Socialisti, comunisti, anarchici

Il socialismo utopistico

Non è difficile scoprire analogie tra l’antindividualismo e l’anticapitalismo dei conservatori e quelli delle prime correnti socialiste, non a caso indicate, intorno agli anni Venti dell’Ottocento, anche con l’appellativo di comunitarismo. Negli scritti di Saint-Simon (1760-1825), Owen (1771-1858), Fourier (1772-1837), Cabet (1788-1856), Weitling (1808-1871), Proudhon (1809-1865), ma più in generale nella sterminata pubblicistica e libellistica prodotta dal movimento dei lavoratori prequarantottesco, alcuni dei tipici tratti identificanti una concezione comunitarista del mondo compaiono puntualmente, in corrispondenza con la tendenza a spostare l’attenzione dallo Stato alla società, che attraversa l’intero XIX secolo. Certo, non sempre è appropriato parlare di comunitarismo senza ulteriori specificazioni: per Saint-Simon, ad esempio, il compito di instaurare sulla terra il regno della fratellanza, superando il dominio dell’uomo sull’uomo, è affidato essenzialmente alla scienza, in nome di un’utopia tecnocratica che col passare degli anni si carica di venature messianiche. Di comunitarismo si può parlare, in senso più specifico, tutte le volte che i vincoli sociali sono concepiti in modo diretto e sentimentale e lo Stato stesso e i suoi apparati di repressione vengono considerati superflui, di fronte allo spontaneo manifestarsi della fratellanza tra gli uomini; ogni qual volta dietro alla richiesta della comunanza dei beni si nasconde l’aspirazione profonda alla comunione delle anime.

Alla base di molte delle costruzioni utopiche del primo socialismo – spesso a sfondo religioso – c’è l’idea che sia possibile rimuovere le cause non solo dell’ingiustizia e dello sfruttamento, ma di ogni forma di antagonismo, dando vita a una società armonica, in cui la mala pianta della discordia sia estirpata alle radici. Dal punto di vista antropologico, ciò implica la condivisione di una concezione fondamentalmente ottimistica della natura umana o, per lo meno, la convinzione dell’estrema plasmabilità degli animi, attraverso l’educazione e la predisposizione di un ambiente sociale favorevole. Sulla scorta dell’intuizione roussoviana secondo cui i vizi non appartengono all’uomo in quanto tale, ma all’uomo mal governato, il problema diventa trovare un modello di organizzazione sociale che lasci libero corso all’istintiva tendenza umana alla socievolezza e alla cooperazione. Così Fourier riabilita l’intera gamma delle passioni umane e sul principio dell’«attrazione» fonda il proprio progetto di società «armonica», in cui qualsiasi elemento di eterodirezione svanisce e anche le occupazioni più gravose vengono espletate piacevolmente, come per gioco. E Weitling, assumendo a modello la comunione dei beni esistente presso le prime comunità cristiane, fa derivare dall’abolizione della proprietà, dell’eredità e del denaro addirittura l’estinzione dei delitti e la conseguente inutilità delle leggi e delle pene. Come se, una volta rimosse le cause della diseguaglianza fra gli uomini, cessasse d’incanto ogni altro possibile motivo di conflitto e non si frapponessero ulteriori ostacoli al cammino dell’umanità «verso un’altissima perfezione terrena, oggi non pensabile, dove né la libertà né l’uguaglianza abbisognano di una legge scritta da uomini, e l’amore e la concordia diventano una seconda natura»1. Il termine ultimo dell’immaginazione utopica è qui una società spontaneamente buona, in cui l’amore e la simpatia si sostituiscono alle leggi, l’educazione a strumenti coercitivi di dissuasione. Quanta forza sprigioni da una simile utopia lo testimoniano ancora le parole di Engels a proposito della comunità di New Lanark di Owen: «perfetta colonia modello, nella quale l’ubriachezza, la polizia, il giudice penale, i processi, l’assistenza ai poveri, il bisogno di beneficenza erano cose sconosciute»2. Ma il sogno di una società di liberi ed eguali, in cui l’abbondanza resa disponibile dalla razionalizzazione dei rapporti produttivi faccia svanire la competizione e renda superfluo il diritto, attraversa in lungo e in largo la storia delle utopie socialiste, comuniste, anarchiche. Si pensi alla società descritta da William Morris in Notizie da nessun luogo (1891): senza tribunali, né parlamento, né governo, né leggi civili e penali; miracolosamente poggiante su una sorta di armonia prestabilita, che rende possibile la piena soddisfazione dei bisogni e dei desideri di tutti gli esseri umani3.

