzione francese e alla rivoluzione industriale, frutti maturi di rivolgimenti teorici e politici avviati sin dal XVI e XVII secolo, che il comunitarismo, da paradigma che impronta di sé le autorappresentazioni del mondo tradizionale, diventa una vera e propria ideologia, trasformandosi in programma consapevolmente professato dal composito fronte degli scontenti dei cambiamenti in atto. Era in altre parole necessario che entrasse effettivamente in crisi l’ancien régime, con la sua articolazione in cerchie «naturali» di appartenenza gerarchicamente disposte a comporre l’organicità dell’universo sociale, perché fiorisse una letteratura «comunitarista», trasversale nelle sue aderenze ideologiche, ma unificata dall’antindividualismo, dall’avversione nei confronti dello spirito del contratto e del calcolo, dal sospetto verso le rivendicazioni astratte dei diritti dell’uomo e dalla ricerca di correttivi alla dissoluzione dei legami sociali tradizionali.

Il comunitarismo, in quanto ideologia, rappresenta dunque un fenomeno moderno. Ma anche l’analisi scientifica del concetto di comunità compare all’orizzonte piuttosto tardi, trovando una prima elaborazione sistematica nell’opera del sociologo Ferdinand Tönnies, che sviluppa peraltro intuizioni già presenti in Maine. Comunità (Gemeinschaft) è per Tönnies «ogni convivenza confidenziale, intima, esclusiva», fondata sulla «comprensione» (consensus), ovvero su «un modo di sentire comune e reciproco» che tiene insieme gli uomini come membri di un tutto organico. La società (Gesellschaft), al contrario, è «meccanismo», «puro coesistere di persone indipendenti l’una dall’altra», essenzialmente separate e libere da legami8. Alla comunità – sia essa familiare, di vicinato, amicale – si appartiene per nascita o per tacito accordo, mentre la società è per definizione artificiale e si regge su vincoli contrattuali. Dopo Tönnies questi temi sono stati riproposti, con alcune sorprendenti variazioni lessicali, da Émile Durkheim, che distingue la solidarietà «meccanica» tipica delle società tradizionali – per molti versi assimilabili alla tönniesiana Gemeinschaft – dalla solidarietà «organica» caratteristica delle società moderne, basate sulla differenziazione funzionale del lavoro e sul contratto (il quale a sua volta si fonda però su un consenso di ordine morale e «comunitario»)9. Spesso comunque la nozione di comunità è servita, nella letteratura sociologica, per designare non solo e non tanto un tipo di gruppo, ma una particolare specie di relazione sociale. Per Weber, ad esempio, la comunità (Vergemeinschaftung) è un tipo ideale di relazione in cui «la disposizione all’agire sociale poggia [...] su una comune appartenenza soggettivamente sentita (affettiva o tradizionale) degli individui che vi partecipano»; Gurvitch invece si serve del termine comunità per designare una forma di socialità «spontanea», non «organizzata», nella quale si realizza un grado elevato di «fusione del noi»10. In Parsons le nozioni di comunità e società vengono scomposte in una molteplicità di livelli, e definite attraverso il ricorso a cinque distinte coppie oppositive (affettività/neutralità affettiva, ascrizione/acquisizione, orientamento verso la collettività/verso l’io, particolarismo/universalismo, diffusione/specificità). Tale operazione di scomposizione analitica consente di cogliere la compresenza, nei diversi gruppi sociali, di elementi moderni e tradizionali.

Se l’apporto della sociologia nell’elaborare una nozione di comunità analiticamente precisa e dotata di chiari referenti empirici è stato influente, non è comunque scontato che le costruzioni teoriche dei vari comunitarismi, intesi come filosofie, ideologie o concezioni del mondo che attribuiscono alla comunità un valore positivo, ne dipendano in senso stretto. Del rapporto tra nozione sociologica di comunità e comunitarismo si può probabilmente affermare qualcosa di simile a ciò che è stato spesso sostenuto a proposito della relazione che intercorre tra nazione e nazionalismo: non necessariamente il primo termine della coppia è il presupposto del secondo, ma può anzi accadere che sia il comunitarismo a «creare» la comunità, così come è il nazionalismo a «immaginare» o a «inventare» la nazione11. In altre parole, non è detto che la comunità rimpianta, o sognata, o progettata dagli ideologi del comunitarismo si configuri come un’entità sociologicamente osservabile e descrivibile. E non è raro imbattersi in autori assai più precisi nel denunciare i mali della società che nel chiarire i connotati di una possibile alternativa comunitaria ad essa.

Del resto, gli stessi Tönnies e Durkheim non riescono a nascondere, dietro la patina di distacco e scientificità di cui rivestono i loro scritti, un atteggiamento spiccatamente valutativo nei confronti dell’oggetto delle loro ricerche, e in questo senso possono essere fatti rientrare a pieno titolo in una storia del comunitarismo. Ma, come è stato accennato e come vedremo più analiticamente nelle pagine che seguono, prima ancora che la sociologia iniziasse ad esistere come autonoma branca del sapere, l’antitesi tra due opposte forme di organizzazione sociale – l’una di tipo «comunitario», l’altra di tipo «societario» – era andata chiaramente profilandosi in ambito filosofico.

 

1 M. Sandel, Il liberalismo e i limiti della giustizia (1982), trad. it., Feltrinelli, Milano 1994, pp. 41-48. A Sandel e al comunitarismo contemporaneo sarà dedicato l’ultimo capitolo.

2 H. Plessner, I limiti della comunità. Per una critica del radicalismo sociale (1924), trad. it., Laterza, Roma-Bari 2001, p. 33.

3 V. Turner, Dal rito al teatro (1982), trad. it., Il Mulino, Bologna 1986, p. 89.

4 Cfr. F. Tönnies, Comunità e società (1887), trad. it., Edizioni di Comunità, Milano 1963, p. 242.

5 Ivi, p. 224.

6 Cfr. Aristotele, Politica, 1252 b.

7 Cfr. N. Bobbio, M. Bovero, Società e Stato nella filosofia politica moderna, Il Saggiatore, Milano 1979. Sulla grande dicotomia organicismo/individualismo, quale chiave interpretativa della contrapposizione tra comunitarismo e liberalismo, cfr. anche E. Vitale, Liberalismo e multiculturalismo. Una sfida per il pensiero democratico, Laterza, Roma-Bari 2000, pp. 23-42.

8 Tönnies, Comunità e società cit., pp. 45-46 e 62.

9 Cfr. É. Durkheim, La divisione del lavoro sociale (1893), trad. it., Edizioni di Comunità, Milano 1962.

10 Di Weber cfr. Economia e società (1922), trad. it., Edizioni di Comunità, Milano 1995, vol. I, p. 38; di Gurvitch, Sociologia del diritto (1953), trad. it., Edizioni di Comunità, Milano 1957, pp. 248-251. Nella comunità si realizza per Gurvitch un grado di «fusione del noi» minore di quello riscontrabile nella «comunione», ma superiore a quello della «massa».

11 Cfr. in particolare E. Hobsbawm, T. Ranger, L’invenzione della tradizione (1983), trad. it., Einaudi, Torino 1987; E. Hobsbawm, Nazioni e nazionalismo dal 1780 (1990), trad. it., Einaudi, Torino 1991 e B. Anderson, Comunità immaginate. Origine e diffusione dei nazionalismi (1991), trad. it., Manifestolibri, Roma 1996.