In realtà quelle che per certi versi appaiono società che «si reggono da sole» e fanno affidamento unicamente sulla naturale socievolezza umana sono spesso il frutto di un’impressionante hybris artificialistica, dell’idea che sia possibile fare tabula rasa dell’esistente e ricostruire la società dalle fondamenta, pianificando e regolando minuziosamente ogni aspetto della vita individuale e collettiva. Così, ad esempio, sarà anche vero che l’organizzazione di Icaria previene «quasi tutti i delitti» e rende le leggi penali «infinitamente semplici e dolci», ma nella società ideale di Cabet non esiste sfera dell’esistenza individuale e collettiva – dall’alimentazione, al vestiario, alla gestione del tempo libero – che si sottragga all’invadente regolamentazione dello Stato4. Ma anche quando la politica effettivamente si ritrae e i suoi apparati di controllo e di repressione escono di scena, non è detto che l’elemento della costrizione non ricompaia surrettiziamente sotto forma di indottrinamento e di ingegnosi sistemi di incentivi morali, tali da compromettere irrimediabilmente l’ispirazione libertaria all’origine di molte utopie socialiste. Si pensi, ancora una volta, alla società ideale di William Morris, in cui chi non chiede spontaneamente perdono per i propri delitti è considerato «malato» o «pazzo» e «viene rinchiuso fino a quando non sarà guarito»5. Al di là delle intenzioni della maggior parte dei socialisti utopisti, l’accordo esistente tra i membri delle loro comunità ideali, quando non confida su una radicale «conversione» della natura umana – l’elemento davvero «utopistico» dei loro progetti – implica pur sempre una qualche regia esterna, più o meno dissimulata, sia essa nelle mani di saggi, anziani, tecnocrati o avanguardie rivoluzionarie.

Niente di simile troviamo in Proudhon. Alieno dal sentimentalismo e dal misticismo di gran parte della filosofia sociale del suo tempo (dall’ultimo Saint-Simon a Fourier – di cui contesta l’esaltazione acritica del principio associativo – fino a Leroux e al Comte della religione dell’Umanità), Proudhon rientra nella storia del comunitarismo ad altro titolo rispetto agli autori precedentemente esaminati. In lui non c’è l’ingenua fiducia, comune ancora a Saint-Simon, a Fourier, a Cabet, nella possibilità di superare con la persuasione i contrasti tra le classi, né il tentativo di dar vita a una società in cui il diritto diventi superfluo6. C’è piuttosto l’idea – non sempre chiara nelle sue implicazioni – della necessità di sostituire il «regno del contratto» a quello della «legge»; il diritto «economico» al diritto «politico»; la giustizia commutativa, orizzontale, tra soggetti posti sullo stesso piano, a quella distributiva, verticale, postulante l’esistenza di un centro superiore ed esterno alla società. Nemico della proprietà statale dei mezzi di produzione non meno che di quella privata, Proudhon si oppone a ogni tipo di centralizzazione economica e politica, a ogni tentativo di imbrigliare l’autonomia delle masse – sia pure in nome di una «ragion di stato della fratellanza» distinta dalla «ragion di stato del capitale» –, a ogni ricerca di una sintesi livellatrice, là dove si tratta piuttosto di garantire l’equilibrio e la reciprocità tra i diversi interessi sociali7. Di qui la sua idea di un’organizzazione mutualistica dell’economia, implicante l’erogazione gratuita del credito alle famiglie e alle cooperative; il progetto di una democrazia industriale, fondata sulla partecipazione operaia alla proprietà e alla gestione delle fabbriche; la sua fede imperitura, sul piano politico, nel principio federalistico. Di qui anche alcune significative prese di posizione in materia di diritto di voto: le riserve nei confronti del suffragio universale «atomistico» (che aveva portato al potere, in Francia, Luigi Napoleone); la ricerca di principi organizzativi che consentano di rappresentare la società nelle sue articolazioni concrete, a partire dai «gruppi naturali» costituiti dai comuni, dai distretti, dalle regioni8. Tutte posizioni che spiegano il ruolo di primo piano riservato a Proudhon da Martin Buber in Sentieri in utopia (1950), opera in cui viene sviluppata una peculiare interpretazione del socialismo utopistico.

Per Buber l’intuizione fondamentale di quella congerie di autori che, a partire da Marx, siamo abituati a chiamare «socialisti utopistici» consiste nell’avere individuato il «male radicale» del capitalismo nella disintegrazione atomistica della società. Con le parole di Buber, il difetto fondamentale della società capitalistica consiste nel suo essere «strutturalmente povera» e destinata a divenire sempre più povera. «Per struttura di una società va inteso il suo contenuto sociale, il suo contenuto comunitario: si deve definire strutturalmente ricca una società nella misura in cui si compone di società genuine, cioè di comunità locali e di lavoro [Orts- und Werkgemeinschaften] e delle loro associazioni per gradi»9. Contro la modalità atomistica con cui si è compiuto il processo di individualizzazione nella modernità, i socialisti utopistici tentano da un lato di preservare le forme comunitarie superstiti del passato, dall’altro di promuovere l’associazionismo in ogni sua forma, guidati dall’intuizione – che Buber ritrova anche in Gierke – che la società, nel senso autentico della parola, non consiste di individui isolati, ma di unità associative. Tra i socialisti utopistici, Proudhon è per Buber il primo ad avvertire consapevolmente l’urgenza del compito di ristrutturare la società, aprendo la strada alla teoria del mutuo appoggio di Kropotkin, agli esperimenti di cooperativismo di William King e Philippe Buchez, al socialismo religioso di Gustav Landauer.

Ciò che accomuna tali autori è per Buber il carattere «topico» dei loro progetti: niente affatto «privo di luogo» il socialismo dei cosiddetti «utopisti» si differenzia da quello marxista per la sua aspirazione a realizzarsi «qui ed ora», nella misura del possibile, senza attendere palingenesi rivoluzionarie. Di particolare interesse sono allora per Buber i mille tentativi comunitari promossi nel corso dell’Ottocento e del primo Novecento, tutti orientati a sperimentare «in piccolo» modelli di convivenza sociale alternativi al capitalismo, attraverso la fondazione di colonie oltreoceano, ma anche di cooperative di consumo e/o di produzione. Si può discutere se gli autori indicati da Buber vadano tutti inseriti a pieno titolo in una storia del comunitarismo o non possano invece essere semplicemente annoverati tra i seguaci dell’associazionismo e del cooperativismo. Questo interrogativo riguarda anche alcuni esponenti di spicco del socialismo e del liberalsocialismo inglese, come Laski e Hobson, o un rappresentante del gildismo come G.D.H. Cole, paladini del decentramento e della democrazia industriale, da realizzarsi anche attraverso il ricorso al principio della rappresentanza funzionale10. Se tutti possono essere compresi nella grande famiglia del pluralismo sociale, va detto che esiste anche un pluralismo di stampo liberale – che va da Tocqueville a Robert Dahl – e un pluralismo propriamente socialista, più che comunitarista11. Il discrimine, probabilmente, va cercato nel modo di concepire i gruppi e nella funzione preponderante ad essi attribuita. Se, seguendo Bobbio, assumiamo che la ragione di vita di ogni ideologia pluralistica sia la lotta contro lo Stato accentratore, un pluralismo di ispirazione comunitaria corregge leggermente il tiro e individua il vero nemico nello Stato burocratico, attribuendo al piccolo gruppo, concepito come sfera di relazioni fraterne e solidali, il compito precipuo di contribuire alla formazione della persona umana. Più che per scongiurare il pericolo del dispotismo (obiettivo tipicamente liberale), l’associazionismo di matrice comunitaria nasce per contrastare la solitudine e l’alienazione dell’individuo moderno, per impedire il suo svilimento e la sua trasformazione in un ingranaggio di macchine molto più grandi di lui. Più che lo sfruttamento (definito marxianamente come l’appropriazione da parte del capitalista del plusvalore prodotto dall’operaio), il socialismo comunitario combatte l’estraneazione inerente alla moderna divisione del lavoro, non solo industriale: la separazione del lavoratore dal suo prodotto, dall’attività lavorativa, dall’essenza umana, dagli altri uomini. Così per Buber le cooperative di consumo e di produzione che si limitano a coinvolgere aspetti parziali dell’esistenza umana si rivelano – al pari dei partiti e dei sindacati – insufficienti ad arginare i processi di disintegrazione sociale, perché esse stesse esposte alla burocratizzazione e alla spersonalizzazione. Solo la «cooperativa completa» o «comunità di vita», basata sulla combinazione di produzione e consumo e sull’esistenza di rapporti di solidarietà concreta tra i membri, potrà effettivamente fungere da cellula di una società riccamente strutturata. «Una reale convivenza tra uomo e uomo – scrive Buber prendendo le distanze dal centralismo sovietico – può fiorire solo dove gli uomini apprendono, discutono, amministrano insieme le faccende reali della loro vita comune, solo dove esistono effettivi rapporti di vicinato, vere gilde»12.

La medesima determinazione a combattere gli effetti disumanizzanti della moderna divisione del lavoro e della compartimentazione delle sfere di vita ad essa collegata si ritrova, negli Stati Uniti, in autori riconducibili all’area anarchica, come Ivan Illich, Lewis Mumford, Paul Goodman, Murray Bookchin. Per Mumford (1895-1990), urbanista e sociologo, candidata ideale a soddisfare l’utopia dell’«uomo completo in una comunità completa» non può che essere la comunità locale, aperta alla cultura cosmopolita, ma con le radici saldamente piantate in un territorio dai confini «naturali», che non coincidono con le frontiere artificiali tra gli Stati-nazione. Per Bookchin (1922), la desertificazione del mondo creata dal mercato deve essere contrastata difendendo e ricostruendo la «base molecolare della società – i rapporti di vicinato, le piazze pubbliche, i luoghi assembleari»: gli spazi insomma delle relazioni «faccia a faccia», le sole idonee a far crescere soggettività autonome, individui completi ed equilibrati dal punto di vista emotivo ed intellettuale13. Un’esigenza analoga esprime Paul Goodman nell’auspicare la creazione di «comunità ricche di conflitti»: gruppi di dimensioni ridotte, su modello dei kibbutzim isrealiani, in cui anche i dissensi possano diventare occasioni per intensificare lo scambio, approfondire la conoscenza, rafforzare la relazione, sfuggendo alla cappa di conformismo e di autoritarismo che finisce col soffocare molte esperienze comunitarie14.

Anche quando è di origine rigorosamente elettiva, la comunità si configura nel caso degli autori sopra menzionati come qualcosa di più di un’entità contrattuale, di un’associazione che nasce per perseguire fini e interessi esterni ad essa. Le relazioni di solidarietà e di amicizia che fioriscono all’interno del piccolo gruppo rappresentano di per sé un valore e al tempo stesso una sfida nei confronti di una società sempre più povera di contatti umani, sempre più fredda, sempre più anonima. Nel rivendicare il primato della dimensione «espressiva» della socialità su quella «strumentale», il movimento del ’68 farà rivivere alcune di queste istanze, che si ripresenteranno altresì nell’ambito della cultura alternativa degli anni Settanta15.

Marx e il marxismo

E Marx? Quale posto assegnargli nell’ambito di questa ricostruzione? Tracce di comunitarismo si trovano sicuramente nel Marx dei Manoscritti economico-filosofici, che nell’alienazione dell’operaio, ridotto a un’appendice della macchina, estraniato dal proprio lavoro, da se stesso, dagli altri uomini, coglie una delle contraddizioni fondamentali del capitalismo, e nel libero associarsi dei proletari intravede non solo uno strumento organizzativo, ma la soddisfazione di un autonomo «bisogno di società», di fratellanza, di contatto umano16. Motivi e istanze che ci sono ormai familiari ricorrono anche in quei passi della Questione ebraica in cui le Dichiarazioni dei diritti, che assumono a proprio referente l’individuo egoista e isolato della società civile, «separato dall’uomo e dalla comunità», sono respinte con radicalità non minore di quella che si trova in Burke o in de Maistre. In realtà, al di là delle analogie superficiali, l’obiettivo dell’attacco marxiano all’individualismo borghese è ovviamente diverso da quello dei nostalgici dell’ancien régime: la critica marxiana ai diritti dell’uomo risente dello strettissimo legame istituito dal liberalismo ottocentesco, sulla scia di Locke, tra libertà individuale e diritto di proprietà, ed è quest’ultimo il suo vero obiettivo. Anche il sarcasmo marxiano nei confronti del giusnaturalismo e delle «robinsonate» contrattualistiche, traccia indelebile della lezione hegeliana, assume ben altro significato: diversamente da de Maistre, che dichiara di non conoscere che francesi, russi, italiani, dietro la maschera del cittadino Marx ritrova borghesi e proletari, sfruttatori e sfruttati.

Se tuttavia, seguendo la consuetudine storiografica consolidata che consiste nel distinguere il giovane Marx dal Marx maturo, ci volgiamo ad esaminare quest’ultimo, il discorso cambia. Ci imbattiamo allora nell’implacabile critico di Proudhon, nel caustico demistificatore di ogni appello ai valori della giustizia e della fratellanza, nel teorico del passaggio del socialismo dall’utopia alla scienza. Al pari di Hegel, Marx rifugge da ogni forma di sentimentalismo e di volontarismo, confidando nella «bronzea necessità» con cui la storia procede nel superare i rapporti di produzione obsoleti, in contraddizione con lo sviluppo delle forze produttive. Non ci possono essere dubbi, inoltre, sul fatto che egli sia un erede dell’Illuminismo; un estimatore di quella «scopa della rivoluzione» che, spazzando via ceti e corporazioni, ha posto le premesse perché si affermasse un superiore modello di formazione sociale. Così come è da ricordare il suo atteggiamento di radicale rifiuto nei confronti delle idee di nazione e di patria, trattate alla stregua di finzioni ideologiche, relitti storici destinati ad essere definitivamente archiviati dopo la vittoria dell’internazionalismo proletario17. E tuttavia, scavando tra le pieghe della sua opera immensa e policentrica, sempre aperta all’interrogazione dei fatti e, anche per questo, non priva di tensioni, aporie, intuizioni sviluppabili in direzioni opposte, non è difficile trovare elementi a favore della tesi dell’affinità tra Marx e la concezione comunitarista del mondo.

Si pensi all’evoluzione del giudizio di Marx nei confronti del populismo russo. I populisti scommettevano sull’esistenza di una «via russa al socialismo» in grado di risparmiare a un paese arretrato e ancora in gran parte contadino il trauma della proletarizzazione delle masse. «La parola socialismo – scrive Herzen tornando a occuparsi della Russia all’indomani delle fallite rivoluzioni del 1848 – non è nota al nostro popolo, ma il suo significato è vicino all’anima dell’uomo russo che viva la sua vita nell’obščina contadina e nell’artel’ operaio»18. Al pari degli slavofili, i populisti maturano la convinzione della centralità della questione contadina in Russia e guardano all’obščina come a un’istituzione carica di potenzialità positive. «Occidentalisti» quanto a formazione intellettuale, Herzen, Bakunin, Černyševskij spogliano tuttavia l’obščina del rivestimento mitico, religioso, nazionalistico in cui l’avevano avvolta Aksakov e compagni, fornendone un’interpretazione laica e in certi casi anche universalistica. Partecipando al dibattito sulla liberazione dei servi sviluppatosi dopo la morte di Nicola I, nel 1855, Černyševskij chiarisce ad esempio che l’obščina va difesa non in quanto istituzione tipicamente russa, incarnazione di un perenne «spirito slavo» antitetico al modo di vita occidentale, ma in quanto forma embrionale di organizzazione collettivistica dell’economia un tempo diffusa in tutta Europa, la cui fortuita sopravvivenza in Russia potrebbe consentirle di «saltare» la fase dell’industrializzazione capitalistica. Influenzati da Fourier, Louis Blanc, Leroux, ma ben presto anche dalle opere di Marx – da essi interpretate, e in parte travisate, alla luce dei particolari problemi che dovevano affrontare – anche i populisti degli anni Settanta e Ottanta coniugano l’esaltazione romantica del popolo e della vita contadina (la cui «pienezza» è contrapposta da Michajlovskij agli effetti disumanizzanti della divisione sociale del lavoro) a progetti di trasformazione dell’obščina in senso socialista, implicanti la rimozione delle incrostazioni feudali e autoritarie di cui era ancora ricoperta19.

La posizione di Marx sulla comunità rurale russa muta col passare degli anni. In una prima lunga fase l’obščina, già al centro dell’attenzione di studiosi niente affatto rivoluzionari come Henry Sumner Maine, August von Haxthausen, Émile de Laveleye20, gli appare indissolubilmente legata alle condizioni generali di arretratezza economica e di dispotismo politico in cui versa la Russia. A partire dalla fine degli anni Sessanta e poi in modo più pronunciato all’epoca delle lettere inviate alla redazione dell’«Otečestvennye Zapiski» (1877) e a Vera Zasulic (1881), Marx lascia invece aperto più di uno spiraglio di fronte all’ipotesi di un’evoluzione in senso socialista dell’obščina, sia pure condizionandola al verificarsi di tutta una serie di circostanze favorevoli, sconfessando implicitamente l’evoluzionismo del «padre del marxismo russo», Plechanov21. Ma ciò che è forse più interessante, perché va al di là del giudizio contingente sulle potenzialità rivoluzionarie della Russia, è che nella lettera a Vera Zasulic compare la caratterizzazione del comunismo come «una rinascita in forma superiore di un tipo sociale arcaico»: la forma primitiva di proprietà comunitaria cui Marx si era interessato studiando l’opera di Morgan. L’idea che l’evoluzione storica verso il comunismo potesse configurarsi, seguendo la scansione triadica della filosofia della storia hegeliana, come il superamento delle scissioni della modernità e la restaurazione, a un grado più elevato di sviluppo, di un presunto stato di armonia e unità originaria compare anche altrove22. E non rappresenta che uno dei numerosi indizi della tendenza di Marx a concepire in modo monistico e organicistico la futura società comunista, in problematico rapporto con l’ispirazione libertaria presente in tante altre sue pagine23.

Più in generale, anche al di là di Marx non si può negare l’esistenza di alcune significative affinità tra l’ideale comunista e la concezione comunitarista del mondo, per lo meno se per comunismo si intende «un progetto di riorganizzazione radicale della società, fondato sull’abolizione della proprietà privata e sulla sostituzione con la proprietà collettiva dei mezzi di produzione [...], culminante nella costituzione di rapporti sociali armonici tali da portare alla definitiva soppressione dei conflitti economici, politici ed etici»24. Nell’aspirazione a edificare una società senza classi, nella quale siano superate una volta per tutte quelle che Hume aveva chiamato le «circostanze della giustizia» (la scarsità naturale e la limitata benevolenza fra gli uomini, all’origine dell’antagonismo sociale) va colto un elemento tipico di una concezione del mondo lato sensu comunitaria, di contro alla lezione liberale classica che considera il conflitto fisiologico e anzi lo valorizza quale indispensabile veicolo di progresso materiale e spirituale. Se poi si aggiunge l’idea – formulata per la prima volta esplicitamente da Engels e da Lenin – dell’estinzione dello Stato, ecco di nuovo balenare la speranza del superamento completo dell’eteronomia: il sogno di una società spontaneamente buona, in cui «la necessità di osservare le regole semplici e fondamentali di ogni società umana diventerà ben presto costume»25.

In verità della teoria dell’estinzione dello Stato nel corso della storia del marxismo sono state fornite interpretazioni molteplici. Quando Kelsen (1881-1973) si occupa di questo tema, negli anni Venti, intende «Stato» alla propria maniera, identificandolo con un ordinamento giuridico coattivo, e ciò che bolla come utopica e indimostrabile è l’idea che in una società senza classi possa venire definitivamente meno ogni esigenza di regolamentare la condotta umana26. Nel replicargli, Max Adler (1873-1937) nega che la teoria marxista dell’estinzione dello Stato implichi l’eliminazione di qualsiasi forma di costrizione e contrappone l’autorità «imposta dall’esterno» (Obrigkeit) dello Stato borghese all’autorità (Autorität) di cui godrebbe un ordinamento socialista, «riconosciuto» spontaneamente da coloro che vi si sottomettono in virtù della «natura delle cose» (le esigenze oggettive dell’organizzazione del lavoro), ma anche del «carisma» dei capi, nell’accezione weberiana del termine27. Di analoghe, improbabili, distinzioni è piena la storia del marxismo. Ciò che qui interessa notare è che la tendenza a svalutare il diritto quale strumento di regolazione sociale conduce fatalmente a pensare la società in termini «comunitari», rivolgendosi alla forza integrativa delle consuetudini, di un’etica condivisa o del carisma. O, ancora, alla concretezza del vincolo esistente tra «compagni», uniti dalla comune condizione di sfruttamento e dall’esperienza di lotta. Così, per il giovane Gramsci, «il consiglio di fabbrica è il modello dello Stato proletario. [...]. Nell’uno e nell’altro il concetto di cittadino decade, e subentra il concetto di compagno: la collaborazione per produrre bene e utilmente sviluppa la solidarietà, moltiplica i legami di affetto e di fratellanza. Ognuno è indispensabile, ognuno è al suo posto, e ognuno ha una funzione e un posto»28.

La tendenza a concepire la società in termini semplificati, a partire dai legami di solidarietà sperimentati tra compagni di fabbrica o di partito, è frequente nella letteratura e nella prassi dei movimenti rivoluzionari. «I rapporti tra i membri del partito – si legge ad esempio nella Dichiarazione costitutiva del Partito italiano del lavoro – saranno naturalmente quelli tra ‘amici’ che si amano e si stimano, per il fatto di ispirare la propria vita alla stessa idealità e per essere passati attraverso il medesimo vaglio». Con questa «testimonianza diretta e immediata – chiarisce un intervento pubblicato sulla rivista del medesimo partito – intendiamo anticipare, per quel che è possibile, la società nella quale crediamo»29. Storicamente, tale tendenza è stata tuttavia spesso affiancata e sopravanzata dall’esigenza diametralmente opposta, che imponeva di erigere un muro tra politica e affetti, disciplina presente e libertà futura, identità pubblica e privata. Della tensione tra la concezione del partito-macchina, mero strumento per la conquista del potere, e i valori umani che pur tuttavia spesso si sperimentavano al suo interno, giocando un ruolo non indifferente nel motivare i militanti, esistono decine di testimonianze, da Silone, a Koestler, a Sartre. Se nella «doppia morale» del rivoluzionario, che impone di calpestare tutti i valori oggi per poterli vedere compiutamente realizzati domani, non si può non ravvisare una delle cause del «capovolgimento» dell’utopia comunista, bisogna tenere presente che anche la tendenza opposta, a concepire il piccolo gruppo come perfetta prefigurazione della società giusta nasconde delle insidie. Prima fra tutte: l’illusione che sia possibile estendere alla società la «legge dell’amore» che vige nella piccola comunità, senza stravolgerne completamente il senso30.

 

1 Cfr. Il socialismo prima di Marx, a cura di G.M. Bravo, Editori Riuniti, Roma 1971, p. 274. Sull’abolizione delle leggi e delle pene, cfr. pp. 298-299.

2 F. Engels, Antidühring (1878), trad. it., Editori Riuniti, Roma 1950, p. 279.

3 In realtà l’immaginazione utopica di Morris non si spinge fino a prefigurare la completa estinzione dei delitti, in seguito all’abolizione della proprietà privata e alla scomparsa delle disuguaglianze sociali. Prevede però che i colpevoli trovino nel rimorso la punizione adeguata alle proprie mancanze, senza il bisogno di pene supplementari da parte della società. Cfr. W. Morris, Notizie da nessun luogo (1891), trad. it., Silva, Teramo 1970, pp. 122-123.

4 Cfr. ad esempio Il socialismo prima di Marx cit., pp. 491-492. Per una critica del carattere autoritario di gran parte della letteratura utopistica, da Platone in avanti, cfr. L. Mumford, Storia dell’utopia (1959), trad. it., Donzelli, Roma 1997.

5 Morris, Notizie cit., p. 123. A incrinare la perfetta armonia della società di liberi ed eguali descritta da Morris contribuisce anche il personaggio del «nostalgico del buon tempo andato», che compare nel XXII capitolo del romanzo.

6 Cfr. G. Gurvitch, Proudhon (1965), trad. it., Guida, Napoli 1974, p. 28.

7 L’espressione «ragion di stato della fratellanza» è riferita a Louis Blanc e al suo arruolamento coercitivo degli operai negli ateliers nationaux, dopo la rivoluzione del ’48, cui Proudhon si opponeva. Cfr. M. Buber, Sentieri in utopia (1950), trad. it., Edizioni di Comunità, Milano 1967, p. 42.

8 Cfr. in particolare P.-J. Proudhon, Solution du problème sociale (1848), in Oeuvres complètes, Lacroix, Bruxelles 1868, e Du principe fédératif (1863), in Oeuvres complètes, vol. XIV, Marcel Rivière, Paris 1959, pp. 344-345.

9 Buber, Sentieri cit., p. 23.

10 Cfr. l’antologia curata da P. Hirst, The Pluralist Theory of the State, Routledge, London-New York 1989.

11 Cfr. N. Bobbio, Il pluralismo degli antichi e dei moderni, in Teoria generale della politica, a cura di M. Bovero, Einaudi, Torino 1999, pp. 271-294.

12 Buber, Sentieri cit., p. 24.

13 Di Mumford si vedano gli ultimi tre capitoli di Storia dell’utopia cit., ma anche La condizione dell’uomo (1944), trad. it., Edizioni di Comunità, Milano 1964. Di M. Bookchin, L’ecologia della libertà (1982), trad. it., Elèuthera, Milano 1995, p. 491.

14 P. Goodman, Individuo e comunità, trad. it. a cura di P. Adamo, Elèuthera, Milano 1995, p. 81. Dello stesso autore, e del fratello Percival, cfr. Communitas. Mezzi di sostentamento e modi di vivere (1960), trad. it., Il Mulino, Bologna 1970.

15 Cfr. in proposito M. Revelli, Il ’68 a Torino. Gli esordi: la comunità studentesca di Palazzo Campana, in La cultura e i luoghi del ’68, a cura di A. Agosti, L. Passerini, N. Tranfaglia, Franco Angeli, Milano 1991, e S. Della Valle, Il ritorno alla comunità come soluzione del problema ecologico-sociale?, in Ecologia e politica. La questione ambientale nella Repubblica Federale di Germania (1970-1990), a cura di E. Bosco, Franco Angeli, Milano 1992, pp. 133-162.

16 Cfr. K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, in Id., Opere complete, vol. III, trad. it., Editori Riuniti, Roma 1976, p. 341: «Quando artigiani comunisti si riuniscono, loro scopo è innanzi tutto la dottrina, la propaganda, ecc. Ma al tempo stesso si appropriano con ciò [di] un nuovo bisogno, il bisogno della società, e quel che appare un mezzo diventa uno scopo. Questo movimento pratico lo si vede nei suoi risultati più splendidi quando si osservano degli ouvriers socialisti francesi riuniti. Fumare, bere, mangiare, ecc., non sono più ivi mezzi di unione o associativi: la società, l’unione, la conversazione, che la loro società ha per scopo, bastano loro, la fraternità umana non è presso di loro una frase, ma la verità, e la nobiltà dell’umanità ci splende incontro da quelle figure indurite dal lavoro».

17 Nell’ambito del marxismo il concetto di nazione tornerà invece a giocare un ruolo di rilievo a partire da alcuni scritti di Kautsky e poi soprattutto nelle opere degli austromarxisti Karl Renner e Otto Bauer. Di quest’ultimo, si veda La questione nazionale, a cura di N. Merker, Editori Riuniti, Roma 1999 (trad. parziale di Die Nationalitätenfrage und die Sozialdemokratie, Verlag der Wiener Volksbuchhandlung, Wien 1907), in cui la nazione viene definita come una «comunità di carattere nata da una comunanza di destino» (p. 40). Bauer formula tale definizione dopo avere preso le distanze sia dal «materialismo nazionale» dei teorici della comunità di sangue, sia dallo «spiritualismo nazionale» dei seguaci della scuola storica, che pretende di spiegare la differenza tra i diversi sistemi giuridici a partire dallo spirito dei diversi popoli. Per Bauer, al contrario, la particolare «indole» di ogni popolo è proprio ciò di cui una teoria marxista della nazione deve spiegare l’origine, applicando il metodo del materialismo storico.

18 Citato da F. Venturi, Il populismo russo, Einaudi, Torino 1952, vol. I, p. 160.

19 Sui rapporti di Marx ed Engels con il populismo, oltre al classico studio di Venturi, si veda A. Walicki, Socialismo russo e populismo in Storia del marxismo, vol. II, Il marxismo nell’età della Seconda Internazionale, Einaudi, Torino 1979, pp. 362-388. Su Michajlovskij, cfr. le pp. 363-365.

20 Cfr. in proposito Un altro modo di possedere, a cura di P. Grossi, Giuffrè, Milano 1977.

21 In realtà le considerazioni più significative sulla comune agricola russa non si trovano nella lettera effettivamente inviata da Marx a Vera Zasulic, ma nei quattro abbozzi di questa, la cui esistenza testimonia della difficoltà con cui Marx affronta una questione che rischia di mettere a soqquadro il suo intero impianto teorico. Cfr. K. Marx, Russia, trad. it., Editori Riuniti, Roma 1993.

22 Cfr. ad esempio Teorie sul plusvalore, vol. III, trad. it., Editori Riuniti, Roma 1979, p. 173, in cui si parla della «necessità della separazione, della lacerazione, della contrapposizione di lavoro e proprietà» come premessa per il ristabilimento dell’«unità originaria».

23 Sulla compresenza in Marx di organicismo e individualismo, cfr. J. Elster, Making Sense of Marx, Maison des Sciences de l’Homme-Cambridge University Press, Paris-Cambridge 1985.

24 M.L. Salvadori, Comunismo, in Enciclopedia delle scienze sociali, vol. II, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1992, p. 188.

25 Lenin, Stato e rivoluzione, citato in I marxisti e lo Stato, a cura di D. Zolo, Il Saggiatore, Milano 1977, p. 144.

26 «Ma l’eliminazione di ogni sfruttamento muterà la natura umana in maniera così profonda che ognuno appresterà spontaneamente il lavoro [...]? Persino se la spontanea sottomissione all’ordinamento del lavoro può essere assunta come regola, non può non essere prevista la coercizione per l’inevitabile eccezione – in tutte le circostanze – allo stesso modo in cui, anzi, anche l’ordinamento borghese si rivolge, con i suoi mezzi costrittivi, per lo più contro eccezioni: ma un ordinamento costrittivo deve esistere a causa di queste eccezioni!». Cfr. H. Kelsen, Socialismo e Stato. Una ricerca sulla teoria politica del marxismo (1923), trad. it., De Donato, Bari 1978, pp. 48-49. Sempre di Kelsen, si veda La teoria politica del bolscevismo e altri saggi, a cura di R. Guastini, Il Saggiatore, Milano 1981.

27 Cfr. M. Adler, La concezione dello Stato nel marxismo (1922), trad. it., De Donato, Bari 1979, p. 246. Questo libro rappresenta una critica particolareggiata della prima edizione di Sozialismus und Staat di Kelsen, apparsa nel 1920. Le risposte di Kelsen a Adler sono contenute nella seconda edizione dell’opera, del ’23, molto più ampia della precedente.

28 A. Gramsci, Sindacati e consigli, in «L’Ordine Nuovo», 11 ottobre 1919; ora in L’ordine nuovo. 1919-1920, Einaudi, Torino 1987, pp. 238-239. Ben più complessa è la posizione del Gramsci maturo.

29 Citazioni tratte da C. Pavone, Una guerra civile, Bollati Boringhieri, Torino 1995, p. 524.

30 Sulla tirannia del «dovere d’amore» in cui cade inesorabilmente ogni società che abolisce lo Stato e il diritto, cfr. A. Gorz, Addio al proletariato (1980), trad. it., Edizioni Lavoro, Roma 1982, cap. 4.